Tu, mio piccolo gigante

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia vera più apprezzata del n. 51: “Tu, il mio piccolo gigante” di Marilena Parisi

 

Il nostro è stato un legame di parole non dette ma capite, di sguardi indovinati, di sentimenti condivisi. Adesso vedo che i tuoi capelli sono grigi, come i baffi. “Non voglio che diventi vecchio, papà” penso. Stavolta, però, non te lo dico

Storia vera di Marilena Parisi

 

«Ancora un altro po’ papà, dai!» grido stringendo le mie braccia intorno al tuo collo. Il sole brucia sulle nostre teste e illumina le onde spumeggianti che ci circondano.

«È da troppo tempo che siamo in acqua, Marilena, usciamo, guarda le tue dita: vedi che si stanno screpolando?».

Ma io non ti ascolto e ti stringo ancora più forte.

Il tuo profumo di dopobarba che sa di pino mi avvolge inebriante, i tuoi baffi mi solleticano il mento.

Non voglio che mi lasci, mi sento al sicuro così. Mi sento come se non mi mancasse niente altro in questo momento e vorrei che durasse per sempre.

Mi sorridi, i tuoi capelli mossi ondeggiano liberi controvento, mi piace tanto osservarli. Sul tuo petto la catenina d’oro spicca sulla tua pelle abbronzata che sa di sale.

È un odore delicato e familiare, mi si imprime nella memoria e lo posso ricordare ogni volta che voglio.

Ogni volta che mi prende la nostalgia. Ogni volta che ho il desiderio di sentirti vicino.

La sabbia si mescola sotto i miei piccoli piedi. Come sono grandi i tuoi! Grandi come quelli di un gigante.

Ti guardo mentre ti sdrai al sole, due conchiglie appoggiate sulle palpebre mi fanno ridere.

Uno stratagemma che hai inventato tu, per proteggere i tuoi occhi. Voglio imitarti come faccio sempre, ma non mi riesce, non riesco a trovare due conchiglie perfette come quelle che hai trovato tu.

«Papà, la mia pancia brontola» ti dico improvvisamente, lasciando il mio secchiello e la paletta sulla sabbia.

«Aspetta, adesso andiamo a comprare due pesche noci, belle fresche, va bene?» mi rispondi facendomi l’occhiolino, un gesto che facevi sempre e che mi rassicurava, non so il perché.

Mi dava un senso di serenità, come se mi dicessi “va tutto bene, stai tranquilla”.

Le pesche noci, il tuo frutto preferito. Dolci, succose, amavi mangiarle quando faceva molto caldo, quando andavamo al mare le compravi ogni giorno. E io le mangiavo con te.

Ci fermavamo alla fontanella, lungo il tragitto per tornare a casa, le sciacquavamo velocemente e ci sciacquavamo anche i piedi, sudati e ancora pieni di sabbia.

«Papà, oggi pomeriggio torniamo presto, vero?» ti dico come sempre speranzosa.

«Io dopo pranzo ritorno, vieni con me» e mi fai felice ancora una volta.

«Quando ridi si vedono i buchini sulle tue guance!» mi dici.

«Come te, papà» ti rispondo serena.

Quante volte mi hai ripetuto questa frase, quasi ogni volta che sorridevamo insieme. Quelle fossette sono state compagne fedeli di ogni mia risata, anche di quelle che non facevo con te, anche di quelle che trattenevo ricordandomi di te, in qualsiasi posto, in qualunque momento. Inaspettatamente. «Mettimi sulle spalle dai!» ti chiedo tirandoti la maglietta. E allora con le tue grandi braccia mi sollevi e mi fai sedere a cavalcioni, le mie gambe avvolte al tuo collo. Tieni le mie mani ben salde. Sei un gigante, per me che sono piccola, un gigante grande e forte.

Da quassù si vede il mondo da una prospettiva diversa. Le persone sono diverse, sono tutte più piccole di me, sì, ancora più piccole e, guardando in su, il cielo è un po’ più vicino. Vorrei toccarlo con un dito, anche se sono talmente felice che lo tocco già.

Ancora quel profumo, il tuo, sale piano verso di me e mi avvolge di nuovo.

