Un gioco da ragazzi di Conti e Menga

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La storia di Bruno Conti, il giocatore che portò la Roma allo scudetto e l'Italia a vincere i Mondiali del 1982

Bruno. Roma”

Tutti i miei consigli di lettura cominciano con un estratto mai troppo breve del libro della settimana. Questo, “Bruno. Roma”, è forse il più lungo che io abbia mai riportato.

Le immagini di quanto accaduto a Roma mercoledì sera, mentre a Tirana la squadra omonima conquistava la Conference (competizione calcistica continentale per squadre di club organizzata dalla UEFA, la terza per prestigio dopo la Champions League e l’Europa League), hanno raggiunto il mondo in pochi secondi, una pandemia fulmine. Uno stadio Olimpico pieno di tifosi e poi le strade, le piazze, ogni vicolo, presi d’assalto. Il culmine giovedì, Roma paralizzata, i giocatori accolti come imperatori nella piana di Circo Massimo.

Me se nfoca er core, tra i tanti vessilli nel cielo di questa strana e tremenda e unica, dolcissima, mia città, sventolava questo. Bisogna essere romanisti, e romani se possibile, per capire. “Ridicoli”, dicono di noi gli altri. “Avete vinto tre cose o quattro cose in quasi cento anni compresa questa coppa dei poveri”, ci dicono gli altri. E io vorrei abbracciarli tutti e dire “ma che ne sai?”. Roma, ‘LA” Roma, non è solo undici giocatori in campo. La Roma è uno dei ventricoli del cuore dell’Eterna e scandisce il tempo della vita, degli amori, delle abitudini, delle atmosfere emotive di ogni tifoso, di ogni fedelissimo. Nulla a che fare con i (vergognosi e strumentali) estremismi di frange pseudopolitiche purtroppo presenti, nulla. La Roma è storia di grandi destini, di periferie profondissime che arrivano a brillare come stelle fisse. La Roma è la storia di mio padre, è la storia della mia infanzia passata ad ascoltare i suoi racconti, il pane che andavamo a comprare a Frascati al forno di Amedeo Amadei, le mattine al mare con il Corriere dello Sport e lo sguardo appena a sud “guarda, lì è nato Brunetto nostro”.

Tanti i nomi che portiamo tatuati nel cuore, noi che abbiamo vinto quasi niente, ma amiamo come avessimo vinto tutto. I miei hanno calligrafia chiara: Agostino Di Bartolomei, Roberto Pruzzo, Paulo Roberto Falcao, Franco Tancredi, Sebastiano Nela, il principe Giuseppe Giannini. E Bruno, Bruno più di ogni altro.

Nel libro scritto insieme al bravissimo Giammarco Menga (sangue aquilano, sangue di una terra che mi appartiene e alla quale visceralmente appartengo da oltre venti anni) Bruno si racconta. E racconta una vita bella, una vita di grande carattere, di ottusità subite ma riscattate una dopo l’altra. Nato a Nettuno, comincia con il baseball. Lo vogliono in America ma i suoi genitori dicono no. Dicono no i grandi esperti quando passa al calcio. Troppo basso, dice Helenio Herrera. Poi un giorno un allenatore, Tonino Trebiciani, lo nota in un torneo dei Bar e se lo porta via, vestendolo di giallorosso. Sarà Nils Liedholm a vedere in lui l’uomo, il ‘manovale’ del calcio che trascinò la squadra alla conquista dello scudetto e del titolo Mondiale della nazionale. Era il 1982 e io avevo otto anni scarsi. Con papà Franco non abbiamo ancora finito di festeggiare.

Brunetto nostro” di tutta questa bellezza – rumorosa, poco elegante, dilagante – è la bandiera grandezza cielo, cielo limpidissimo.

Bruno Conti e Giammarco Menga, Un gioco da ragazzi, Rizzoli

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