Sara, la matta

Cuore
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È stata la storia più votata per il n.41, dedicata alla giornata della salute mentale del 10 ottobre. Ora la puoi rileggere sul blog

Quell’estate i miei si erano appena separati e io la passai nel paese dei nonni, alle pendici dell’Etna. Lì viveva una donna che tutti consideravano stramba, anche se non pericolosa. Io ero un bambino solitario, con tante paure nascoste. Qualcosa mi attirò verso di lei. In modo irresistibile

 

storia vera di Loris T. raccolta da Alessandra Mazzara

Avevo nove anni quando i miei si separarono e venni affidato a mia madre. Ci trasferimmo nel paesino dei nonni materni, un fazzoletto di terra alle pendici dell’Etna, gelido in inverno e bollente in estate, dove il tempo passava lento e nulla mai accadeva. Era la fine di settembre. Laggiù, la mia vita continuò così come continua sempre la vita dei bambini quando vengono travolti dagli errori dei grandi. C’erano, in questa nostra nuova sistemazione, davvero poche cose da fare e tanta, tantissima, solitudine.

Mi annoiavo. E mi sentivo davvero molto triste.

Quando arrivò l’estate, con lei arrivarono il sole sulla testa e i tuffi al mare, i ghiaccioli leccati in piazza e la sabbia tra i capelli, i canti delle cicale la sera e le cene nel piccolo giardino, sotto la luce della luna. Unici versi stonati di una tale poesia, erano le passeggiate al mattino con nonna Caterina. Mi costringeva ad alzarmi presto, fingendosi sorda ai miei lamenti e alle richieste di restare a sonnecchiare a letto un altro po’. Dopo tutto, era estate, ero in vacanza. Ma nonna Caterina era un generale. Le avessero dato un esercito da guidare, avrebbe vinto tutte le battaglie. Quindi, dopo una colazione abbondante, a piedi e con la sola fede incrollabile in Dio di nonna a proteggerci da quel sole soffocante, ci incamminavamo per le stradine del paese. Nonna mi portava ovunque: dal panettiere, al tabacchino per le sigarette del nonno, dal fruttivendolo, dal macellaio o in pescheria, a seconda del menu che aveva in mente, in farmacia, dalla sarta, e già che c’eravamo, a fare un po’ di “spesuccia”, come chiamava lei quel triathlon che avrebbe steso al tappeto il migliore degli atleti, alle tre botteghe di alimentari del paese.

Quel giorno, di ritorno da quelle spese, per caso avevo rivolto lo sguardo verso una fila di casette che mi si parava davanti. Una, in particolare, mi colpì.

Dipinta di blu, con una porta rossa, aveva nel giardinetto davanti un mandarino smilzo, sui cui rami erano appesi dei cartoncini colorati. Sulla facciata pendevano delle lucine a intermittenza multicolor e su una panchina in ferro battuto stavano allineati uno accanto all’altro dei peluche. Ne rimasi affascinato. Quella casetta pareva uscita da un libro di fiabe.

«Nonna» la chiamai. «Chi ci abita in questa casa?» chiesi poi indicandola con il dito.

Nonna fece qualche passetto veloce verso di me e si fermò. «Ci sta Sara la matta. Dai, muoviti, che devo ancora cucinare».

Gettai un ultimo, intenso, sguardo verso quella casa, restandone sempre più ammaliato. Non so se per la bizzarra decisione di appendere le luci dell’albero di natale, o se per quella facciata dipinta di blu, o se per i pupazzi o per quegli strani cartoncini appesi all’albero. Quella casetta mi aveva stregato. «E chi è?», chiesi a nonna, affrettando il passo e raggiungendola.

«Una compaesana che non ci sta più con la testa».

«La conosci?».

«Tutti qui la conoscono».

«E perché è pazza?».

«E che ne so io? È completamente fuori di testa, Loris. Se la incontri, non ti ci avvicinare, senti a me».

«È pericolosa?».

Nonna entrò in una merceria e io la seguii. «Ma no, non farebbe male neanche a una mosca».

«Allora perché non mi devo avvicinare a lei?».

«Perché non ragiona, quindi, è meglio tenerla lontana. Non si può mai sapere».

Tornammo a casa. Aiutai nonna ad apparecchiare.