Avevi paura dell’acqua, non ti spingevi mai al largo e non mi hai mai insegnato a nuotare, ma io ho imparato lo stesso e, paradossalmente, quel timore che mi hai trasmesso mi ha dato ancora più coraggio, coraggio nell’affrontare la vita.

«Dai un bacio al tuo papà!». Uno, dieci, cento baci ancora; non erano mai abbastanza né per me, né per te.

«Mi racconti la favola della formichina?» ti chiedo sdraiandomi al tuo fianco, come se mi fossi preparata ad uno spettacolo speciale.

Ti ascolto assorta e sognante, mentre tu mi racconti una storia che conosco a memoria, con tanto di personaggi curiosi e divertenti.

 

La cicala che non smette di cantare mi fa ridere, la formichina che lavora sempre mi fa riflettere.

Ancora quel senso di sicurezza che mi pervade, a poco a poco gli occhi mi sembrano così stanchi, le gambe mi fanno male e mi addormento beata.

Il mio gigante dorme vicino a me e questo mi basta.

I cartoni animati, scacciapensieri del sabato pomeriggio, il gelato sul corso e poi andiamo dal barbiere.

Mi fai sedere sulla sedia più alta. «Ora sono grande come te, papà!».

Con i capelli più corti sei sempre bello e quasi quasi mi sembri ancora più alto del tuo metro e 82. Ammiri per un attimo la tua immagine riflessa nello specchio e io sorrido facendo capolino dietro di te.

All’improvviso mi viene voglia di misurare la mia mano con la tua, allora ti chiedo di battere un cinque e rimango incredula nel vedere le mie piccole dita sparire nella tua grande presa.

«Ahi, mi fai male così!» sorrido e non so se piangere o continuare a ridere.

«Hai visto come sono forte!» mi dici subito abbracciandomi fino a togliermi il respiro.

Lo so che sei forte, sei il mio papà, il mio gigante.

Di nuovo sulla spiaggia, ma io non sono vicino a te.

«Io ti guardo da qui, non ti allontanare e non più di mezz’ora. Mi raccomando».

Mentre mi tuffo nell’acqua salata, non so se essere contenta di questa tua gelosia oppure no.

A 20 metri dalla riva mi volto indietro e ti scruto da lontano.

I tuoi occhi, fissi su di me, non mi mollano un istante.

«Stasera posso uscire con le mie amiche?» ti chiedo quasi implorante uscendo dall’acqua.

«Ti accompagno io, dove andate? Ci sono degli scagnozzi in giro?».

Li chiamavi così, i ragazzi che mi stavano intorno, scagnozzi o addirittura delinquenti.

E mi facevi sorridere. Però mi facevi anche terribilmente arrabbiare e allora litigavamo ma soltanto per un pochino. Non riuscivamo ad andare oltre, io e te.

Ci fermavamo sempre prima, prima che ci dovessimo pentire di qualcosa di spiacevole. Qualcosa che poteva fare male. A me e anche a te.

Tu sapevi fermarti prima perché detestavi litigare con me.

Io sapevo fermarmi prima perché ti vedevo come il mio gigante buono.

Anche quando ti arrabbiavi.

«Gli scagnozzi non ci sono, papà, ci siamo solo io e le mie amiche».

Allora mi guardavi fisso e, siccome ti eri levato un peso dal cuore, mi sorridevi pure. E si vedevano, bellissime, le tue fossette.

«Non un minuto più tardi di mezzanotte, io ti aspetto davanti al bar, non farmi preoccupare» mi dici tornando serio e io non oso replicare.

Dentro di me però sono furiosa, ma riesco a non darlo a vedere, almeno davanti a te.

Mi sembra ingiusto che a 16 anni io non possa trattenermi fuori un po’ di più. Poi faccio un profondo respiro e mi convinco che sicuramente stai facendo la cosa giusta. La cosa giusta per me.

«Marilena non ti sei dimenticata di qualcosa?» mi interroghi con quel tuo sopracciglio dubbioso.

Comprendo all’istante che desideri il mio bacio, quel bacio di saluto immancabile ogni volta che ti lasciavo, ogni volta prima di scendere dalla macchina al mattino, quando mi accompagnavi a scuola e ora anche alla sera  prima di uscire da sola.

 

Però sola non mi sentivo mai, perché eri sempre presente anche quando non c’eri, con le tue raccomandazioni, con i tuoi consigli.

