Villino Ortensia

Cuore
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È stata la storia più votata del numero 42. Da oggi potete rileggerla sul blog

Era la casa di famiglia dove trascorrevamo l’estate. Ci ho voluto fare ritorno a 80 anni. Mi sono seduta in pineta, ho chiuso gli occhi e mi sono persa nel profumo di resina e di mare. Il mio passato è una certezza, una felicità che non scorderò mai 

Storia vera di Ursula S. raccolta da Tiziana Pasetti

La tovaglia di lino bianco risplende di macchie solari. Agosto non risparmia la luce forte, ma i pini secolari regalano al caldo tracce d’ombra e di fresco. La brezza che viene dal mare si unisce all’aria delle colline e questa pineta, da sempre un angolo di paradiso, è il rifugio perfetto per le ore che rendono difficile il respiro e affaticano i gesti. Quando maggio finiva, in casa mia cominciavano i grandi preparativi: mia madre si sentiva più volte al giorno con mia nonna e con le mie zie, che in città vivevano non troppo distante, ma abbastanza lontano per impedire una frequentazione quotidiana a tutte le componenti della numerosa famiglia. I grandi preparativi riguardavano il trasferimento al mare, un trasferimento che sarebbe terminato come sempre la prima settimana di ottobre e che avrebbe visto tutti noi cugini e cugine pronti per un nuovo anno scolastico, tutti un po’ più alti e convinti di essere ormai entrati nel mondo adulto. Lo pensavamo anche quando avevamo otto anni, ovviamente. I capelli schiariti dalle ore infinite passate sulla spiaggia, la pelle quasi nera e già pronta per cedere alla nuova, sacche di ricordi da conservare per sempre. Il villino Ortensia era stato costruito a metà Ottocento dal padre di mia nonna e a lei e al suo nome, primogenita di un grande amore, quello tra Patrizio Nereo e Gioconda Sofia, era stato dedicato. Dopo Ortensia erano nati altri due bambini, entrambi maschi, ma il fato avverso si era abbattuto sulla discendenza dei miei bisnonni ed entrambi morirono poco dopo la nascita. Nonna Ortensia divenne il gioiello e la luce dei suoi genitori, una presenza preziosissima da proteggere e da riempire di felicità.

Il villino, a dispetto del nome, era in realtà una costruzione magnifica, tre piani anticipati da una entrata con colonnato e immersa in un parco delizioso ricco di infinite varietà di alberi e fiori. La pineta che separava la grande casa dal mare impediva la vista della distesa d’acqua, solo una leggera linea azzurra era a tratti visibile tra i rami, ma bastava attraversare quella manciata di metri e la sabbia era lì ad accoglierti, te, i tuoi secchielli e palette rudimentali, i castelli da immaginare indistruttibili. La tovaglia di lino bianco profuma di sapone di Marsiglia, soffia un vento leggero e la fragranza che si sprigiona dal tessuto mi avvolge. Chiudo gli occhi, e nella mia mente riesco a vedere tutto, tutto è nitido, odori e cose. Nonna Ortensia, donna rivoluzionaria per quei tempi, aveva già 30 anni quando sposò Ubaldo e con lui ebbe quattro figlie; l’ultima, che avrebbe dovuto essere il tanto agognato maschio e invece fu mia madre, dopo aver superato da un bel tratto i 40. Io sono Ursula e sono nata nel dicembre del 1939, figlia unica di mia madre Andrea, il nome era stato deciso per il maschio e quello restò regalandole un destino a dir poco movimentato, detta “la scavezzacollo”, e del mio sconosciuto padre Friedrich, polacco morto in guerra. Madre Andrea, così l’ho sempre chiamata, era andata via di casa presto e faceva la crocerossina. La leggenda, che per una volta sembra coincida alla perfezione con la realtà, vuole che io sia stata concepita quasi sul letto di morte di mio padre, valoroso soldato dagli occhi blu come il cielo e le mani abili più per accarezzare un corpo femminile che per imbracciare fucili, però. Madre Andrea tornò di fretta, chissà come, prima che il conflitto divorasse l’Europa e dopo avermi fatta nascere si era messa a studiare medicina. L’ho vista poco, durante la mia infanzia: in inverno badava a me Maddalena, un’anziana donna che era stata a servizio da nonna Ortensia e che aveva da sempre un debole per l’ultima nata che, anche senza essere il maschio tanto desiderato, aveva comunque sviluppato un carattere portentoso e gagliardo.

 

