Un pesante fardello

Cuore
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La storia più apprezzata della settimana su Facebook è stata selezionata da ConfyLab e pubblicata sul n. 51 di Confidenze. Ve la riproponiamo sul blog

 

Era un amico di famiglia e nei miei confronti aveva attenzioni che scambiavo con gesti paterni. Ora so che le sue erano molestie psicologiche ma per anni mi sono sentita sbagliata

Storia vera di Carol T. raccolta Silvia Cavalleri

 

Oggi è la festa del papà, impossibile dimenticarsene, in qualsiasi social le foto di padri vivi e padri morti si mescolano, fotografie sgranate, sbiadite e datate si uniscono ai selfie dell’ultimo momento. Anche le frasi si ripetono anno dopo anno sempre uguali: si passa da “Cosa farei senza di te”, “Il papà migliore del mondo”, a “Mi manchi ogni giorno di più”, “Sono già passati 5-10-15-20 anni”, “Papà proteggimi da lassù” .

Ma la verità è che nessun padre protegge il proprio figlio da lassù, il mio non l’ha fatto e dubito persino mi avrebbe protetta anche da quaggiù. Non c’era a proteggermi quando tutti gli uomini che ho incontrato dai 16 anni in poi hanno solo visto una ragazzina orfana e sperduta sulla quale sfogare le loro voglie più recondite. Non c’era a sostenermi quando non sapevo cosa fare della mia vita o a supportarmi in tutte le mie sfide, quando dovevo prendere la patente e non mi ha insegnato a guidare, quando dovevo acquistare la macchina e non c’era nessuno ad aiutarmi. Non sono arrabbiata, non sono delusa, non sono più una ragazzina. Non provo semplicemente più nulla. Amore incondizionato, gratitudine per avermi donato la vita, orgoglio per ciò che mi ha insegnato da piccola, nostalgia delle nostre pedalate in bici, rabbia per tutto quello che ho dovuto passare prima, durante e dopo. Non sento niente di tutto questo. Le sue crisi, la sua depressione, i miei vuoti nell’anima, non provo più nulla. Tutto è diventato asettico, e quando scorro la bacheca di Facebook con quegli auguri e tutte quelle foto, non ho più reazioni.

Ho smesso di parlare con lui, non ricordo il suono della sua voce e non sono interessata a ricordarlo, è troppo tempo che non ho una figura paterna, non so nemmeno cosa significhi, e per quanto mi sforzi non ho idea di come sarebbe la mia vita se ci fosse anche lui. Sicuramente non sarei la donna che sono ora, ma quello che sono diventata mi piace, e non lo cambierei per nulla al mondo. La consapevolezza che ho di me, degli altri, dei comportamenti genitoriali con i quali ho voluto combattere perché non mi ci rispecchiavo, la ricerca continua della perfezione e dell’arte, il mio bisogno spasmodico di conoscere e vivere, di visitare e viaggiare.

Anche se gli anni più innocenti li ho buttati via, non vorrei altra strada che la mia, non vorrei altra vita che la mia”, come dice la canzone.

Non ho avuto la possibilità di rispettare i tempi di crescita normali di una ragazzina, ho dovuto assumermi responsabilità più grandi di me, nessuno mi ha mai chiesto se andasse bene evitare le uscite serali, se fossi d’accordo nel rimanere rinchiusa in casa. Tutti hanno sempre dato per scontato che io dovessi essere matura, che dovessi comportarmi bene, essere educata ed empatica, capire gli altri, persino dar loro dei consigli. Mi guardo indietro e vedo un percorso tortuoso, difficile, insidioso, una strada percorsa da sola nel buio totale, a tentoni, senza sapere davvero se in fondo alla via avrei trovato la luce del sole o semplicemente un lampione. Se ci penso fa male, non perché mi mancasse mio padre, ma perché mi ero persa io. Non posso dire che mi manchi per il semplice fatto che non so più cosa significhi averlo vicino o cosa farebbe per me, so che se devo risolvere qualcosa posso contare solo su di me e questo è un bene. Non ho aspettative.

«Sai che domenica Giulia mi ha detto di aver sentito qualche chiacchiera in giro riguardo Anna e Cristian?» disse mia madre.

Di solito non ero interessata ai pettegolezzi che mi riferiva, in generale non ero incuriosita di ciò che facevano gli altri nella loro vita, ma quelle persone per me avevano un significato particolare.

«Sì? Di che tipo?».

«Sembra che escano insieme»

«Se escono insieme fanno bene, ma Giulia dovrebbe preoccuparsi più di suo marito che di quello che fanno due persone libere».

«Carol!». Eravamo arrivati, salutai mia madre e nel momento in cui scesi dall’auto mi ritrovai improvvisamente a dieci anni prima. Era morto mio padre e io ero ancora quella ragazzina ingenua, fragile e infelice, facilmente raggirabile e circuibile, o almeno era quello che pensava Simone.

Era un amico dei miei genitori, carissimo amico, talmente vicino che si prese a cuore la mia situazione, i miei problemi, le mie difficoltà, e se avesse potuto, anche tutto il resto. Mi aveva coinvolta in un’associazione di volontariato della quale faceva parte, mia madre ne era entusiasta e tutti erano contenti che io uscissi di casa, mi svagassi, non pensassi a tutto ciò che era accaduto. Soprattutto Simone ne era felice, straordinariamente elettrizzato all’idea di poter passare del tempo con me. Solamente in un secondo momento avevo scoperto che avrebbe preferito rimanere solo a contatto con il mio giovane corpo, per questo in ognuna di quelle sere ricevevo un suo messaggio:

Vengo a prenderti io stasera, va bene?”.

Certamente. Solita ora?”.

Solita ora”.

