Rotta verso nord

Cuore
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“Rotta verso nord”, pubblicata sul n. 8 di Confidenze, è la storia vera più apprezzata della settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

Le notti bianche, il vento tagliente, il mare blu cobalto. Ero una ragazzina, che attraversava un periodo difficile in famiglia: durante quel viaggio scoprii paesaggi mozzafiato e vissi un momento magico

Storia vera di Simona Maria Corvese

 

Ho sempre pensato che per trovarsi bisogna prima perdersi. Un viaggio in mare è il luogo migliore dove smarrirsi, per potersi ritrovare. Avevo 17 anni quando intrapresi il mio primo tour all’estero, affidata a un’amica di famiglia. Quell’estate mio nonno era in ospedale, malato terminale. I miei genitori e io avevamo affrontato un lungo periodo fatto di ambulatori e brutte notizie. Eravamo tutti provati da quella situazione che sembrava non avere speranze di miglioramento.

La vita è fatta di bei momenti, ma anche di situazioni dolorose che è giusto fronteggiare pure in giovane età e questo l’ho capito presto. Quando avevo 13 anni imparai a cucinare per mio nonno che era diventato diabetico e doveva seguire una dieta rigorosa. In quel periodo mia mamma era impegnata ad assistere la nonna, in ospedale per problemi cardiaci. Io ero l’unica persona che potesse occuparsi del nonno. E lui l’unica persona che potesse occuparsi di me.

L’estate dei miei 17 anni, tuttavia, i miei genitori non vollero che io la passassi tra malati terminali. Vedendomi incupita, mi regalarono qualche giorno di vacanza per allontanare le preoccupazioni vissute. Sarei partita per un viaggio di mare sull’Hurtigruten, la nave postale norvegese che tocca tutti i fiordi, partendo dalla città di Bergen e arrivando a Kirkenes, con 34 scali.

La ricorderò sempre come l’esperienza più emozionante della mia vita. Le notti bianche, i colori nordici, il vento tagliente, i panorami mozzafiato e il mare del nord blu cobalto ti mettono in contatto con la parte più profonda della tua anima. Non devi far altro che abbandonarti alla forza di quella natura selvaggia per capire chi sei e dove vuoi andare.

Ma ciò che ricorderò per sempre è l’incontro con un giovane gentile, non molto più grande di me, e quanto accadde la prima notte di navigazione, mentre facevamo rotta verso nord.

Dopo esserci imbarcate sulla Hurtigruten e aver sistemato i nostri bagagli in cabina, Elena, l’amica di famiglia, e io salimmo sul ponte della nave che dava accesso alle balconate panoramiche esterne. La nave aveva già preso il largo ed eravamo in attesa del pranzo serale. Rinunciai a uscire perché c’era troppo vento. Mi limitai a osservare l’inizio della notte bianca dal finestrone del ponte. Il sole si abbassava all’orizzonte e, solo in quel momento, realizzai che quella sarebbe stata la mia prima notte bianca. Sentii degli schiamazzi e mi voltai di scatto. Proprio nel centro della hall, due ragazzi, palesemente ubriachi, stavano importunando i turisti. Erano vestiti da punk e avevano le teste rasate ai lati, con creste inverosimilmente colorate. A un certo punto uno di loro prese di mira me. Non capivo una parola di quello che diceva, ma il suo sguardo era minaccioso e volgare. Mi intimoriva.

 

Fu in quel momento che un giovane ufficiale della marina norvegese mi si parò davanti. Io non sono molto alta, ma lui lo era e aveva spalle larghe. La sola presenza di quel ragazzo in divisa bianca, con le mostrine nere sulle spalle e il cappello bianco con la visiera nera, mi fece sentire al sicuro.

Pronunciò una sola frase, ma con un tono sicuro e pacato che non ammetteva repliche. I ragazzi sparirono velocemente dalla circolazione. Lui si voltò verso di me e mi sorrise, poi si allontanò.

Provai un tuffo al cuore: era un ragazzo bellissimo, dai tipici lineamenti nordici e mi aveva guardata come un uomo guarda una donna, ma senza alcuna volgarità.

Quella sera, a cena, sentii da altri turisti italiani che quei ragazzi erano norvegesi e che il capitano era stato informato della presenza di alcuni teppisti che avevano molestato verbalmente i turisti. La nave avrebbe navigato in mare aperto tutta la notte, ma loro sarebbero scesi la mattina seguente al primo scalo possibile, ad Alesund.