Un’ombra che mi accompagnava costantemente e mi dava sollievo.

Puntuale come al solito, ti ritrovo lì, che mi aspetti seduto in macchina, mentre fumi una sigaretta.

Sono uscita con un ragazzo stasera e so già che me lo chiederai.

Invece, fai finta di nulla e ti limiti a scrutarmi con i tuoi occhi scuri.

Mi leggi dentro, lo sento, lo percepisco.

E io mi ritrovo ancora una volta divisa in due: non capisco se esserne felice o dispiaciuta. Forse tutte e due le cose, ma questa sensazione mi piace. Incredibilmente, mi trasmetti un senso di tranquillità, ancora una volta. Un senso di protezione e sicurezza.

Non ho dimenticato che sei ancora il mio gigante.

Ti osservo per qualche minuto, mentre guidi.

I tuoi capelli che mi ricordavo scuri fino ad un momento prima, mi appaiono strani, il colore è un po’ diverso, intervallato da qualche filo d’argento.

Anche i tuoi baffi sono diversi e provo una sensazione di malinconia.

«Non voglio che diventi vecchio, papà» ti sussurro piano.

Poi capisco che ti faccio diventare triste quindi decido di cambiare  argomento.

Ma tu mi interrompi bruscamente e mi dici: «La prossima volta che vai a ballare vorrei venire anch’io».

“Vorrei” hai detto. Per la prima volta probabilmente mi vedi già grande, perché hai espresso un desiderio, non un’imposizione.

«Va bene, papà, ci andiamo insieme».

Nella sala da ballo gremita di persone mi chiedi di fare un tango, poi un valzer, poi una polka.

«Sei più bravo di tutti i ballerini che ho avuto nelle mie esibizioni di danza, lo sai?» ti grido all’orecchio.

«E tu sei leggera come una farfalla» mi rispondi prontamente.

Quante volte mi hai accompagnato a scuola di ballo durante la mia infanzia, quante volte mi hai guardato volteggiare sulla pista dicendo orgoglioso a tutte le persone che conoscevi: «Lei è mia figlia».

E io che ero orgogliosa di te.

Eri più alto di tutti i miei compagni di danza e questa cosa mi piaceva un sacco.

«Domani vorrei andare a fare un giro a Bologna, ci vieni con me?».

«Ok, papà, è da un po’ che non ci andiamo, ma non mi va di spendere soldi stavolta».

«Guarda che io volevo solo andare a passeggiare sotto i portici e a prendere un caffè» mi dicevi, anche se sapevo che non era così.

Sento ancora il gusto di quel caffè che bevevamo, io e te, in via Indipendenza, era una scusa perfetta per passare un pomeriggio a guardare le vetrine dei negozi.

A volte mi compravi un libro o una maglietta, cose semplici, ma che eri sicuro mi facessero contenta.

Gli oggetti che mi regalavi li custodivo gelosamente, avevo quasi paura a usarli, non volevo sciuparli.

Volevo immortalarli nel tempo, il più a lungo possibile, come il tempo che passavo con te, che già allora sapevo che non poteva essere eterno.

Come la musica che ascoltavamo in macchina, noi amanti delle belle canzoni tutti e due, delle canzoni d’autore, delle canzoni con un significato.

Come quella canzone di Mango, Nella mia città, dove c’era una casa bianca, la stessa casa di un paesino del Sud dove sei nato e dove mi hai portato in quella settimana d’ottobre di tanti anni fa.

«Mi piacerebbe tornare a Ginosa» mi hai detto un giorno.

«Io vengo con te» ti ho risposto entusiasta.

«Devo farti vedere alcune cose che tu non puoi ricordare, eri troppo piccola» mi dici.

Partiamo presto, non è ancora l’alba.

Ci piace viaggiare di notte, a noi due.

Dall’autostrada, a poco a poco iniziano a intravedersi i campi di girasole, quei fiori che tu ami tanto.

Distese a perdita d’occhio di colore giallo vivo si allungano davanti a noi, non riesco a scorgerne il perimetro all’orizzonte.

L’aria è diversa qui, è fresca e profumata, più leggera.

I nostri cuori sono più leggeri.

Nella piazzetta del paese dove tu giocavi tanti anni fa, ora giocano altri bambini.

Di fronte alla chiesa, sul lato destro, alla fine della strada, la tua casa.

