Sposina a ottant’anni

Cuore
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Sì, vado a nozze per la terza volta anche se io e il mio futuro consorte insieme facciamo 160 primavere. E non importa se figli e nipoti gridano al ridicolo. Mi piace far festa e alla nostra età, è meglio non farsi sfuggire occasioni!

storia vera di Clara D. raccolta da Silvia Di Natale

Non prendetemi in giro. Lo so, si fa in fretta a dire: ma guarda quella lì, vuole imitare le giovani? Che bisogno c’è di sposarsi a una certa età? Soprattutto quando, come nel mio caso, si hanno già tre esperimenti alle spalle e altrettante feste di nozze? Vorrei specificare: non mi sono fatta confezionare un abito bianco, magari scollato dietro fino al fondoschiena, non mi metterò in testa il velo, e tanto meno sfiderò la sorte sui tacchi a spillo. Niente di tutto ciò, però un mazzolino di fiori profumati me lo permetterete, vero? E un abito nuovo, adatto alla mia età, che mi stia bene, di un bianco crema luminoso, perché non dovrei permettermelo? Mi dà gioia e questo basta a giustificarlo. Ma mi rallegra soprattutto l’idea di essere accompagnata, non all’altare, ma davanti al sindaco, da un uomo ben vestito, in un bel completo, informale ma di sartoria, scarpe lucide, per una volta senza sneaker colorati. Cosa importa se la bella coppia che calpesta il tappeto rosso del municipio nella sala riservata agli sposi conterà insieme 160 anni? Importante è che nessuno dei due inciampi, che avanziamo con disinvoltura, come se sposarsi a 80 anni fosse la cosa più naturale del mondo.

Lo è, infatti. Non capisco perché figli e nipoti si siano opposti tanto: forse temevano che le rispettive eredità andassero nelle mani di sconosciuti? Ho il sospetto che sia così. Perché sennò rifiutarci una gioia? Il fatto è che i giovani sono spesso egoisti. Vogliono tutto per sé: bellezza, salute, successo, e non ancora contenti pretendono anche la gioia. E se noi, noi che li abbiamo messi al mondo, ci rifiutiamo di cedere anche quella, eccoli a gridare al ridicolo, al “Non sta bene, non si fa”. In verità sono loro i conservatori, loro i più ligi alle convenzioni, mentre noi facciamo spallucce alle abitudini, non ce ne importa più nulla di fare qualcosa che gli altri non fanno, né di “dare scandalo”. Ma adesso basta preamboli.

Per raccontare delle mie tardive nozze, devo cominciare da lontano. Ho sempre avuto un bisogno assoluto di essere vezzeggiata. Nella mia classe, tutta femminile, fui la prima a potersi gloriare di uscire con un ragazzo. Non che fossi particolarmente bella, non ero neppure appariscente, al contrario, ero piuttosto piccola e non avevo niente di particolare, ma ero allegra e sapevo contagiare gli altri con la mia vitalità. Ero sempre piena di iniziative e avevo la capacità di strappare una risata anche al più musone. Avevo il talento dell’attrice comica, ma purtroppo non lo presi mai sul serio. Fu la mia allegria a ingannare Fabio: eravamo tutti e due all’università, lui studiava Legge, io mi ero iscritta a Lettere. Lo incontrai a una festa di Carnevale in cui mi ero vestita da Topolina: recitai così bene la parte che tutti ne furono entusiasti e Fabio mi invitò al cinema. Lui si innamorò della mia allegria, io della sua serietà.

 

Il giorno della sua laurea, mi chiese di sposarlo. Io nel frattempo, avevo lasciato gli studi e lavoravo come segretaria in una casa editrice per l’infanzia. Cinque anni dopo, Marco aveva appena compiuto quattro anni, ci separammo. Fabio non ce la faceva più a sopportare il mio continuo buonumore, soprattutto quando attraversava dei periodi di malinconia. Inoltre, non collaborava in casa dicendo che, se riuscivo a organizzare tante feste con gli amici, non si capiva perché invece con la famiglia fossi così avara con il mio tempo. Ma quelle feste erano la mia più grande fonte di gioia, mi erano necessarie come l’aria, avevo bisogno di amici che condividessero i miei scherzi, mi applaudissero e si divertissero alla mia maniera. Fabio e io avevamo caratteri opposti: le differenze, che all’inizio ci erano sembrate giovare a entrambi, avevano invece distrutto il nostro matrimonio.

Non rimasi per molto tempo sola. Quando Giorgio, un nuovo amico della compagnia, mi invitò nella sua casa al mare, accettai subito.