Rientrata in cabina, mi resi presto conto che non sarei riuscita a dormire. Era stata una giornata ricca di emozioni e anche d’imprevisti spiacevoli. Faceva caldo e mi mancava l’aria. Elena, con la quale condividevo la cuccetta, dormiva profondamente. Prima di ritirarci per la notte avevamo progettato di alzarci alle prime ore del giorno per vedere le luci dell’alba nordica. Vedendola sprofondata in un sonno così pesante, non la volli svegliare.

Scesi dal letto a castello, indossai i jeans, la felpa con cappuccio e uscii senza fare rumore. Salii le scale deserte e raggiunsi il ponte principale, avvicinandomi al finestrone per osservare il panorama. Che delusione provai: quello che vidi non era molto diverso dal sole di mezzanotte. Mi ero aspettata luci più violacee…

Un monitor gigante appeso alla parete e collegato al computer di bordo mostrava in tempo reale la posizione della nave e la rotta che stava tenendo. Alle mie spalle il personale di bordo era già operoso in un continuo andirivieni di divise immacolate della marina.

«Is it all ok? May I help you?» (Va tutto bene? Posso esserti d’aiuto?).

Mi voltai riconoscendo quella voce profonda. Era il giovane ufficiale che mi aveva difesa poche ore prima.

Arrossii di fronte a quel sorriso aperto che incrociavo per la seconda volta nella stessa giornata. Era così affascinante nella sua uniforme.

«Va tutto bene, sei gentile» risposi, sorpresa e felice di vederlo. «Non riesco a prendere sonno e sono venuta qui per vedere l’alba» gli spiegai, indicando il panorama che s’intravedeva dalla finestra.

«Ti posso prendere una camomilla?» mi chiese, stupendomi ancora di più con la sua spontaneità.

«Aspettami qui, torno subito» aggiunse senza darmi il tempo di rispondere. Il suo tono di voce era lo stesso che aveva usato con i ragazzi: cortese, sicuro e fermo; il modo di fare era risoluto, tipico di un militare.

 

Lo vidi allontanarsi da me, muovendo in direzione del bar ma, dopo pochi passi, si fermò e si voltò nella mia direzione. «Non uscire da sola sul ponte» mi ordinò sorridente. «Non si esce mai da soli sul ponte di una nave, soprattutto se è ancora notte». Mi guardò dritto negli occhi, trasmettendomi tutta l’autorevolezza della divisa che indossava con i relativi gradi. Ma mi accorsi che il suo sguardo si addolciva mentre si rivolgeva a me come fossi un bambino. Mi piaceva quel modo di fare così protettivo,

Poco dopo lo vidi arrivare con una tazza di camomilla. Nell’avvicinarsi, incrociò un collega ufficiale e scambiarono qualche parola. Si voltarono verso di me e ridacchiarono, poi si salutarono e lui mi raggiunse. Ci accomodammo su un divanetto nella hall della nave.

L’osservai incuriosita: aveva occhi azzurri limpidissimi e i capelli castano chiari; da bambino doveva essere stato un vero biondo. Notai che anche lui mi stava studiando, forse rilevando che avevo colori opposti ai suoi: i capelli neri e negli occhi una tavolozza di colori dell’autunno, cioè nocciola misto a verde con pagliuzze dorate.

C’era qualcosa in lui che mi faceva vibrare. Forse era perché mi osservava con intensità. Avevo l’impressione che il suo sguardo riuscisse a entrare in me, toccando corde profonde.

Gli sorrisi e in quel momento mi resi conto che mi piaceva. Subito dopo, imbarazzata da quello che provavo, distolsi lo sguardo. Lui ridacchiò, ma non distolse il suo.

Si chiamava Erik e aveva 25 anni. Pensavo che fosse più vecchio per il suo modo di fare. Io, al confronto, sembravo una bambina.

Ripensandoci, gli devo aver dato un bel da fare quella notte, con tutta l’incoscienza e l’ingenuità dei miei 17 anni. Ero uscita da sola dalla mia cabina senza avvertire Elena. Mi ero messa a girare per la nave semideserta senza che mi sfiorasse minimamente il pensiero di potermi imbattere di nuovo nei punk ubriachi della sera precedente. Avevo avuto anche l’idea di uscire sul ponte per respirare l’aria pura dell’alba e ammirare le luci dei centri abitati sulla costa.

Parlammo a lungo quella notte con la sensazione di conoscerci da sempre. Gli raccontai di mio nonno, dei lunghi mesi di preoccupazione che avevo passato, di quanto mi aveva turbato l’episodio spiacevole dei punk. Condivisi con lui tutti i pensieri che avevano contribuito a non farmi prendere sonno.

