Sulle sue spalle, a toccare le stelle

Cuore
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La storia più votata dalle lettrici per il n. 26 di Confidenze

 
“Lui è Orlando, mio figlio”. Mi sembra ancora di sentirlo papà, così orgoglioso di me, del bambino che amava tanto. Poi, non ha saputo accettarmi, mi ha allontanato. Ma ora so che non ha mai smesso di volermi bene

storia vera di Orlando N. raccolta da Alessandra Mazzara

 

Aveva 30 anni, mio padre, quando io venni al mondo. Era il 1970, era giugno e pioveva. La strada che separava il liceo classico dove insegnava letteratura italiana e l’ospedale, una decina di chilometri circa, se l’era fatta tutta a piedi sotto quella pioggia fitta e insistente, dacché la sua auto, quel giorno, era dal meccanico. Era arrivato bagnato fradicio. Con la giacca blu, la camicia e la cravatta zeppe di pioggia e sudore aveva salito a due a due i gradini che portavano al primo piano, veloce, il cuore che gli martellava nel petto, il respiro mozzato. Aveva raggiunto Anna, sua moglie e mia madre, le si era messo accanto, le aveva stretto la mano e baciato la fronte e detto quanto l’amava. Con lei aveva respirato, aveva sospirato e stretto ancor più forte, più che poteva, quella mano, le aveva asciugato i sudori con il fazzoletto di cotone che portava sempre in tasca, fino a che il mio vagito aveva posto fine a tutto, per dare inizio alla nostra vita a tre. Un’ora e mezza dopo quella sua corsa sotto la pioggia ero tra le sue braccia forti e possenti, avvolto in una copertina bianca. Scelse lui come chiamarmi.Fui battezzato col nome di Orlando Antonio Arturo. Orlando, come l’Orlando furioso di Ariosto, il poema cavalleresco che mio padre rileggeva a ogni estate. Antonio, come il Santo cui mamma era devota. Arturo, come mio padre. Un uomo saldo nella fede, dedito alla famiglia, professore stimato, con i piedi ben fermi sulla terra e la testa persa tra le pagine dei suoi amati libri.Da piccolo, mi portava in giro sollevandomi con le sue braccia forti sulle sue spalle robuste e possenti, lui sempre in giacca e cravatta, la copertina di un libro che sbucava dalla tasca della giacca. Io, con i calzettoni di cotone fin sulle ginocchia e quei vestiti buffi che mia madre sceglieva per me. Adoravo stare sulle sue spalle. Bambino paffutello e sognatore, immaginavo di essere sulla vetta più alta di una montagna e da lassù poter toccare il cielo, le nuvole, il sole e le stelle. Andavamo in giro così, io stretto al suo collo, lui fiero di quel primogenito così bello, così bravo, così obbediente, mi presentava ai suoi amici, ai conoscenti, diceva loro: «Lui è Orlando, mio figlio». E quel “mio figlio” lo diceva con voce più alta, piena di orgoglio paterno, come a voler sottolineare ch’io potessi essere solo suo e mai di nessun altro.

Lui apparteneva a me e io a lui.

Poi, dopo le commissioni e le cose da fare e il cono gelato vaniglia e cioccolato che dividevamo, papà mi metteva giù, mi prendeva per mano e mi portava alla Chiesa Madre del paese. Là dentro, in quel luogo sacro che odorava di muffa e di incenso, le luci erano sempre soffuse e un canto gregoriano suonato echeggiava solenne. Mano nella mano, raggiungevamo il Santissimo, posto in una nicchia sulla navata laterale. Papà faceva il segno di croce e si inginocchiava, poi con gli occhi mi chiedeva di fare lo stesso. E io, che per lui avrei fatto di tutto, lo imitavo in obbediente silenzio. Mi segnavo col segno di croce e piegavo le mie ginocchia ossute sul marmo gelido, giungevo le manine e chiudevo gli occhi. Come papà. E mentre lui sussurrava a fior di labbra suppliche e preghiere, io fingevo di pregare. Non sapevo come si faceva. Questo, papà, non era riuscito a spiegarmelo. «La preghiera è qualcosa che nasce dal cuore, Orlando» mi diceva sempre.

Ma io ero troppo piccolo, ancora, per capire.

Dopo, si andava a casa.

Era sempre tutto pronto, in tavola. Dalla cucina, arrivavano i profumi della cena e i gridolini di mia sorella, arrivata due anni dopo di me.

Angelica, un altro nome scelto da papà.

Orlando e Angelica. Noi, il suo poema più bello.

