Da Sarajevo con amore di Puniša Kalezić e Diana Bosnjak Monai

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Slavista, scrittore e giornalista, Puniša Kalezić ha tenuto un diario, un testamento della quotidianità feroce della guerra in Bosnia, che la nipote Diana ci consegna

“Quante vite sono state vissute e sprecate in questo posto. Quanto sangue è stato perso inutilmente. In questa situazione tutti abbiamo perso qualcosa. Io ho perso la mia giovinezza. Mio nonno ha perso la sua vecchiaia. Mia madre ha perso la salute. E cosa pensare della mia amica Sanela che ha perso i due piedi, un braccio e una parte degli organi interni. O un nostro amico che animava le feste estive con la sua chitarra e il canto, ridotto ormai a un tronco; solo la testa e il busto. O la mia madrina Rusa, che ha perso il fratello. O Emir che si riteneva miracolato, quando un giorno era tornato a casa dal rifugio e aveva trovato una scheggia di granata sul cuscino dove solitamente dormiva. Il giorno dopo si era trasferito a dormire dal suocero e fu colpito da una scheggia di granata nel suo letto. Morto sul colpo. E Bačo? Con lui andavo ai balli della scuola. Morto, colpito da un cecchino a vent’anni. E Pavle? Morto mentre passava con la sua macchina vicino a Stolac. Era passato sopra una mina. Saltato per aria. E poi il mio compagno di scuola Rapa, morto a ventisette anni, nel 1997. Era finalmente riuscito a tornare a casa, alla periferia di Sarajevo, anni dopo l’occupazione di questa parte della città. Si era messo a zappare in giardino, per liberarlo dalle erbacce, quando sotto un albero da frutta ha pestato una mina. Cosa dire dei tre compagni di classe di mio fratello morti ancora minorenni. E l’elenco dei miei compagni di scuola che mancavano all’appello, quando ci siamo ritrovati per festeggiare vent’anni dalla maturità. O Buba, Brana, Slavojka che hanno perso la ragione. Hanno voluto farla finita da sole. E poi la storia di Lelica. La mia vicina. Figlia di medici, molto stimati, che avevano già perso un figlio piccolo per una malattia incurabile. Quando era nata lei, la tenevano sotto una campana di vetro. La curavano come un fiore. Si era ribellata. Voleva aiutare, andare al fronte e fare la crocerossina. Morì a ventun anni” (Diana). 

Anche se ho scelto un brano scritto da Diana per introdurre questo consiglio di lettura, in realtà la colonna portante di questo diario dell’assedio è Puniša, suo nonno. Slavista, scrittore, giurista e giornalista, il nonno di Diana (scomparso nel 2004) ha vissuto tutto l’ultimo secolo del millennio scorso che, tradotto, vuol dire tre guerre. Quella balcanica, arrivata quando l’età anagrafica dell’uomo era già avanzata, è stata quella che maggiormente ha messo alla prova il suo rapporto con il senso della vita, della storia, dei rapporti umani. Dal maggio 1992, inizio dell’assedio da parte delle milizie serbe, fino agli accordi di Dayton del novembre 1995 che misero fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina, Puniša tenne un diario, un vero testamento della quotidianità feroce e brutale che ha strozzato e soffocato la capitale del multiculturalismo. Diana ha lavorato alla redazione del testo per poter snellire una mole evidentemente impossibile da pubblicare per intero, ma la sua analisi certosina ci consegna materiale prezioso, attento, soprattutto partecipato.

Il diario di Puniša ci invita nella sua casa, una costruzione situata a pochi passi da quella del presidente Alija Izetbegović, nel cuore della Sarajevo martoriata: fin dai primi giorni dell’assedio gli abitanti, i civili, hanno dovuto lottare per la sopravvivenza in una città privata dei servizi essenziali: acqua ed elettricità. La fame e il freddo, la lotta quotidiana contro i colpi delle granate lanciate dai monti circostanti e dai cecchini posizionati ovunque, hanno minato per tre lunghi anni (e poi di giorno in giorno anche dopo, fino ad oggi) ogni equilibrio personale, famigliare e di gruppo. Puniša, sua moglie Mira, la figlia Vesna, gli amici rimasti: ogni giorno la speranza di sopravvivere, ogni giorno la corsa a zigzag per una razione di pane, per acquistare a prezzi folli qualche alimento al mercato nero, l’attesa degli aiuti umanitari, la speranza di ricevere notizie dai propri cari rifugiati altrove. Anche noi, con Puniša, attendiamo notizie dall’altra figlia, Danka, e anche noi ci stringiamo a loro per festeggiare i successi scolastici dei loro nipoti, Diana e Dragan. Anche noi teniamo il fiato sospeso quando Versna esce per andare a prendere l’acqua, aspettiamo che torni sana e salva.

È accaduto a pochi passi da noi. È stato disumano, tutto. È ancora storia dei nostri giorni che chiede di essere testimoniata. E Puniša (quelli come lui sono gli Eroi che salvano il mondo) lo ha fatto con una dignità e una precisione grandiose. Hvala, deda. Grazie, nonno.

 

Puniša Kalezić e Diana Bosnjak Monai, Da Sarajevo con amore, Besa Editrice

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