Fine pena: ora di Elvio Fassone

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Un magistrato scrive a un condannato all'ergastolo. E si interroga sul senso della pena

In un momento di sconforto più accentuato, Salvatore aveva tentato il suicidio: «l’altra settimana – scrive – ne ho combinata una delle mie: mi sono impiccato». E nella riga sotto: «Mi scusi». Due parole dimesse, le parole di si è avvezzato a pensare che, qualunque cosa faccia, è sempre in torto. (…) La pena è finita, la recita è terminata, la giovinezza non è mai sbocciata. Tolgo il disturbo, me ne vado. Fine pena: ora. Anzi no, mi hanno salvato. Non volevo, mi scusi. Questa può essere una storia come tante. Sono molte, per fortuna, le persone che intrattengono corrispondenza con i detenuti. Sono molti, purtroppo, persino i detenuti che si tolgono la vita. Ma questa vicenda ha un particolare che credo la differenzi dalle altre. All’inizio della storia c’è qualche cosa che l’ha messa in moto, qualcuno che ha pronunciato la condanna di Salvatore all’ergastolo, che ha spalancato i cancelli destinati a rinchiuderlo per sempre. Ebbene, l’uomo che ha segnato la sua vita e poi, in qualche misura, lo ha accompagnato per ventisei anni, sono io”.

La letteratura fa da sempre qualcosa che gli uomini e le donne spesso non sanno fare: va all’avventura, vive, osa, crea incredibili casualità, innaffia di colori rosa o gialli o neri trame ideate a tavolino. La letteratura – così ci insegnano sui banchi di scuola, così vogliamo credere – ci educa al pensiero, al sogno, alla critica. Quando è finzione ci rasserena, anche la storia più truce è diluita dalla certezza che di immaginazione si tratta, di forzatura, di gioco di incastri, di gaia e fervida abilità ideativa. Poi capita che a prendere carta e penna o a digitare su dei fogli Word sia qualcuno che alla fantasia non deve nulla e allora la letteratura cambia nome, forse cambia faccia, forse la assume.

È il caso di questo Blu Sellerio, che consiglierei come testo di educazione civica (e di splendida lettura) in tutte le scuole e che consiglio a tutti i lettori. Fassone è stato presidente di un maxi processo alla mafia catanese tenutosi a Torino nel 1985. Salvatore, uno dei capi nonostante la giovanissima età, fu condannato all’ergastolo. Proprio da Fassone. Fassone che, magistrato, uomo, attuatore della legge in nome della Costituzione (l’articolo 27 sottolinea che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato) il giorno dopo la sentenza scrive una lettera a Salvatore che accompagna con un dono, un libro.
Ventisei anni di corrispondenza tra un criminale in espiazione e un giudice vogliono dire molte cose tranne quello che in genere ci si aspetta dalla letteratura e cioè retorica, epifania, lieto fine, giustizia emotiva. Fassone ha applicato la legge ma non ha dimenticato il senso della pena. Salvatore ha accettato la pena ma non ha dimenticato il senso, il sapore, della libertà. Fassone ascolta e si interroga sul senso della pena, Salvatore sogna di poter conquistare una briciola di libertà pur nella consapevolezza della condanna definitiva. Un incidente di percorso rimette in discussione i tanti piccoli passi fatti verso questa direzione e spedisce Salvatore nella disperazione: il regime del carcere durissimo, il 41 bis.
“Noi detenuti passiamo con la mente attraverso le sbarre, tutti i giorni, andiamo per le strade o lungo le spiagge, andiamo tenendo il braccio della nostra donna, e quando la donna non c’è ce la inventiamo. Caro presidente, tanto tempo fa mi hai mandato la poesia di quel detenuto turco, che diceva «vivi come se tu non dovessi morire mai». Ci ho provato, ma oggi la leggo diversa, muori se vuoi vivere davvero libero. Buona notte, presidente”.

Il senso delle prigioni ha attraversato lo spirito critico di ogni tempo, penso a Pellico, penso a Gramsci. Penso alla disperazione di certe vite perdute nell’illegalità, spesso non per grazia ma per eredità e linea di sangue ricevuto. Penso al ruolo di uno Stato che fa acqua. Penso al valore, alla necessità, della riabilitazione. Penso all’umanità, che ha nella sua declinazione la ferocia, la disperazione, la complessità dei mondi, e a chi non si arrende, a chi non dimentica che possono esserci nuovi, più clementi, equilibri.

Elvio Fassone, Fine pena: ora, Sellerio

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