Test del dna

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Rileggi sul blog “Test del dna”, pubblicata sul n. 17, è la storia vera più apprezzata dalle lettrici sulla pagina Facebook

 

Ho amato mia madre anche se abbiamo avuto un rapporto difficile. Ma dopo la sua scomparsa ho provato una grande rabbia perché ha fatto in modo che scoprissi qualcosa che mi riguarda. Ho un solo modo per sapere se è la verità

Storia vera di Roberta N. Raccolta da Giuseppe Rudisi

 

Non avrei mai immaginato di provare tanta delusione e tanto rancore verso mia madre. Solo da pochi giorni ho scoperto ciò che mi è stato nascosto fin dalla nascita e che era meglio rimanesse segreto. Emma era mia mamma. D’ora in avanti, però, riferendomi a lei, non pronuncerò mai più quelle parole sacre: “mamma” o “madre”. Userò solo il suo nome. Si è spenta tre mesi fa, dopo una lunga malattia che ho seguito giorno dopo giorno accompagnandola dai medici, assistendola nei ricoveri e, soprattutto, ascoltando tutte le sue lamentele e i suoi pianti. Non era facile starle vicino, specialmente quando non si rassegnava al fatto che quella malattia avesse colpito lei invece che altre persone. Si riferiva esplicitamente ad alcune amiche, a qualche parente, a mio padre e perfino ad Adele, una vicina di casa che abita al primo piano del nostro palazzo.

Quando Emma è mancata, nonostante io abbia superato i 40 anni mi sono sentita sola e sperduta. Lei viveva con mio padre nello stesso condominio dove abito da sola al quinto piano. Anche lui da pochi anni si era rifugiato in un monolocale di fronte al mio dove aveva trasferito le cose a cui teneva: la collezione di francobolli, i modellini navali e i libri di storia. Giustificava quell’isolamento con la necessità di stare sveglio fino a tardi e alzarsi quando voleva. Non avevo mai supposto che, dietro quel discreto isolamento, potessero celarsi segreti inconfessabili.

A causa di quel che ho scoperto non posso più amarla come ho sempre fatto. Voglio rimuovere ogni istante e ogni ricordo vissuto con lei; il dolore che mi ha cagionato nel farmi scoprire cose che la riguardavano e che, inevitabilmente, impattano su di me, è enorme. Non le bastava aver condizionato molte scelte importanti della mia vita e mi riferisco soprattutto a quelle sentimentali. Se non sono ancora riuscita a crearmi una famiglia è certamente dipeso dal pressing che esercitava su di me quando mi innamoravo di un ragazzo. Trovava sempre un motivo valido per convincermi a mollarlo: non era quello giusto perché fisicamente poco attraente, o aveva modeste origini, oppure un’incerta prospettiva professionale. Avrei potuto agire di testa mia, ma lei ha sempre esercitato su di me un forte dominio psicologico e, alla fine, mi costringeva a darle retta. Solo nella scelta della facoltà universitaria decisi da sola: voleva che insegnassi, lo riteneva il lavoro ideale per una donna; avere più tempo a disposizione per la famiglia, soprattutto d’estate, era per lei un dogma. Con il sostegno di mio padre, forse l’unica volta nella quale si era messo di traverso tra me e lei, mi iscrissi a Biologia e ora dirigo un laboratorio di analisi cliniche.

La scoperta che mi ha sconvolto l’ho fatta pochi giorni fa. Tempo prima, quando Emma era già malata, avevo deciso di comune accordo con mio padre di chiudere la loro cassetta di sicurezza, dove era custodito un vero tesoro. Da sempre lei andava e veniva dalla filiale per ritirare o riconsegnare i gioielli che amava sfoggiare a feste ed eventi mondani ai quali partecipava assiduamente.

Sono stata ricevuta dal direttore: mi ha accompagnata in un locale blindato dove su una parete c’erano centinaia di cassette numerate. Rimasta sola nel locale, dopo aver aperto lo sportello, estrassi una scatola metallica piena: i gioielli erano contenuti ognuno in sacchetti di velluto di vari colori annodati con dei lacci. Aprii a caso quelli più voluminosi e ne riconobbi alcuni; altri mi sembrò di non averli mai visti e ne fui sorpresa anche perché, da quella prima ricognizione, era evidente che fossero molto più preziosi di quelli che era solita indossare.

Sollevando un sacchetto che doveva contenere una collana piuttosto voluminosa, mi accorsi che sul fondo della scatola erano conservate delle buste.

In una c’erano dei dollari americani, in quella successiva trovai un mazzo di foto tenute insieme da un cordoncino dorato. Mi sembrò strano, ma lì per lì non ci feci troppo caso.

Fu solo dopo che lei era mancata che riaprii quella busta e riguardai le foto: Emma era sdraiata di schiena su un letto, il viso sorridente rivolto verso l’obiettivo, le spalle e buona parte del seno scoperte. Si intuiva che anche il resto del corpo fosse nudo.