Si mangiava quel che mamma aveva preparato, tutti seduti a tavola, Angelica sul suo seggiolone, mentre la tivù in bianco e nero faceva da sottofondo alle nostre risate, alle chiacchiere di mamma, alle storie di papà, che erano così tante ch’io sarei stato ore e ore e ore ad ascoltarle. Era un gran lettore e un bravo narratore, mio padre. I suoi racconti erano pieni di passato, di personaggi, di luoghi lontani, di immagini mai viste di lui bambino, di una guerra che gli aveva tolto tutto, di una vita così distante dalla mia da faticare a immaginarla. La sigla finale del Carosello segnava la fine di quelle storie. L’incantesimo si spezzava: era l’ora, per me e per mia sorella, di andare a letto. Ma il seme delle storie che papà ci raccontava fumando una sigaretta dopo l’altra, una volta a letto fioriva nella mia mente di bambino e mi teneva sveglio, sempre più avido di saperne ancora e ancora e ancora di più, in attesa che il nuovo giorno ne portasse con sé delle altre.

Quando diventai un ragazzino, papà mi portava spesso con sé alle riunioni del suo liceo.

«Lui è Orlando, mio figlio».

Con la sua mano poggiata sulle mie spalle, mi mostrava la sua scuola, le aule dove insegnava, la biblioteca di cui era responsabile.

E dopo, di nuovo e come sempre, insieme in chiesa. Non più mano nella mano, ma sempre vicini, in ginocchio. Lui a pregare, io a chiedermi se lassù, davvero, ci fosse qualcuno ad ascoltare.

Poi, accadde che il tempo passò.

Mi iscrissi al liceo scientifico. I miei voti erano tra i più alti dell’istituto.

«Mio figlio diventerà un uomo di scienza» si inorgogliva papà. «E un giorno porterà avanti il cognome di famiglia».

Negli anni del liceo, ero diventato bello. Il bimbetto paffuto e biondo aveva lasciato il posto a un ragazzo alto, dal corpo asciutto e muscoloso, gli occhi profondi e i capelli molto più scuri. Non c’era ragazza, in paese, che non si girasse a guardarmi. Non c’era ragazza, a scuola, che non si innamorasse di me. Solo che io, per loro, non riuscivo a provare niente. Erano i ragazzi che portava a casa mia sorella, che mi facevano battere il cuore.

 

Per anni, non lo dissi a nessuno.

Poi, mi confidai con Angelica. Che mi abbracciò, senza dire nulla.

A mia madre lo dissi un pomeriggio di aprile. Lei mi strinse al petto, poi mi prese il viso tra le mani e mi baciò sulla fronte. «L’ho sempre saputo, Orlando. Prima ancora che diventassi grande. Una madre, certe cose, le sente e capisce». Era la fine di luglio, avevo da poco superato l’esame orale di maturità con il massimo dei voti, a settembre mi aspettava la facoltà di Chimica, fuori il sole infuocava le strade solitarie e mamma stava preparando le bruschette, quando lo dissi a mio padre. Lui era in poltrona, aveva un libro poggiato sulle gambe. Senilità di Italo Svevo. Le mie parole lo colpirono come una coltellata, lo capii dallo sguardo pieno di dolore con il quale mi guardò. Non mi parlò. Non mi abbracciò, come aveva fatto Angelica prima, mamma dopo. Invece, si alzò e andò a chiudersi nel suo studio.

Quella sera, il suo posto a tavola rimase scoperto.

La mattina dopo, fui svegliato dalla sua mano che mi scuoteva.

«Alzati, Orlando. Oggi vieni con me».

Aprii gli occhi. Papà era in piedi, vestito di tutto punto, la sua cravatta blu, quella delle occasioni, ben annodata al collo.

«Dove andiamo?» gli chiesi ancora stordito.

«Preparati» mi disse soltanto.

Nel tragitto in macchina non mi rivolse mezza parola. Quando posteggiò l’auto nello spiazzale antistante la Chiesa Madre, intuii che era qualcosa che aveva a che fare con la mia confessione. Mi condusse in sagrestia. Là, il sacerdote già mi stava aspettando. «Verrai qui ogni sabato mattina. Padre Aldo ti aiuterà a guarire da questa tentazione del maligno, figlio mio. Andrà tutto bene. Abbi fede» mi disse papà una volta che mi fui accomodato. Me lo disse poggiando la sua mano sulla mia testa. Poi, mi baciò, come faceva quando ero bambino, lasciandomi solo in quella stanza spoglia e semi buia. Fu l’inizio di un percorso per me tortuoso e incomprensibile. In quegli incontri di catechesi, il sacerdote mi parlò di peccato contro natura, di Sodoma e Gomorra, di inferno, di punizioni, di perversione e di offesa a Dio, e più lui parlava, meno io capivo cosa tutto quell’odio avesse a che fare con me, con l’amore, con tutto quel che di buono conservavo nel mio cuore.