Inizialmente non avevo capito perché insistesse tanto per accompagnarmi in macchina, considerato che quell’associazione si trovava a pochi passi da casa mia. Eppure avevo iniziato a vivere alla leggera quelle uscite, per due ore alla settimana ero riuscita a mettere da parte i pensieri fingendo di aver dimenticato cosa era davvero successo. Avevo scambiato le sue attenzioni per gesti paterni, credevo volesse proteggermi e farmi sentire parte di qualcosa dal momento in cui avevo perso tutto.

Mi sbagliavo, stava per attirarmi nella sua trappola. Questo tipo di comportamenti atti ad adescare qualcuno non avvengono nel giro di poco tempo, non è una cosa evidente fin da subito, tutto accade nell’arco di mesi. Dai messaggi per sapere come stai si passa ai complimenti velati, le normali uscite in famiglia diventano una scusa per avere quella persona sempre intorno e tutto si fa asfissiante, è come una morsa che stringe attorno al collo della quale però ci si rende conto quando ormai è troppo tardi. A un certo punto, infatti, tutto era cambiato. Simone aveva iniziato a fare discorsi ambigui, rivolgendomi apprezzamenti inopportuni e mandandomi messaggi di dubbia interpretazione che dimostravano un’unica inconfutabile verità: il suo interesse nei miei confronti. Non un’ attenzione paterna o amichevole, quanto più un coinvolgimento istintivo di altra natura. Il suo desiderio nei miei confronti era palpabile, giorno dopo giorno, incontro dopo incontro, lasciandomi sfinita, disgustata e incapace di mettere una fine ai continui messaggi, alle attenzioni, ai complimenti non richiesti. Esercitava su di me una pressione psicologica dalla quale non riuscivo a liberarmi. Non mi molestò mai fisicamente, non per rispetto nei miei confronti o nei confronti della mia famiglia, ma per mancanza di coraggio, per paura che io potessi parlarne con qualcuno. Era terrorizzato dall’idea che io potessi raccontare dei suoi comportamenti fuori luogo, anche solo con qualche mia amica. Sapeva bene cosa stava facendo.

Mi sentivo sbagliata. Quella sensazione era così potente da farmi sopportare qualsiasi cosa, credevo in qualche modo di meritare ciò che mi stava accadendo, il vuoto nel quale venivo risucchiata poco a poco. Mettevo da parte il rispetto di me stessa e la mia integrità morale per paura di rovinare l’amicizia che intercorreva tra le nostre famiglie se solo avessi osato raccontare a qualcuno ciò che stava accadendo. Ero preoccupata, come centinaia di altre donne che si sentono strette nella morsa, di risultare l’artefice di una rottura della quale mi sarei sentita responsabile. A chi avrebbero addossato la colpa?

A un uomo affidabile e rispettabile, un imprenditore e padre di famiglia o a una ragazzina in piena crisi adolescenziale, attirata da un uomo adulto, dopo aver appena perso suo padre?

La risposta era ed è tuttora piuttosto scontata: sarebbe stata colpa mia. I messaggi a sostegno della mia tesi o il disgusto dipinto sul mio volto non sarebbero bastati a convincere una stretta cerchia di amici che io fossi la vittima. Le chiacchiere e i pettegolezzi si sarebbero allargati a macchia d’olio, una voce sarebbe diventata un coro e le menzogne sul mio conto mi avrebbero letteralmente sotterrata, proprio com’era accaduto a mio padre un anno prima.

Mi ero convinta che tutte le difficoltà che si stavano presentando durante il corso di quell’anno, non stavano capitando a me perché fossi sfortunata o perché il destino avesse deciso di infierire su di me, ma perché io ero in grado di affrontarle. È una consapevolezza che mi porto dietro tuttora e che, probabilmente, mi ha salvata. Nel momento in cui mi ero convinta che sarei stata in grado di resistere a tutto, avevo vinto la battaglia con i miei demoni interiori e con quelli esteriori, che cercavano in ogni modo possibile di circuirmi.

Una mattina mi ero svegliata e dopo aver letto il suo buongiorno mi riscoprii improvvisamente diversa, determinata. Dissi a Simone le parole di cui aveva più paura al mondo: «Ho raccontato a mia madre quello che mi dici, le ho fatto leggere i messaggi che mi mandi, così come ho fatto con tutti i miei amici, e se non la smetti, li faccio recapitare anche a tua moglie».

Non era vero, è un fardello pesante che mi porto dietro tuttora, ma era bastato.

Cercò di giustificarsi dicendo che non aveva fatto nulla di male, che se aveva in qualche modo esagerato mi chiedeva scusa, forse si era lasciato trasportare da una sorta di passione che gli aveva annebbiato il cervello. La repulsione che provai nei suoi confronti mi sconvolse.

Quello stesso pomeriggio mi mandò quello che sarebbe stato l’ultimo dei suoi messaggi e che ricorderò fino alla fine dei miei giorni. Mi disse di essere andato a trovare mio padre al cimitero, di avergli parlato, di aver avuto con lui una discussione nella quale gli aveva fatto capire che con me non si stava comportando in modo opportuno e che proprio per quel motivo, si sarebbe allontanato.

L’avevo odiato con tutta me stessa e covando quell’odio mi ero resa conto di quanto fosse viscido, ridicolo e in ultima analisi persino patetico. Aveva creduto di potermi addolcire parlandomi di mio padre, non conoscendo il mio cinismo razionale, in un cimitero non si trovano altro che lapidi, fiori e fotografie, non di certo le persone che amiamo. E lui era l’ultima persona al mondo con la quale mio padre avrebbe potuto parlare.

Sparì, risucchiato in un buco nero, improvvisamente disinteressato al mio benessere mentale del quale si era tanto preoccupato fino a quel momento, perlomeno agli occhi di tutti.

 

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