 

 

Guardai con più attenzione quella foto: esprimeva la bellezza e la carica di sensualità che Emma voleva svelare a chi la fotografava. Nell’immagine era più giovane rispetto all’età che io ho ora. Dovetti ammettere ancora una volta che era molto più bella di me. Lei di questo era consapevole e non perdeva mai l’occasione di farmelo notare, soprattutto negli ultimi anni quando vedeva svanire la sua avvenenza e accentuava una subdola competitività nei miei confronti che mi faceva sentire insicura e inadeguata.

Il mazzo di foto era nelle mie mani: ero tentata di slacciare il cordino e guardarle, ma la mia educazione mi spingeva a non farlo. Avrei dovuto riporle nella busta, richiuderla ed eventualmente consegnarla a mio padre che, in quel momento, presumevo fosse il fotografo. Non era corretto violare l’intimità di una donna che non c’era più. Con il senno di poi, la mia esitazione poteva essere letta come una sorta di timore che le foto potessero modificare l’immagine e il ricordo che serbavo di lei e che in quel momento non volevo alterare. Ero comunque sorpresa che posasse seminuda in una stanza, forse di un albergo. Mi aveva colpito in particolare l’espressione compiaciuta e complice del suo viso, sembrava precedere o seguire un momento di intimità amorosa con chi la stava ritraendo. Il ricordo che serbavo di lei era piuttosto quello di una donna severa e poco propensa all’affettività, soprattutto verso mio padre: lo trattava come un ospite tollerato con il quale tenere le distanze nonostante lui la mantenesse non facendole mancare nulla.

Decisi di riporre il mazzo di foto nella busta quando un mio goffo movimento me le fece scivolare di mano. Caddero urtando lo spigolo del tavolo e sparpagliandosi sul pavimento. Dopo aver soffocato un grido di disappunto, iniziai a raccoglierle e, a quel punto, non potei non guardare le altre foto.

Una era caduta più lontana dalle altre, era capovolta; quando la raccolsi e la voltai vidi Emma ritratta insieme a un uomo. Anche se era una foto vecchia di almeno 30 anni, lo riconobbi: era Giorgio, il vicino del primo piano, il marito di Adele.

Ero sconvolta. Mai e poi mai avrei immaginato che Emma potesse avere una tresca con quell’uomo che conoscevamo benissimo: eravamo le famiglie che da più tempo vivevano nel condominio e, particolare non trascurabile, lui aveva un figlio di qualche anno più grande di me: avevamo giocato tantissime volte insieme agli altri bambini nel cortile condominiale.

Non potevo più fingere che la cosa non mi riguardasse. Provai a rimettere le foto nella busta, dicendomi che forse era meglio non sapere altro, ma a quel punto mi resi conto che c’erano anche delle lettere, pure queste tenute insieme da un cordoncino dorato il cui nodo sembrava inestricabile.

Mi sedetti, senza fiato. Mi chiedevo che cosa potessero svelare le lettere; era davvero  il caso che le leggessi? Fui tentata di liberarmene, gettandole frettolosamente in pattumiera. Non lo feci. Il mio pensiero si concentrò su mio padre. Possibile che non sapesse nulla? E se sì, come aveva sopportato un torto simile? E se lo avesse fatto solo per me, per evitarmi l’inevitabile dolore della separazione dei miei genitori?

Ripensai a quanto lui le era stato vicino quando si era ammalata. Aveva anche pianto quando lei era morta. L’aveva perdonata o era ignaro di tutto?

Cominciavo a vedere in una nuova luce molte vicende e dettagli della nostra storia familiare. Ricordavo che Emma escludeva sistematicamente mio padre dalle sue relazioni sociali: andava al cinema e a teatro con le amiche e spesso si assentava per andare alle terme o a qualche mostra nelle città d’arte. Riteneva mio padre un uomo semplice, modesto con un lavoro che non le consentiva di fare la vita che lei desiderava e meritava.

Sentivo che le lettere e le foto dentro quella busta scottavano.

Decisi di leggerle perché mi avrebbero rivelato quanto il rapporto con lei aveva influito su quello che ero diventata. Dopo, forse, nulla sarebbe stato uguale a prima.

Seduta sul divano, iniziai a studiare le foto. Quelle scattate in interni la ritraevano in pose languide: la raffinata biancheria intima lasciava solo intuire le parti del corpo che non si dovevano vedere. Le altre prese in esterni la ritraevano insieme a Giorgio: erano teneramente abbracciati e sullo sfondo si vedevano paesaggi marittimi e scorci di diverse città d’arte, tra le quali riconobbi in particolare Siena. Nell’osservare i loro visi distesi e felici non riuscivo a credere che, mentre scattavano quelle immagini, io, mio padre, Adele e suo figlio eravamo inconsapevoli di quell’adulterio portato avanti nel tempo.

 

 

Come si erano permessi di vivere quella storia? Perché lei appariva così diversa da come era normalmente con noi, così distesa, così felice?