Durante le lunghe estati al villino, invece, badavano a me la nonna, il nonno e le mie zie insieme ai loro mariti che, carichi di ceste di frutta e vassoi di dolcetti comprati nella nostra pasticceria preferita, si aggiungevano a noi durante il fine settimana. Io ero felice, allora, tutti i miei cugini e cugine erano come fratelli e sorelle e quando madre Andrea ci raggiungeva era una gran festa, inventava per tutti noi giochi divertentissimi e ci faceva nuotare intorno a lei fino al tramonto, quando l’acqua diventava più calda ma anche scura, misteriosa, e noi ci sentivamo eroi degli abissi. Veniva a chiamarci nonna Ortensia, al limitar della pineta: «È pronta la cena!» gridava per superare in altezza il suono delle onde e del grande silenzio di quella natura selvaggia e armoniosa che ci abbracciava e circondava. Correvamo felici verso casa a piedi nudi, ci versavamo addosso le conche colme di acqua scaldata dal sole per toglierci il sale dalla pelle e poi, stretti nei teli di cotone, prendevamo posto a tavola. Dopo aver mangiato, nonna Ortensia era una cuoca strepitosa, crollavamo a dormire, soddisfatti e realizzati. I nostri giorni erano colmi di tutte le cose belle che servono ai bambini, insieme alle vitamine e alle proteine, per diventare grandi e forti: ricordi futuri, muscolatura per una vita adulta serena. La guerra era finita da poco, le ferite erano ancora tutte visibili nelle nostre città e soprattutto sui corpi e nei cuori, ma in quell’angolo di mondo sembrava essere scesa una sorta di benedizione. Anche durante gli anni cruenti, dei quali io non conservo una memoria del tutto fedele per via della mia età, il villino fu in grado di proteggere tutti noi dal terrore degli aerei nemici, dalla sconfinata tristezza che toglieva il sorriso a chiunque, dall’ansia delle sirene del coprifuoco, dall’odore terribile che permea ogni guerra. Quello che era tornato a essere il luogo per le vacanze estive era stato, per tutta la durata del conflitto, un vero e proprio rifugio non solo per nonna Ortensia e la sua famiglia, ma anche per le sue cugine e per alcuni amici: a nessuno fu negata ospitalità, salvezza.

Sulla tovaglia di lino c’è una borraccia per tenere l’acqua al fresco e una ciotola con dentro della frutta: ciliegie, uva, pesche e albicocche. Intorno, due api ronzano svogliate, forse già sazie. Mangiavamo sempre fuori, al villino. Anche quando pioveva la veranda costruita dal nonno proteggeva il grande tavolo di pietra dalle gocce d’acqua. Colazione, pranzo, merenda e cena. Al villino si andava per respirare l’aria e per rafforzare i polmoni in vista del lungo inverno cittadino. Con i miei cugini e cugine avevamo deciso già come ci saremmo divisi le grandi camere una volta diventati grandi: avevamo tirato a sorte e a me era toccata la camera fucsia, una grande stanza angolare al secondo piano con un ampio balcone stracolmo della splendida pianta che, nonostante l’aspetto delicatissimo, sapeva resistere a salsedine e sole e anzi, proprio grazie a questi due elementi cresceva rigogliosa. In quel tempo apparteneva a zia Vanessa, la primogenita di nonna Ortensia, e a suo marito Glauco. Zia Vanessa, in città, aveva un negozio di stoffe e un laboratorio di sartoria che confezionava tende, lenzuola e tovaglie.

 

Tutto, al villino, era stato creato dalla fantasia della zia, anche le stoffe antiche appartenute ai bisnonni e sapientemente rigenerate. Tutti noi avevamo un set personale da toilette con le rispettive iniziali riportate sul tessuto di spugna doppiato con una striscia di lino grezzo. Erano tutti diversi, un identificativo speciale per il quale la zia sapeva dare ogni spiegazione: ogni fiore rispecchiava il nostro carattere, la nostra indole, la nostra natura. Intorno alla mia U mia zia faceva ricamare delle violette e veniva da quel piccolo fiore selvatico e gentile il mio profumo preferito.

La tovaglia di lino non ha neanche una piega fuori posto, è quasi mezzogiorno, la luce è forte ma i pini la rendono sopportabile, bella. Dopo gli anni dell’infanzia, quelli più felici, inconsapevoli ed eterni, sono arrivati quelli delle nostre allegre adolescenze. Madre Andrea aveva regalato a me e alle mie cugine delle splendide gonne a ruota e la sera zio Glauco ci accompagnava in paese a prendere il gelato e ad ascoltare la musica della piccola orchestrina che cominciava a far tornare a tutti la voglia di ballare, di essere felici. Gli anni Cinquanta avevano portato una ventata di ottimismo e allegria, una promessa di grande futuro.

Nonna Ortensia una mattina non si è svegliata e dopo un paio di mesi il nonno l’ha raggiunta.

Il villino sembrò perdere la sua anima e per paura potesse cedere nella struttura tutti cominciammo a farci in quattro per sanare ogni piccolo cedimento. Con noi c’erano i nostri mariti, le mogli, i figli che nacquero. Qualcosa, però, stava cambiando e noi tutti non riuscimmo a fare nulla per fermare il nuovo corso delle cose.

Questa mattina, dopo tanto tempo e nonostante i miei 80 anni, ho preso la macchina, ho caricato una cesta con dentro una delle tovaglie di zia Vanessa e della frutta. Ho preso un bel libro e una sedia leggera. Quando ero bambina ci volevano tre ore per arrivare al villino, oggi bastano 45 minuti. Ho trovato un tavolo libero, in pineta, e ho steso la tovaglia. Per un istante tutto mi è sembrato cominciasse a girare. Mi sono appoggiata al tavolo, ho respirato a fondo.

Il villino Ortensia oggi si chiama Residence Verde, è stato diviso in tanti piccoli appartamenti e viene affittato ai turisti.

Le liti in famiglia, soprattutto tra i nostri figli, hanno portato alla sua vendita, ormai più di 20 anni fa.

Mi sono seduta e ho allungato le gambe, ho provato a leggere qualche riga. Gli occhi hanno ceduto e mi sono persa, mi sono persa nel profumo del sapone di Marsiglia, della resina, del mare.

Dietro le mie spalle, sento la mia vita; mi vedo correre in cucina, mi vedo saltare tra le braccia di madre Andrea, mi vedo dietro i rovi selvatici cogliere more con l’uomo che poi avrei sposato. Prendo una pesca, l’addento felice. Il mio passato è una certezza, e una felicità, che non perderò mai. ●

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