Mi piaceva, era un bell’uomo, sapeva stare agli scherzi, amava il calcio e le serate in compagnie, non era come Fabio che odiava quei divertimenti e preferiva starsene da solo a leggere qualche indigeribile saggio. Con Giorgio potevamo divertirci insieme e organizzare feste in costume e di compleanno come non se n’erano mai viste, come quella famosa per il cinquantesimo compleanno di Ugo, amico sin dal tempo del liceo. Ugo quell’anno aveva perduto l’amata madre e aveva detto di non voler festeggiare. Facemmo finta di assecondarlo. Il giorno della festa però gli amici arrivarono alla spicciolata, con la scusa di volersi fermare soltanto per qualche minuto. A una certa ora suonarono alla porta e Ugo si trovò di fronte uno scatolone enorme che passava a fatica attraverso la porta spalancata. Tutti gli si fecero intorno per portarlo in casa e per spacchettarlo. Quando Ugo aprì la scatola, da dentro schizzò fuori un pupazzo a molla con un’enorme bottiglia di spumante in mano. Quel pupazzo ero io! Ero paonazza, infatti, nonostante i fori praticati nelle pareti, l’aria all’interno dello scatolone scarseggiava, ma riuscii ugualmente a saltar fuori cogliendo di sorpresa il povero Ugo e facendogli fare una piroetta all’indietro, tra le risate generali. Furono dei begli anni. Purtroppo, il destino ci fece uno sgambetto. Nell’estate del 2010 avevamo organizzato una traversata dell’Adriatico in barca a vela. Una sera eravamo tutti sul ponte e ci godevamo la serata con un bicchiere di spumante in mano, quando Carlo, uno del gruppo, si trovò tra le mani un razzo di segnalazione. «Adesso facciamo i fuochi di artificio» disse.

«Metti via quella roba» gli intimò Giorgio, ma Carlo, che aveva bevuto un po’ troppo, non ne voleva sapere di ascoltarlo. Giorgio allora glielo tolse di mano con la forza. Il bengala doveva essere difettoso, perché gli esplose tra le mani ferendolo gravemente. Furono ore terribili: eravamo in alto mare, nessuna speranza di soccorso a tempo breve, come unica fonte di aiuto avevamo solo i consigli a distanza della guardia medica. Invertimmo la rotta, ma quando approdammo a Ravenna Giorgio era già morto. Per un anno intero mi rifiutai di prendere parte a qualsiasi festa. La morte di Giorgio mi aveva portato via tutta l’allegria di cui ero stata capace. Non riuscivo più a divertirmi.

Non avevo però imparato a stare sola. Ogni tanto veniva a trovarmi un ex collega della casa editrice dove lavoravo, andavamo al cinema insieme, facevamo passeggiate. Lui un giorno mi chiese se volessi andare con lui in Turchia, una vacanza tranquilla, in un club, lontano da tutto. Accettai. Mi avrebbe fatto bene stare lontano dai luoghi e dalla gente che conoscevo. Infatti a poco a poco riacquistai la gioia di vivere. Giovanni era discreto e non pretendeva niente da me; quasi senza accorgermene finì che venne ad abitare a casa mia.

Ci sposammo e neanche allora volli rinunciare a una festa, anche se quella fu un po’ più in sordina. La nostra vita matrimoniale fu all’insegna del ritiro e della modestia. Vivevamo uno accanto all’altra senza grandi avvenimenti. Credevo di aver trovato la mia serenità, invece ingannavo me stessa. In tutta la mia vita c’era stata solo una cosa che avevo veramente odiato, ed era la noia. Adesso la sperimentavo con Giovanni, giorno dopo giorno. Mi deprimeva, ma neppure me ne accorgevo. Finché un sabato d’estate il mio nuovo marito mi propose di andare a un festival rock. Arrivammo al crepuscolo, ci sedemmo a un bar per un aperitivo, ma non feci in tempo a ordinare che mi sentii chiamare.

 

Mi girai. Dietro di me, seduti in circolo intorno a due tavolini, c’erano gli amici della vecchia compagnia. Scattai in piedi e, felice, cominciai ad abbracciarli tutti, uno per uno. Non che in quei tre anni non si fossero fatti vivi, anzi avevano cercato di riportarmi con loro, soprattutto Ugo, che mi aveva telefonato, scritto, invitato, ma io temendo che la loro presenza mi avrebbe riportato alla mente il ricordo orribile di quella sera in barca, mi rifiutavo di partecipare. Ma ora, a rivederli tutti insieme, non stavo in me dalla gioia. Presentai loro Giovanni, che era piuttosto imbarazzato. Passammo insieme la serata. L’allegria era tornata e non volevo più lasciarmela scappare. Giovanni sparì dalla mia vita, presto ci separammo senza drammi e io tornai ai miei amici.

Con Ugo ci vedevamo spesso. La moglie l’aveva lasciato dopo 30 anni di matrimonio per un uomo più giovane, ma lui non sembrava troppo rattristato. Veniva da me, giocavamo a carte e a volte si fermava di notte, lo accoglievo nel mio letto con una gioia immensa. Avevamo ancora voglia di fare l’amore. Chi ha detto che dopo i 70 finisce tutto? Quest’anno festeggeremo il nostro ottantesimo compleanno, siamo nati a pochi giorni di distanza. Qualche mese fa Ugo mi ha detto: «Perché non organizziamo una festa speciale?».

«Volentieri, e come?» risposi.

«Invitiamo gli amici al nostro matrimonio».

«Dici sul serio?».

«Ma certo» rispose lui, «non ti sembra che alla nostra età abbiamo tutto il diritto di festeggiarci?». Detto, fatto. Abbiamo trovato una chiesina deliziosa che guarda il mare, con una piazzuola davanti al sagrato, scenario perfetto per degli sposini. Abbiamo organizzato a puntino tutta la cerimonia: i fiori, i fotografi, la trattoria che ci accoglierà, il menu. Verranno gli amici della compagnia e molti altri; verranno i nostri figli con le loro famiglie. Sarà una bellissima festa. Non sarà l’ultima, ma alla nostra età bisogna essere prudenti, ogni festa potrebbe essere l’ultima. Un buon motivo per farla.

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