In quel palazzo ci si incontrava tutti i giorni e continuiamo a farlo anche adesso. Più volte ho visto mio padre prendere il caffè nel bar sotto casa con Giorgio e lo ricordo venire con la moglie a porgerci le condoglianze. Lui mi ha abbracciata mentre mi farfugliava all’orecchio quanto Emma fosse una grande persona, ma soprattutto una bella signora. Il fatto di aver sottolineato in quel momento la sua bellezza mi aveva intenerito: avevo pensato quanto le avesse reso meno amaro il cammino verso la fine.

Poi ho letto tutto d’un fiato le lettere e, appena ho terminato, sono esplosa.

«Perché Emma non le hai distrutte? Perché hai fatto in modo che le trovassi? Mi ripetevi spesso che, dopo la tua morte, i tuoi gioielli sarebbero stati miei, per farne quel che volevo; questo nonostante sapessi che non amo sfoggiare cose preziose. Perché insieme a collane, anelli e braccialetti mi hai fatto scoprire quelle foto e quelle missive? Non le potevi buttare via senza farmi sapere la verità? Perché non hai avuto il coraggio di dirmi in faccia quello che ho appreso leggendole? Troppo comodo farmelo sapere ora che sei al riparo in una tomba!». Dissi tutto questo a voce alta, come se lei fosse lì davanti a me e potesse rispondermi. Ero veramente sconvolta.

Ma non era ancora finita.

Dalle lettere che si scambiavano gli amanti è emersa questa semplice, angosciosa, incredibile verità: Giorgio è il mio padre naturale. Ho letto parola per parola tutto quello che si sono scritti quando avevo circa 10 anni. Emma gli rinfacciava di non aver avuto il coraggio, quando era incinta di me, di lasciare la moglie, mentre lei si dichiarava pronta a tutto pur di vivere con lui. Lui rispondeva che non aveva potuto: Adele non meritava quel trattamento e da sola, con un bimbo piccolo, cos’avrebbe fatto? In fondo loro due potevano continuare a vedersi di nascosto vivendo rispettabilmente le loro vite di facciata. Pensai: “Ecco le solite scuse che accampano gli uomini sposati quando l’amante gli pone l’aut aut: o me, o tua moglie”. Ne so qualcosa: anch’io ho avuto una storia del genere e anche il mio amante, messo alle strette, ha scelto la moglie.

Dunque ho scoperto che l’uomo che mi aveva insegnato a camminare, ad andare in bicicletta, a nuotare e tanto altro non è il mio vero padre. Ma non solo questo: ho anche saputo di essere stata l’elemento di pressione perché Giorgio si sentisse in obbligo di lasciare Adele per andare a vivere con Emma. Chissà che lei non abbia fatto apposta a rimanere incinta per inchiodarlo alle sue responsabilità.

 

 

Decisi di uscire sentendo sulle spalle il peso di quelle verità. Fuori dal portone, alzai lo sguardo e vidi sul suo terrazzino proprio Giorgio: stava fumando. Mi sembrò un po’ invecchiato rispetto all’ultima volta che lo avevo visto. I nostri sguardi s’incrociarono. Mi sorrise, lo guardai fisso negli occhi, si voltò dall’altra parte gettando la cicca nel praticello sottostante e rientrò nell’appartamento. Mi venne un’idea. Raccolsi il mozzicone ancora fumante e mi recai nel laboratorio dove lavoravo. Incaricai un collega di fare un test per confrontarlo con il mio dna. C’è voluto qualche giorno, ma i risultati oggi confermano quanto è emerso dalle lettere.

Che devo fare? Parlarne con mio padre? Affrontare Giorgio e farlo vergognare di avermi visto crescere e giocare con l’altro suo figlio, ovvero il mio ignaro fratellastro, e non aver mai avuto il coraggio di dichiarare al mondo che sono sua figlia? Dire tutto a sua moglie? E se lei lo sa già? No, non è possibile. Quando la incontro è sempre gentile con me. Se fosse consapevole mi odierebbe: sono il frutto dell’amore di suo marito per un’altra donna.

Ho riflettuto tutta la notte e ho deciso. Nel mio laboratorio abbiamo un distruggi documenti elettronico. Ci sto inserendo una a una le foto che riescono a striscioline non più componibili.

Ora è il momento delle lettere. Le fauci meccaniche ne fanno scempio con quel rumore sinistro. Sono diventate un mucchio di carta anonima che va a mischiarsi alla banale corrispondenza d’ufficio.

Ora so qualcosa che non mi sarei mai neanche lontanamente immaginata. Ma ho anche capito che non me ne importa. Il mio vero padre è l’uomo che mi ha riconosciuta dandomi il suo cognome e che è stato sempre al mio fianco fin dalla nascita. Io gli voglio bene e non voglio modificare il rapporto che ho con lui. Anzi, ora che siamo rimasti soli può solo diventare ancor più stretto. Se conosce la verità, sarà una sua scelta dirmi qualcosa, io non gli chiederò mai nulla. A Giorgio, invece, parlerò, ho tutte le intenzioni di farlo. Gli dirò che so la verità su loro due e gli sbatterò in faccia i risultati delle analisi. Perché non dovrei?

Gli farò anche credere che dirò tutto a sua moglie, anche se so benissimo che non ne sarò mai capace. Se lo merita!

 

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