Chiacchierai con nonno. Pranzammo, poi mi buttai a letto. E tutto questo con un solo pensiero in testa: conoscere la signora Sara ed entrare in quella casa. Perché, diciamocelo: cosa c’è di più allettante, per un bambino, di una cosa proibita? Mancava una settimana al mio decimo compleanno. Quando mamma mi chiese cosa desiderassi ricevere in regalo, non ci pensai su neanche un attimo.

«Una bicicletta nuova».

«Ottima idea» mi disse scompigliandomi i capelli. «Ti servirà anche per tenerti un po’ in forma».

Mi diede un pizzicotto sui fianchi abbondanti, poi tornò alle sue cose. Io, invece, con i pensieri, volai alla casetta della matta. Era a quello, che mi serviva la bicicletta: poterla raggiungere velocemente e con una scusa.

 

 

 

Arrivò il compleanno. Spensi le candeline, mangiammo la torta, i nonni mi rifilarono 10.000 lire in tasca facendomi l’occhiolino e sussurrandomi: «Questi sono da parte nostra, comprati quello che vuoi», manco fosse uno scambio illecito, salii in sella e partii.

«Non ti allontanare dal paese, però» fu l’unica raccomandazione di mia madre. Era la fine degli anni ’80. Si stava all’aperto, ci si sbucciava le ginocchia, ci si rincorreva nelle piazze. E i genitori non se ne curavano più di tanto, convinti che solo attraverso quelle piccole libertà saremmo davvero, un giorno, diventati grandi. Ma tanto, io ad allontanarmi dal paese, non ci pensavo minimamente. Anzi, era proprio là che volevo restare. Feci qualche giro un po’ in tondo e senza meta, giusto per non dare troppo nell’occhio, poi imboccai la viuzza sterrata alle spalle della chiesa. La casetta dipinta di blu era là. C’erano i pupazzi, c’erano le luci di Natale, c’erano quegli strani cartoncini colorati appesi ai rami del mandarino. E gatti. Tanti gatti. Una decina di randagi dai mille colori si aggiravano intorno e dentro il piccolo giardino. Incerto sul da farsi, mi asciugai il sudore sulla fronte col palmo della mano. Faceva così caldo che stare per strada era un tormento. All’improvviso la porta si aprì e una donna sbucò fuori. Sara.

Sara, la matta.

Se la casa sembrava uscire fuori da un libro per bambini, quella donna, allora, veniva direttamente dal mondo delle fiabe. Poteva avere per me 60 o 100 anni, non avrei saputo dirlo. I capelli erano tagliati a caschetto, con una frangia scompigliata. Erano bianchi con qualche filo ancora nero, una resistenza ad un passato che, probabilmente, da quel corpo non voleva proprio andar via. La pelle del viso era piena di rughe e un’espressione accigliata le conferiva una smorfia al viso indecifrabile. Ma la cosa che più mi colpì fu il suo abbigliamento. Indossava un maglioncino a maniche lunghe fucsia e un paio di shorts leopardati che mettevano in risalto le gambe leggermente storte, pallide e ossute, su un paio di stivali neri. Come facesse a resistere al caldo con quella roba addosso, non saprei. Si muoveva lentamente e in maniera non molto coerente, come se lei stessa non sapesse cosa fare.

Poi, d’un tratto, prese da non so dove un innaffiatoio e cominciò a bagnare delle piantine. Strinsi ancor di più gli occhi e restai a bocca aperta: l’innaffiatoio era vuoto e le piantine finte. Finito questo, si sedette sulla panchina, prese uno dei peluche e iniziò a cullarlo come fosse un bambino. Un gatto, uno di quelli neri con muso bianco, fece un balzo dall’albero, le saltò sulla schiena e là rimase, acciambellato.

Nonna aveva proprio ragione: quella donna era davvero matta. Eppure, c’era qualcosa in lei che attirava la mia curiosità in un modo quasi morboso. Cercai di avvicinarmi ancora un altro pochino e fu in quel momento che lei alzò lo sguardo su di me e mi vide. Non urlò. Non si arrabbiò.

Non mi chiese nulla. Mi sorrise.

Poi, come fosse una bimba incontrata al parco, mi disse: «Lo vuoi il caffè? L’ho appena fatto».