Durò il tempo necessario perché smettessi di essere Orlando e iniziassi a sentirmi sbagliato. Mi convinsi che avevano ragione loro.

Del resto, poteva mai mio padre, l’uomo che per anni avevo visto come inarrivabile, il mio sostegno, il mio eroe, sbagliarsi?

Dovevo guarire. Volevo che mio padre fosse orgoglioso di me, volevo il suo sguardo buono e fiero su di me. Volevo che continuasse a dire in giro “Lui è Orlando, mio figlio”. Iniziai a uscire con qualche ragazza. Ci fu Greta, poi Paola. Poi Susanna, poi Silvia. Finiva con tutte dopo qualche mese.

Mio padre le accoglieva come miraggi quando gliele presentavo, taceva e fumava una sigaretta dopo l’altra quando la storia finiva.

Monia. Vittoria.

E poi, Marta. Era una collega di corso, una ragazza dai capelli rossi e dagli occhi blu. Bellissima, con un sorriso contagioso. Quella volta mi innamorai, o almeno così pensai. Quando mi laureai, lei venne alla festa, un’occasione per presentarla a tutta la famiglia. Parlammo di matrimonio, fissammo una data. Gli occhi di mio padre erano così felici che non me li scorderò più. E per lui, solo per lui, solo per continuare a vederli sorridere, quei suoi occhi, io mi sforzai di amare Marta. Dopo un viaggio alle isole greche, però, lei mi lasciò. «Non va, Orlando. Quando stiamo insieme ti sento freddo, distante. Come se non fossi pienamente mio».

Tornai dal viaggio da solo. Per papà fu un colpo basso, mentre mamma e Angelica mi guardavano stanche e tacevano. Iniziai a lavorare presso una casa farmaceutica a pochi chilometri dal paese. E lì, dopo un anno dalla rottura con Marta, conobbi Vincent. E con lui, l’amore. Il desiderio. Il fremito dell’attesa. La mancanza. La passione. Tutto quello che nessuna ragazza era riuscita a darmi. E non perché incapace. Semplicemente, perché io non ero in grado di accoglierlo. Avevo 28 anni. Con Vincent, presi un bilocale a metà strada tra casa dei miei e il lavoro.

Lo presentai ad Angelica, poi a mamma.

«Al momento non dirgli nulla, non è pronto. Papà ha solo bisogno di tempo» mi dissero.

Glielo concessi.

 

Un anno e mezzo dopo l’inizio della mia convivenza con Vincent, andai da mio padre. Lui mi accolse con una pacca sulle spalle e un abbraccio, come ogni fine settimana che andavo a trovarlo, pomeriggi e sere in cui parlavamo di calcio, del suo nuovo hobby dopo la pensione, la pittura, del volontariato presso una casa famiglia che gli occupava la maggior parte del tempo, degli acciacchi suoi e della mamma, dei bimbi di Angelica, che nel frattempo si era sposata, era diventata madre e si era trasferita al nord con la sua nuova, bella, famiglia. Non mi chiedeva mai di me, della mia vita sentimentale. Penso non lo facesse per paura di quel che avrei potuto dirgli. Quindi, tacevo, omettevo, rimandavo sempre. Ma ci sono verità che nella vita vanno affrontate, nonostante il dolore che esse possano provocare.

«Convivo con un uomo, papà. Si chiama Vincent, ha due anni più di me, è un mio collega. È una brava persona, con dei sani valori. Vorrebbe tanto conoscerti…».

Fece di no con la testa. I suoi capelli, una volta folti e neri, erano ora radi e spruzzati di bianco. Strinse con le mani la Bibbia che teneva sulle gambe, così forte da far impallidire le dita. Poi, mi guardò. «Non posso accettarlo» sentenziò.

«Io lo amo, papà. E lui ama me. Insieme siamo felici. Perché non provi a pensare a questo, per una volta?».

«Non sei il figlio che per anni ho creduto che fossi».

«No, papà, ti sbagli. Sono Orlando, sono sempre io, sono il bambino che portavi sulle spalle, sono il ragazzino che presentavi con orgoglio ai colleghi».

«Taci!». Trasalii. Papà fece cadere il libro per terra. Mamma accorse dalla cucina, rossa in viso. «Arturo, Orlando, che succede?».

Papà la zittì con un gesto della mano. «Quest’uomo» disse poi indicandomi con un dito, «non è più mio figlio».

