Cartolina dalla fossa di Emir Suljagić

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Per la Giornata internazionale di riflessione del genocidio di Srebrenica, un libro da chi c'era e vide coi suoi occhi il massacro dei bosniaci

di Tiziana Pasetti

 

Trama – Emir Suljagić è un giornalista e politico bosniaco, direttore del Memoriale del genocidio di Srebrenica. A 17 anni fuggì dalla pulizia etnica in atto nel suo villaggio e si rifugiò, insieme ad altre decine di migliaia di persone – musulmani di Bosnia, ‘bosgnacchi’ – nell’enclave di Srebrenica. Nelle pagine della nostra storia contemporanea possiamo leggere quanto quella zona, quella safe area, si sia poi trasformata nel teatro del genocidio europeo più veloce dei nostri tempi: 10.000 uomini e ragazzi trucidati dai serbi (militari e civili) in poco meno di una settimana. Era il luglio del 1995. Emir Suljagić ‘invia’ al mondo (che è rimasto a guardare con distrazione, che quando è intervenuto lo ha fatto poco e male) una cartolina da quella fossa, il diario dei suoi anni a Srebrenica, il racconto dei giorni in cui non è esistito un secondo di silenzio, ogni attimo un colpo di mitra, una vita annientata. “Ricorderò i nomi finché sarò vivo”, scrive Emir. E di quei nomi, eterni nelle lapidi bianche, Emir ricorda il tempo vivo. Il tempo vivo di Šaćir Begić, un anziano dalla forza d’animo immensa, punto di riferimento della comunità per tutta la durata della guerra. Nel suo cortile si ritrovavano in molti, di sera. E sempre lui affermava “tutto andrà meglio di quanto pensiamo”. Emir non ha dimenticato il nome di Šaćir, ammazzato anche lui in quei giorni di luglio.

Un assaggio – Era il 18 maggio 1992. Il mio primo giorno a Srebrenica. Ci sarei rimasto ancora tre anni, più di mille giorni, uno uguale all’altro. Ma il primo giorno me lo ricordo, è diverso da tutti, spicca in quella lunga serie monotona, forse solo perché è il primo. Lo ricordo proprio grazie alla pioggia, fredda e primaverile, e la primavera quell’anno ritardava, lo ricordo per le grosse gocce che ci colpivano le spalle e la schiena, e passavano attraverso i vestiti inzuppati. Lo ricordo anche per il cielo grigio, che appariva minaccioso, ma allora noi non potevamo sapere perché fosse così. Lo ricordo come l’unico giorno della mia vita in cui provai una libertà totale, per quanto strano possa sembrare, dato che la città era assediata dai serbi, il giorno in cui per la prima volta – e questo è l’unico sentimento che ricordo – sentii un profondo impulso a sopravvivere. (…) Dal 13 maggio avevamo vagato a piedi da un villaggio all’altro. Nessuno dei miei compagni di viaggio è più vivo. Juso, con cui avevo lasciato la casa, morì in una colonna che nel luglio 1995, a piedi, cercava di raggiungere Tuzla da Srebrenica, a un passo dal territorio libero. Nihad, che mi condusse a Srebrenica, non sopravvisse al luglio 1995. Mio padre tornò a casa e morì nel suo cortile nel dicembre 1992.

Leggerlo perché – Riporto qualche riga del discorso che Emir Suljagić ha tenuto il 7 di luglio alle Nazioni Unite, credo possa essere una motivazione valida, che possa spingere tutti noi a smettere l’indifferenza, a prendere parte al coro attivo del dolore e della giustizia, del riconoscimento, della compassione: “Quando i miei compagni sopravvissuti al genocidio emersero dai boschi della Bosnia orientale nel luglio del 1995, nessuno ci credette. Le nostre storie erano così orribili, così inimmaginabili, che tutti scelsero di non crederci. A peggiorare l’orrore, nella più macabra operazione dell’intero conflitto, i resti mortali delle vittime furono così accuratamente distrutti dopo ripetute riesumazioni e sepolture – sparsi su oltre 2.900 chilometri quadrati – che i singoli siti di fosse comuni spesso contenevano solo un singolo osso o persino solo un frammento di un osso appartenente a una singola vittima. Negli ultimi 29 anni, abbiamo dovuto dimostrare ogni singolo dettaglio del nostro calvario, più e più volte. (…) Siamo stati aiutati anche dal fatto che i perpetratori del genocidio erano così sicuri della loro impunità da documentare ogni aspetto dell’operazione. Sappiamo chi ha premuto il grilletto e dove, chi ha manovrato i mezzi pesanti e quando, e da dove proveniva il carburante per il trasporto delle vittime verso i luoghi dell’uccisione e per la successiva eliminazione dei loro resti. E abbiamo dimostrato e documentato tutto. Le madri hanno attraversato centinaia di chilometri per testimoniare nei tribunali, in terre straniere e in lingue straniere, l’omicidio dei loro figli. I figli hanno testimoniato di aver stretto la mano dei loro padri per l’ultima volta e hanno affrontato coloro che ordinarono o eseguirono le uccisioni di massa. Per troppo tempo, è sembrato che stessimo lottando per dimostrare la nostra umanità di base, e in particolare, l’umanità di coloro che abbiamo perso. A volte è sembrato che dovessimo dimostrare che loro siano mai esistiti, che li abbiamo amati, e che loro hanno amato noi. Ricordare e onorare Srebrenica oggi, per noi, significa riconoscere un tempo in cui ci è stata negata l’umanità”.

 

Emir Suljagić, Cartolina dalla fossa, Marotta&Cafiero

Traduzione dal bosniaco di Alice Parmeggiani

 

 

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