Spiazzato da quella reazione e spaventato da un rimprovero che mi aspettavo ma che, invece, non era arrivato, scappai come un ladro, correndo a più non posso verso casa, promettendomi di non farlo più. Quella, sarebbe stata l’ultima volta. Non mi sarei avvicinato a quella donna per nessuna ragione al mondo, mai più avrei curiosato tra le sue cose. Arrivai a casa dei nonni fradicio di sudore. Feci la doccia. Cenai. Chiacchierai con i nonni. Lessi il mio fumetto preferito. Guardai la tivù con il nonno.

Poi andai a letto, dicendomi che, a pensarci bene, non era stata poi una così spaventosa esperienza. La matta mi aveva sorriso ed era un sorriso buono. Chiusi gli occhi. Non prima, però, di ripromettere a me stesso che sarei tornato in quella casetta blu già dall’indomani.

 

 

 

E così fu. Tornai, mi avvicinai al cancello, poggiai la bici contro il muretto e restai in attesa che lei spuntasse, mentre la colonia di felini mi guardava con sospetto.

Lei aprì la porta rossa dopo pochi minuti. Quella volta indossava una gonna lunga e ampia e una camicia chiara. Tra i capelli aveva, invece, una pinza con un fiore gigante viola. Era truccata in malo modo, con le palpebre dipinte di azzurro e un rossetto rosso sbavato. Sembrava un clown un po’ disfatto e stanco.

«Sei tornato» mi disse. Restai impassibile. «Vuoi dare da mangiare ai miei amici?».

Feci di sì con la testa, manco m’avessero mangiato la lingua. Sara aprì il cancello e io entrai in giardino. Nelle orecchie, il ronzio degli ammonimenti di nonna: “Se la incontri, non ti ci avvicinare, senti a me. È fuori di testa, non si sa mai. Meglio starle lontani”.

«Come ti chiami?» mi chiese.

«Loris».

«Io sono Sara. Loro sono Gerry, Pupa, Molly, Fido…».

Cominciò a elencare una sfilza di nomi, indicando per ciascuno un gatto. Poi si voltò verso la panchina. «Invece, loro sono Teddy, Lillo, Giufà e Mimmi».

Erano i nomi dei pupazzi.

«Ti piacciono?».

Feci di nuovo di sì con la testa.

«Anche a me. Vieni dentro, andiamo a prendere le crocchette per i gatti».

Col cuore che batteva a mille, la seguii.

Non c’era ordine, né pulizia. Tutto stava accatastato alla rinfusa e l’olezzo di urina dei gatti era quasi invadente, mescolato a quello della polvere e della naftalina. Sara prese tre scatole di crocchette e tornammo in giardino, dove finalmente potei tornare a respirare.

«Tu riempi quelle ciotole, io mi occupo di queste» mi disse senza troppe cerimonie e dandomi una scatola di croccantini. Obbedii.

Poi, mentre i gatti mangiavano e le nuvole si spostavano lente sulle nostre teste, io e Sara ci sedemmo sulla panchina. Mi passò un pupazzo, un pappagallo rosso e giallo lercio e senza una zampa. «Abbraccialo. Ha tanto bisogno d’amore».

Lo abbracciai, sperando che la puzza non rimanesse sulla mia maglietta.

«Sei qui da poco?» mi chiese poi.

«Sì. Prima vivevo a Catania».

«Ti piace stare qui?».

«Così così».

«A me piace tanto. Qui vedo il cielo. Mi piace la pioggia quando cade e mi bagna i piedi. Mi piace il vento in faccia e l’odore della terra…».

Non dissi nulla. Facevo fatica a seguire il flusso dei suoi pensieri. Sara parlava e mentre lo faceva il suo sguardo era perso, alla ricerca di qualcosa che non c’era o che, forse, vedeva solo lei.

«Sono tutti suoi, i gatti?».

Sorrise. «No, no. Loro non appartengono a me. Appartengono alla vita, al ciclo naturale delle cose. Io gli do solo da mangiare e qualche carezza. Loro, invece, mi danno tanto amore». Poi mi guardò dritto negli occhi. I suoi, marroni e profondi, i miei verdi e ancora innocenti.«E, dimmi, Loris. A te, chi te lo dà, l’amore?».