«Arturo, non dire così. Il Signore non vorrebbe mai che tu…».

«Non essere blasfema, Anna. Quel che tuo figlio fa con quell’uomo è un abominio agli occhi di Dio».

Mi alzai. Mi tremavano le mani. Un groppo alla gola mi rendeva difficile parlare. Mamma andò incontro a papà. «Non è così, Arturo. Cerca di capire».

«Basta, Anna! Non è una cosa della quale discutere. La legge di Dio non è a nostro piacimento», poi si rivolse a me, «E tu, fuori di qui. Non c’è posto, nella mia casa, per un figlio come te».

Con la mano che tremava e la vista annebbiata dalle lacrime, tirai fuori dalla tasca le chiavi della macchina. Mamma si disperò, si buttò in ginocchio, lo supplicò di non trattarmi con tale astio e cattiveria, ma papà fu irremovibile.

«Torna solo quando sarai davvero un uomo», mi disse.

Non tornai più. Sentivo al telefono Angelica ogni mattina prima di andare al lavoro, mamma ogni sera, prima di andare a letto.

 

Quando tornavo in paese per andarla a trovare, non passavo mai da casa. Sapevo che papà non voleva vedermi e non volevo impormi. E quando capitava che ci incontrassimo per strada, lui girava il volto dalla parte opposta. Un anno dopo quella nostra lite, lo chiamai al telefono. Non volle parlarmi. Allora, andai da lui, ma si chiuse in camera. Gli scrissi delle lettere, ma non ricevetti mai risposta.

Nel frattempo, il tempo passava, irremovibile, crudele, veloce.

Mamma morì un pomeriggio di dicembre. Io crollai. Vincent fu per me sostegno e conforto, in quelle dure settimane. Al funerale, mi avvicinai a papà.

«Non voglio aspettare di dover seppellire anche te, prima di poterti riabbracciare». Glielo dissi con Vincent accanto a me.

Papà neanche lo guardò. Notai che i suoi occhi erano pieni di lacrime e che gli tremava leggermente la testa. Mi lasciò là senza dirmi nulla, mentre il feretro di mia madre veniva calato nella fossa. Lo vidi allontanarsi curvo, appoggiato a un bastone. Solo. Chiusi gli occhi. La sua solitudine, la sua testardaggine, il suo pregiudizio, era tutto troppo doloroso per me da non riuscire a sostenerlo neanche con lo sguardo.

Era la primavera del 2023, papà aveva compiuto 83 anni da una settimana e un mio biglietto d’auguri attendeva inutilmente una sua risposta, quando ricevetti una telefonata. Era Alina, la badante di papà che Angelica aveva assunto poco dopo la morte di nostra madre. «Orlando» mi disse, «il signor Arturo è scappato mentre pulivo il bagno. Lo hanno visto in mutande passare dalla via del Corso. Qualcuno lo ha fermato, adesso è al bar del centro».

Mi precipitai in paese. Lo trovai seduto, curvo su se stesso, con solo un paio di boxer addosso. Sapevo della sua demenza. Angelica me ne aveva parlato, ma non sembrava così grave. Ci sbagliavamo. Quando mi vide, non mi riconobbe. Lo presi a braccetto e lo condussi a casa. Alla badante dissi che poteva tornare a casa sua, che per quella sera mi sarei preso io cura di mio padre. Gli feci una doccia, poi gli misi il pigiama.

«Arturo», gli dissi. «Sai chi sono io?».

Mi guardò. «Pietro, il figlio della zia Antonietta».

Sorrisi. Mi faceva così tenerezza, quella sua condizione, da stringermi il cuore.

«Mi chiamo Orlando. Sono tuo figlio».

Si accigliò. «Io non ho figli» disse poi sollevando le spalle ricurve. «Mi aspettano in caserma».

Quella sera chiamai al telefono mia sorella. Le dissi che papà era peggiorato, che la demenza galoppava fuori controllo.

«Forse è il caso di ricoverarlo in una struttura adeguata» mi suggerì.

Ma la sola idea, a me faceva troppo male. Ne parlai con Vincent.

«Trasferiamoci a casa sua. Alla fine, casa dei tuoi dista davvero poco dal lavoro. Coraggio, ce la possiamo fare». Cosa avevo fatto, per meritare l’amore di quell’uomo che da anni era per me compagno, amico, confidente, sostegno?

 

Ci trasferimmo. Papà era un bambino da lavare, da imboccare, da accudire. Presi un periodo di aspettativa. Gli frullavo i cibi, gli facevo il bagno, gli parlavo di mamma, dei suoi nipoti. Ma la demenza si era già portata via tutto. Di mio padre, di chi era stato, non restava più nulla. Non sapeva chi fossi, mi chiamava con nomi di altri, confusi tra loro, ma io sì che sapevo chi era lui. Chi era stato per me, nonostante tutto. L’amore che mi aveva dato e quello che per lui avevo provato.

