Tutto muore, o dorme. Ma la voce della letteratura è forte come non è mai stata. Quando ho scoperto i libri di Viola Di Grado ho pensato sono contenta di essere ancora viva così ho fatto in tempo a leggerli. Solo una cosa mancava alla sua gloria letteraria: una stroncatura.
L’unanimità dell’entusiasmo che aveva accolto la sua opera, esaltata e tradotta in tutto il mondo, turbava un po’ gli amanti della sua scrittura. Erano pronti a scendere in campo per lei, ma il nemico non c’era. La sua musa aspra, la sua lingua eversiva, violenta e armoniosa, lo scandalo evangelico dei temi, l’intollerabile cognizione del dolore, una pietà che ricorda Dostoevskij, suscitavano solo ammirazione.
Nonostante il successo, anche la casa editrice era preoccupata. Troppo atipico. Che figura ci facciamo coi posteri? Da Joyce a Céline a Michele Mari, i grandi rivoluzionari della parola hanno avuto a patire prima che la loro grandezza venisse riconosciuta. Invece arriva Viola Di Grado e la capiscono subito. Possibile non ci sia un ottuso, un moralista, un invidiso? Tutti illuminati? Cos’è una strega, senza l’inquisitore?
Non si pretendeva l’onore del rogo, sarebbe bastata una voce dissonante, una sola, come ornamento per la biografia. L’ufficio stampa, esasperato, era disposto ad assoldare qualcuno per parlarne male. Ma non c’è stato bisogno. La recensione di Daniele Giglioli sul Corriere della Sera, a proposito dell’ultimo romanzo di Viola Di Grado, Fuoco al cielo (La Nave di Teseo) ha riparato alla mancanza.
Non è un bell’attacco frontale, è una critica ampollosa, subdola, ecclesiale, insinuante, che le riconosce grandi meriti, ma, nel passato. Oggi Viola Di Grado, si chiede l’autore, vuole forzare la mano a ciò che si è divenuti, per simulare volontariamente la sopravvivenza di ciò che in origine si era dato spontaneamente, ci aveva scelto più di quanto fosse stato scelto da noi?
Insomma l’ispirazione l’ha abbandonata e ormai copia se stessa: Viola di Grado assolve il suo compito con la lucidità con cui si mostra e falsifica un teorema. Degnamente, certo. Ma è tutto qui.
Grazie, Giglioli. È molto più di una stroncatura. È un atto negromantico, l’eterna maledizione con cui si dice a un giovane Sei finito, il tuo fuoco s’è spento. Scrive che ormai Viola Di Grado si cita, che non sente ciò che scrive, che la sua musa è defunta.
A me Fuoco al cielo sembra un testo di sconvolgente bellezza, spietato e disperatamente clemente nellla sua durezza. E profetico. Si svolge a Musljumovo, ai confini della Siberia, la città segreta dai veleni micidiali, dove si produceva il plutonio. E che ci fanno gli abitanti? Sono lì per morire. Per convivere con gli esperimenti nucleari. Anche loro sono l’esperimento. Hanno tutti il cancro, il fiume è contaminato, le sue acque i suoi pesci sono mortali, i bambini nascono malformati, se riescono a nascere. Stanno lì a respirare e a mangiare la morte. Vi si trasferirono con orgoglio – per la grandezza del paese- mantenuti dallo stato – lo stato pensa a tutto. Una città di schiavi, di condannati a morte. Mano mano che leggi l’angoscia sale perché ti riconosci, sia che loro siamo noi. In situazione meno esplicita e meno estrema, ma siamo noi, lentamente avvelenati dal cibo dall’aria dal mare. Ormai rassegnati, come gli abitanti di Musljumovo (e quando Greta suscita uana crociata dei fanciulli che gridano fermatevi o siamo tutti morti, facciamo commenti sulle sue treccine).
A Musljumovo tutto è rovina, le persone e le cose, pieno di muffa, di ruggine, riflesso e simbolo di abbandono. Tamara si innamora di Vladimir, che non è uno dei dannati, ma un volontario che vuole aiutare gli abitanti. E ama disperatamente, contro ogni logica, questa donna selvaggia, posseduta dall’ira. La passione di lui la esaspera perché la illude di poter vivere come un essere umano, quando sa di essere condannata e il suo amore è fatto di rifiuto.
Per Vladimir Tamara è tutto il dolore del mondo, il simbolo del grande massacro che si consuma a Musljumovo. Ma lei è troppo orgogliosa e resiste al sogno, finché vi si abbandona. Nella trasfigurazione dell’amore accetta di fare un figlio. E qui il genio di Viola Di Grado riesce a far balenare un Messia. Un messia dei calpestati, degli uccisi, degli storpiati nell’olocausto che si consuma a Musljumovo e sordamente in tutto il mondo. Tamara siamo noi, e anche Vladimir, e anche il loro bambino. Un libro che va fino in fondo al disastro infinito della follia umana. Loro siamo noi-cavie, morituri. Ci specchiamo e ci riconosciamo. Grazie, Viola.
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