Quella domanda fu come una lama tagliente al centro del cuore. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. In preda all’imbarazzo, mi alzai di scatto, facendo cadere per terra il pappagallo.

«Io… devo andare» balbettai.

Salii sulla bici e scappai per l’ennesima volta.

Ma stavolta, non scappai per la paura.

Scappai per la tristezza.

Lasciai la matta sulla sua vecchia panchina, a pettinare una bambola di pezza cui mancava un occhio.

Nella strada verso casa, piansi calde lacrime che il vento mi asciugava pietoso.

Chi me lo dava, l’amore?

Forse mamma, sempre troppo presa dal lavoro?

Forse nonna, sempre di fretta e distratta?

Forse nonno, chiuso nel suo egoismo?

O, forse, mio padre, che non mi chiamava mai, né sembrava curarsi di me?

 

 

 

Quando il giorno dopo tornai alla casetta blu, Sara mi aspettava sull’uscio.

«Entra, Loris. I gatti ti aspettavano».

Poggiai la bici, entrai. «Signora Sara, volevo chiederle scusa per ieri, io non volevo…».

«Zitto» mi disse, coprendo la bocca con l’indice. «Stanno riposando». Indicò la panchina. Sopra, i pupazzi stavano tutti supini, i loro occhi di plastica e vetro fissi contro il cielo. «Vieni, entra. Hai proprio la faccia di uno che ha bisogno di un bel bigliettino».

Cosa intendesse, lo capii una volta entrato in casa. Mi fece sedere e mi diede dei piccoli cartoncini colorati con un piccolo buco all’estremità, un pennarello nero, un nastro.

Poi, si sedette accanto a me. «Scrivi, Loris».

«Ma cosa dovrei scrivere?».

«Quello che senti in fondo al tuo cuore».

Restai qualche secondo a pensare. Poi, come un fiume in piena, riempii sei bigliettini. Scrissi di quanto mi mancasse papà. Della paura di perdere i nonni, di giorno in giorno sempre più vecchi. Di mamma e dei suoi silenzi che mi facevano male. Della sua assenza, che era troppo rumorosa, un frastuono tra i miei pensieri. Degli amici che non avevo e che tanto avrei voluto. E della paura di diventare grande troppo presto.

Sara scrisse i suoi. Poi, li raccolse tutti quanti e mi disse di seguirla in giardino. Dal buchetto sui cartoncini fece passare un piccolo nastro che chiuse con un nodo.

«Ora puoi appendere i tuoi pensieri. L’albero si prenderà cura di loro. Il vento li cullerà. E tu non ti sentirai più solo». Appesi il mio dolore a quei rami, mentre Sara faceva lo stesso con il suo.

«Tornerai domani?» mi chiese.

«Certo».

Lei mi sorrise, un gatto sulla spalla e un altro in braccio.

Io salii sulla mia bici. Nella strada di ritorno piansi.

Ma stavolta non erano lacrime di tristezza.

Erano lacrime liberatorie. Quando il giorno dopo tornai alla casetta blu, qualcosa era cambiato. Non c’erano i gatti, le lucine erano spente, i pupazzi ancora supini a faccia in su. Bussai. Nessuno venne ad aprire.

«Ma che, stai cercando la matta?» mi disse il vicino della casa confinante. Era in boxer azzurri, una canottiera bianca stretta sulla pancia prominente. «L’hanno portata in ospedale, a quella là. Ogni tanto se la vengono a prendere. La trattengono tre, quattro giorni al massimo e poi, purtroppo, ce la riportano qua». L’uomo strinse gli occhi come a volermi focalizzare meglio. «Ma tu, a cu apparteni?» mi chiese poi in dialetto.

Calai la visiera del berretto sul viso e scappai sulla mia bici, senza salutare.

I giorni senza Sara furono per me uno strazio. Quando tornò, però, non era più lei. Curva, spenta, senza quel sorriso sulle labbra, i capelli stopposi, non aveva più luce, né colore addosso. Se ne stava sulla panchina a dondolarsi avanti e indietro, un peluche stretto al petto, i gatti ai suoi piedi.

«Posso entrare?» le chiesi.

Lei annuì. Mi sedetti accanto a lei. Piangeva lacrime silenziose che, lente, le scendevano lungo le guance per finire poi sul pupazzo che stringeva al cuore. «Quanto male fa… quanto male».