La casa dove sei nato, dove sei cresciuto. I gradini davanti alla porta d’ingresso sono un po’ consumati. Su quei gradini chissà quante volte hai mangiato il panino con le cime di rapa, di cui anch’io vado matta.

Ricordi lontani ma ancora tangibili della tua vita che vuoi condividere con me.

Le casette sono tutte uguali, scavate nella roccia di tufo, tutte bianche, ma la tua mi sembra ancora più bianca, quasi splendente, illuminata dal sole.

I tuoi occhi si perdono insieme ai miei: tracce indelebili stampate nella tua memoria prendono vita e io riesco soltanto a partecipare a questo piccolo miracolo.

«Com’è piccola la mia casa, me la ricordavo più grande!» mi dici sorpreso.

 

Sei tu che sei diventato grande come un gigante, papà, la casetta è sempre la stessa.

Abbiamo continuato a fare tante cose insieme, io e te. Durante la mia infanzia e la mia adolescenza. Fino a quando mi sono sposata.

Quella mattina non eravamo solo noi, gli sposi, a essere belli e raggianti, ma lo eri anche tu. Forse tu lo eri di più, ma non potevi mica darlo a vedere.

Quel giorno che ti separavi da me, in realtà sapevi che non mi avresti mai perduta.

Ti sarei rimasta sempre al fianco, e tu saresti stato accanto a me.

I problemi che hai dovuto attraversare negli ultimi anni forse ti hanno cambiato, ma io imperterrita ho voluto e ho continuato sempre a vederti com’eri prima che la vita velasse il tuo sguardo di malinconia.

Io la percepivo quella malinconia, ma ho sempre cercato di allontanarla da te e da me.

Un legame indissolubile, fatto di parole non dette ma capite, di sguardi indovinati, di sentimenti condivisi.

A poco a poco, il mio gigante stava diventando piccolo.

Non volevo accettarlo, cercavo di convincermi che non fosse così.

Ti osservo e vedo che i tuoi capelli ora sono tutti grigi, anche i baffi ormai.

“Non voglio che diventi vecchio, papà” penso e stavolta non te lo dico.

«Vieni a fare una passeggiata con me, oggi? Andiamo in centro? Voglio farti vedere una cosa che non hai mai visto» ti imploro.

«Oggi no, Marilena, mi fanno male le gambe, non mi sento bene, dai, magari un’altra volta».

Adesso sono io che lo chiedo a te.

So già che non ci sarà una prossima volta. Lo sento.

Non c’è più stata una prossima volta fino a quel maledetto giorno.

Ti accompagno all’ospedale, devi fare una visita, da tanto, troppo tempo ormai. Dici sempre che non hai bisogno di curarti, tu.

In questa stanza però dovrai rimanerci per un bel po’.

Su quel letto mi sembri così piccolo, allora mi sposto più in là, voglio osservarti da un’altra prospettiva. Una prospettiva diversa, che mi rimandi un’immagine più grande, ancora più dilatata in questo piccolo spazio, per quanto sia possibile.

No, non mi sono sbagliata, sei ancora grande e alto, le tue gambe stese sono lunghe, anche se magre. Voglio illudermi ancora un po’.

Sei ancora il mio papà, sei sempre tu.

Mi tendi la mano, le tue dita sono deboli, questa volta sono io che te la stringo forte, ma non ti faccio male come tu facevi a me.

«Ti ho portato una pesca noce, papà» e te la sbuccio, ma capisco subito che non riusciresti a mangiarla.

«Vorrei soltanto fare ancora un bagno in quell’acqua fresca, ma ho paura di non farcela stavolta, Marilena».

«Appena starai meglio ci andremo insieme io e te, te lo prometto papà» ti rispondo, mentre due lacrime calde mi rigano le guance.

«Marilena… sorridi, perché quando ridi hai le fossette sul viso» mi sussurri.

Guardo fuori dalla finestra, il cielo ha cambiato colore.

Le nuvole scure sono minacciose, di quell’azzurro terso che mi avvolgeva fino a non troppo tempo fa nessuna traccia.

Ti guardo e ora capisco ogni cosa. Devo e voglio farmene una ragione.

Adesso capisco perché il mio gigante è diventato piccolo. Perché deve vivere per sempre nel mio cuore.

 

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