Poi, una mattina, dopo la doccia, lo sistemai sulla sua poltrona del salotto e presi a fargli la barba, servendomi di una bacinella e di una tovaglia. Era ottobre, la pioggia picchiava contro i vetri. Gli riempii il viso di schiuma, cominciai a raderlo, poi gli sciacquai il viso. Stavo per asciugonarlo, quando a un tratto papà mi bloccò la mano. Controllai se per caso lo avessi tagliato, ma non c’era sangue.

Lo guardai. Lui mi guardò. E in una frazione infinitesima di secondo, intravidi nei suoi vecchi occhi la stessa luce di sempre, quello sguardo su di me che tanto avevo desiderato, amato, voluto, cercato da ragazzino, quella luce che la dimenticanza aveva spento. «Questo è Orlando, mio figlio» disse.

Mi aveva riconosciuto.

«Papà» dissi con la voce rotta dalla commozione.

Lui tenne stretta la mia mano, la portò alla bocca e la baciò. Poi, mi poggiò una mano sulla testa, come aveva fatto altre cento, mille volte in un tempo ormai inghiottito dall’oblio. «Perdonami».

«Papà, mio caro papà…». Le lacrime iniziarono a scorrere sul mio viso. Feci per abbracciarlo, ma subito mi accorsi che il suo sguardo era tornato a essere vuoto, confuso, perso nella nube della sua malattia. Mi ricomposi. Gli asciugai il volto. Lui, con gli occhi persi nel nulla, io con i miei pieni di lacrime, il cuore che batteva forte per l’emozione, quasi fino a scoppiare.

Morì due mesi dopo, nel sonno.

Perderlo fu devastante. Stretto a Vincent, lasciai che fossero mia sorella e tutti gli altri a gettare sulla sua tomba la terra che lo avrebbe ricoperto. Quando tornai a casa, iniziai a sistemare le sue cose. Tra fogli, carte, giornali, fazzoletti, trovai una nostra foto. Era in bianco e nero, risaliva agli anni prima della nascita di Angelica. Papà era seduto su un muretto, io con un vestito da marinaretto, ero sulle sue ginocchia. Alle nostre spalle, il mare. La girai.

“Estate 1972” aveva scritto con la sua grafia incerta della vecchiaia, non quella sicura e chiara che avevo conosciuto. E, poi: “Perdonami, figlio mio, ma non sono capace. Ti voglio bene, il tuo papà“.

In un angolino, un fascio di lettere scritte da lui, tutte dedicate a me, dove papà, in tutti quegli anni aveva scritto quel che gli accadeva, quel che sentiva, intrattenendo così un dialogo immaginario epistolario con me, con quel figlio che amava, ma che non capiva. Riguardai la foto cento volte, rilessi le lettere mille volte. In quell’istantanea, in quelle parole, c’era tutto l’amore che c’era stato, ma che mio padre, il mio papà, non era riuscito a sopportare. C’era la sua sofferenza, la sua disillusione, la consapevolezza di essere fragile, anche lui bisognoso di perdono. E il suo desiderio di pace, che non era riuscito a concretizzare. Perché non sia riuscito a dirmelo a parole, me lo sono chiesto tante volte.

Risposte, non ne ho. Adesso, non le voglio più.

Mi basta sapere che in tutti quegli anni passati lontani, mio padre non ha mai smesso di pensarmi. Di sentirmi ancora una parte di sé. Di ricordarsi di Orlando, di quel bambino che portava sulle spalle e che lo guardava con occhi pieni di ammirazione, del ragazzino che lo inorgogliva con tutti quei bei voti a scuola. Di sentirmi ancora suo figlio, nonostante lo avessi deluso. Nonostante la vita in cui credeva fermamente lo avesse, a suo dire, tradito. Di amarmi. Sono passati quasi due anni dalla sua scomparsa, eppure, lo sento ancora vicino a me. Se chiudo gli occhi, lo vedo. Se tendo l’orecchio, posso ancora sentirlo. “Lui è Orlando, mio figlio”. E lui torna giovane, con la sua cravatta blu, la copertina di un libro che sbuca dalla tasca della giacca. E io torno bambino, con addosso i vestiti buffi che per me sceglieva mia madre, le calzette bianche di cotone, sulle sue spalle forti e possenti. A toccare con le dita il cielo e le nuvole e il sole e le stelle.

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