«Non riesco proprio a svuotare la mente, a entrare nell’idea che sono in vacanza» gli confidai.

In realtà, il solo parlare con lui che era così gentile riusciva a rilassarmi. Dopo qualche tempo si alzò dal divanetto e mi indicò il finestrone che dava sul ponte esterno, quindi si diresse verso lo schermo collegato con il computer di bordo. Mi fece vedere che, dal mare aperto, la nave aveva doppiato Vestkapp e stava facendo rotta verso Tørvik, un paesino rurale della costa norvegese, a sud di Alesund. Ero affascinata dalle parole di Erik che mi descrivevano quel luogo.

«Vieni» mi disse. «Andiamo a vedere le luci della costa».

Lo seguii e rimasi con il naso a un millimetro dal vetro della finestra, incantata ad ammirare quel presepe nordico. Questa volta fui soddisfatta: era proprio come mi ero aspettata. Il tipico paesino della costa norvegese, con le casette rosse e i tetti neri, una visione estremamente rilassante.

Alle nostre spalle l’andirivieni del personale di bordo si faceva sempre più animato. Guardai l’orologio e mi accorsi che erano le cinque di mattina.

 

La luce del sole che non era mai tramontato all’orizzonte, si faceva sempre più intensa. Rimanemmo lì a conversare ancora quasi per un po’, poi Erik mi propose di andare a fare colazione insieme.

«Ma sono solo le sei» esclamai sorpresa. «Mi hanno detto che le cucine aprono alle sette» aggunsi.

«Sì, per voi turisti. Per il personale di bordo sono già aperte» mi sorrise divertito. «Il mio turno finisce alle sei, poi vado a dormire. Che ne dici, Simona, facciamo colazione insieme?».

Erik aveva trovato un’ottima idea per stare ancora un po’ insieme, un desiderio che provavamo tutti e due, evidentemente.

Quella notte insonne mi aveva messo appetito. Cominciavo a entrare nello spirito della vacanza, forse senza la spensieratezza che avrei potuto sperare, visto che dentro di me rimaneva il pensiero per mio nonno. Il mio volto doveva in qualche modo esprimere quella preoccupazione.

«Sei preoccupata per tuo nonno?» mi chiese infatti Erik.

Gli confidai che speravo non dovesse morire proprio mentre ero lontana dall’Italia. Forse per reazione a quel pensiero divorai un muffin ai mirtilli e, su suggerimento di Erik, assaggiai una deliziosa gelatina di fragole. Tutto buonissimo, ma per me una colazione non era tale se non era accompagnata da un glorioso cappuccino!

«Sei proprio un’italiana» sorrise divertito Erik mentre mi osservava gustarlo.

«E tu sei proprio uno scandinavo» ribattei convinta vedendolo divorare la sua pantagruelica colazione. «Che cosa mangi?» gli chiesi, praticamente ipnotizzata dalla fetta di pane che aveva in mano, ricoperta con salmone affumicato, fette di formaggio e insalata riccia rossa.

«È uno smorbrød, un panino aperto» mi spiegò.

Dopo colazione ci salutammo e io ringraziai Erik per la pazienza che aveva avuto nell’ascoltarmi tutta la notte.

La mattina seguente l’Hurtigruten fece scalo ad Alesund. Elena e io andammo a visitarla, su consiglio di Erik. Mi aveva suggerito di non perdermi gli eleganti edifici in stile Liberty. Nei giorni seguenti, incontrai ancora Erik e trovammo altre occasioni per conversare, sempre felici di poter trascorrere qualche momento insieme.

Quando il viaggio volse al termine, ci salutammo con una punta di tristezza: lo ringraziai di cuore e gli dissi che lo avrei sempre ricordato.

«Anch’io non ti dimenticherò» mi rispose lui, stringendomi la mano con malinconia. Quindi mi attirò a sé per abbracciarmi.

Tornata in Italia, raccontai quella bellissima esperienza a mio nonno che era lì ad aspettarmi e gli feci vedere le tante foto che avevo scattato. Non gli parlai della mia infatuazione per Erik, ma lui se ne accorse.

«Non vergognarti mai dei sentimenti che provi. Sono un dono del cielo, come tu lo sei per me. L’affetto che dai e ricevi non muore mai». Un mese dopo morì. Non ho più rivisto Erik, ma il ricordo di quel ragazzo sensibile che mi è stato vicino in un momento difficile è ancora vivido in me e sempre lo sarà.

 

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