«Cosa?», le chiesi. Ma non rispose. Le presi una mano e gliela strinsi. «Ci sono io con lei, Sara. Qualsiasi cosa sia successa, ci sono adesso io. Nessuno le farà mai più del male». Quanto mi sentivo grande, accanto a quella donna. Forte. Coraggioso. «Cosa le fa male?».

«L’amore, Loris. L’amore, che a volte salva, a volte uccide. A me, ha ucciso. Ma tu, tu così bello e così giovane, non permettergli mai di farti del male. Lascia che ti salvi. Sempre». Restammo così fino al calar del sole, su una panchina, circondati da pupazzi di stoffa e gatti randagi. Alle nostre spalle, le lucine natalizie brillavano fuori stagione, mentre il vento muoveva i nostri pensieri appesi sui rami di un vecchio mandarino.

 

 

 

Fu l’ultima volta che la vidi. In paese circolò voce che un nipote l’aveva prelevata e portata in una casa di cura. Io piansi intere notti, finché la rassegnazione non ebbe la meglio e a poco a poco smisi di pensare a lei.

Gli anni passarono. Diventai grande. Morì nonno. Mi diplomai e iniziai l’Università. Morì nonna. Mi laureai. Mamma andò in pensione. Mi trasferii in Veneto dove iniziai a lavorare per conto di un’azienda.

Conobbi Viviana. Mi sposai. Nacque Linda, la mia meravigliosa bambina. Il mio matrimonio fallì. Divorziai.

I miei giorni andarono avanti tutti uguali, fino a quella telefonata di mamma.

«Ma sai che hanno messo in vendita la casa di Sara la matta?» mi disse.

Il mio cuore fece un balzo. Sara era morta poco prima che mi laureassi. In tutti quegli anni, non l’avevo scordata. Era là, in un angolino del mio cuore. E con lei, la casetta blu, le luci a intermittenza, i pupazzi e tutti quei gatti. Quella sera, non chiusi occhio. Il giorno dopo prenotai un aereo per la Sicilia.

Era ottobre quando arrivai. Catania era ancora bollente, come se l’estate non volesse saperne di andar via. Raggiunsi il paese dei nonni dove ancora viveva mia madre. «Ho subito pensato a te quando ho visto il vendesi al cancello» mi disse mia madre abbracciandomi. «Ho sempre saputo che passavi da lei i tuoi pomeriggi. Quella donna, strana e folle come poche, è stata la sola a farti tornare a sorridere. Gliene sarò grata per tutta la vita. Ora, vai, prima che qualcuno te la soffi da sotto il naso».

Comprai la casa. La ristrutturai. Il mandarino era ancora vivo e profumato. Portai la panchina di ferro battuto da un artigiano che la rimise in sesto. Feci ridipingere la facciata di blu e la porta di rosso. Come era stato un tempo. Anche se, quel tempo, non poteva tornare più. Tenni pure qualche mobile, che feci restaurare. Quando mi chiamò il restauratore a lavoro terminato, mi consegnò un fascio di lettere. «Erano in fondo a un cassetto» mi disse. «Ho pensato che fosse giusto farle avere a lei».

Quella sera, lessi le lettere. E capii che Sara non era matta. Come mi disse lei stessa quell’ultima volta insieme, l’amore l’aveva uccisa ferendola, tradendola, illudendola. Voltandole le spalle. E lei, aveva risposto al dolore abbandonandosi alla vita, vivendola come una bambina. Oggi la casetta blu di Sara la matta è la mia casa di villeggiatura. Il mio rifugio. Il mio luogo del cuore. Mia figlia Linda l’adora. Dice che tra queste mura si respira serenità e pace. È lei, Linda, l’amore che mi salva, giorno dopo giorno. Una colonia di gatti da qualche anno a questa parte ha preso possesso del giardino. Li lascio correre, dormire, azzuffarsi, mentre con Linda ritaglio cartoncini colorati. Ci scriviamo su i nostri pensieri, poi li appendiamo con un nastro ai rami del vecchio mandarino. E lasciamo che l’albero se ne prenda cura. E che il vento, li culli.

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Articolo pubblicato su Confidenze n. 41

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