Lancio un appello: qualcuno si ricorda di me o dei miei fratelli? Eravamo tra quei piccoli che, nel 1946, sono saliti dal sud per essere ospitati da famiglie disponibili del nord. Vorrei tanto ritrovare qualcosa di quel passato
Storia vera di Italo Iannone raccolta da Giovanna Brunitto
La guerra è un mostro che divora vite, sogni e speranze e lascia dietro di sé solo macerie e dolore. Non c’è vittoria, qualsiasi essa sia, che valga una guerra. Oggi le notizie sui conflitti ci arrivano dal telegiornale ma c’è stato un tempo in cui la guerra l’abbiamo avuta in casa, qui in Italia, e anche se sembrano passati secoli da allora, tante persone della mia età se la ricordano bene. Mi chiamo Italo e sono nato nel 1940 a Battipaglia. Da lì la mia famiglia poi si spostò a Salerno, in città, dove mio papà lavorava nelle Ferrovie. Io ero il penultimo di otto figli, cinque maschi e tre femmine. Salerno per fortuna non fu bombardata come Napoli ma comunque le spire della guerra in corso si fecero sentire. Mia madre, nonostante il lavoro di papà ci permettesse qualche agio rispetto alla maggioranza, cercava di non farci mancare niente. Poi la guerra finì e anche il Nord Italia fu liberato, si partì così con la ricostruzione e ciascuna famiglia raccolse i cocci di quanto non era stato distrutto. In città così alcune componenti dell’Unione Donne Italiane si fecero avanti con le famiglie più bisognose e offrirono una mano, soprattutto in vista dell’inverno. In Emilia Romagna e in altre regioni del nord c’erano famiglie disposte ad accogliere per qualche mese dei bambini per far passare loro l’inverno al caldo e per alleviare i problemi economici delle famiglie d’origine. Queste donne organizzarono così dei treni per far arrivare i bambini alle famiglie disponibili. Un’impresa difficilissima visto il momento, ma ci riuscirono. Certo, convincere le famiglie non fu facile. I miei genitori si fidarono delle donne dell’Udi e proprio per dare il buon esempio anche ad altri scelsero di farci partire in tre. Avevo sei anni quando, nel 1946, salii su un treno diretto a nord insieme ai miei due fratelli. Non sapevo cosa ci aspettasse, ma se ci penso adesso mi dava l’idea di iniziare un’avventura. Partivamo da Salerno, lasciando dietro di noi nostra madre, la nostra casa e tutto ciò che conoscevamo. Era stata lei a preparare ogni cosa e quasi la posso vedere, con il cuore a pezzi mentre sistema i pochi vestiti che avremmo portato con noi.Prima di salutarci, prese mio fratello maggiore, Franco, che aveva appena dieci anni, e gli sussurrò qualcosa con voce bassa e ferma. Poi si voltò verso Alfonso, il nostro fratello di mezzo, e gli disse di non perdere mai di vista me. Io ero il più piccolo e loro dovevano prendersi cura di me. Salimmo così su quel treno con le mani strette una all’altra. Il viaggio fu lungo, interminabile. L’inverno si faceva sempre più rigido man mano che ci allontanavamo e il paesaggio fuori si trasformava a ogni stazione. Dopo tanto tempo arrivammo in una sala d’attesa gremita di bambini come noi. Alcuni piangevano, altri erano silenziosi con lo sguardo perso nel vuoto. A turno, si avvicinavano delle persone che venivano a prenderli, scegliendo chi portare con sé. Mio fratello Alfonso, però, non accettava di andare con nessuno. Piangeva e si attaccava alla gamba di mio fratello maggiore. E così riprendemmo la corsa fin quando arrivammo, forse, all’ultima stazione dove anche Alfonso si convinse ad accettare la proposta di una famiglia. A me si avvicinò un signore dal viso gentile e io, stanco e confuso, gli porsi subito la mano. Quel volto mi sembrava familiare, e nonostante tutto, mi trasmetteva sicurezza. Non ricordo molto di quei giorni, ero davvero piccolo, ma ho delle immagini vivide nella mente. Quando l’uomo dal viso gentile mi portò fuori dalla stazione, mi caricò su una bicicletta, mi fece sedere sulla canna e percorremmo un lungo viale verso la periferia. Guardavo intorno quel paese, le case ordinate, le campagne sullo sfondo, tutto così diverso dalla città di mare che avevo lasciato.Rimasi impressionato quando arrivammo a casa. Era una casa contadina, accogliente, calda, con una tavola imbandita. Intravidi un pentolone in un angolo della cucina enorme e un signore anziano, seduto lì accanto, che mescolava con un enorme cucchiaio di legno qualcosa. Dentro c’era un impasto giallo, denso e fumante. Il nonno prese un piatto e me ne servì una grossa porzione. Quella fu la prima volta che assaggiai la polenta. Presto questa nuova pietanza sarebbe diventata il mio pasto più frequente. Persino a colazione! Ogni mattina mi mandavano a prendere il latte fresco nel negozio vicino, e quando tornavo, pronto a berne una tazza fumante, dovevo inzupparlo con la polenta. Oggi ne rido, ma all’epoca fu un vero problema. Oltre al cibo, un’altra cosa che mi colpì fu la lingua. Quei signori così gentili parlavano in un modo completamente diverso dal dialetto campano. Ogni frase era un enigma da decifrare e anche le cose che io dicevo non venivano comprese. I miei fratelli non erano lontano da me perché eravamo arrivati insieme all’ultima stazione e un giorno le famiglie che ci ospitavano si misero d’accordo per farci incontrare, fu meraviglioso rivederli e passare una domenica con loro. Franco però non si era trovato bene nella famiglia che l’aveva accolto. Così scrisse una lettera alla mamma per chiederle aiuto. Lei si rivolse alle donne dell’Udi che avevano organizzato i nostri viaggi, e in pochi giorni Franco fu spostato in un’altra casa. Qui si trovò benissimo, tanto che imparò persino a sciare.
Quel periodo passò e tornammo a casa. Qualche mese dopo il nostro ritorno una delle famiglie venne a trovarci a Salerno e si offrirono di accogliere mio fratello Alfonso e di accudirlo fino alla maggiore età, ma mia madre non accettò. La famiglia doveva restare unita e così fu. Poi la vita prese la sua strada e di quel viaggio non ne parlammo più.
Oggi però che ho l’età in cui i ricordi assumono sfumature dolci, mi chiedo spesso dove fossi esattamente in quel periodo della mia infanzia perché purtroppo io non mi ricordo che paese fosse e i miei fratelli non ci sono più. Vorrei sapere chi si è preso cura di noi per poterli ringraziare. L’unica cosa che so è che il padre della famiglia che aveva ospitato mio fratello lavorava a Venezia, quindi probabilmente non eravamo molto lontani dalla città lagunare. Lancio allora un appello: se qualcuno si ricordasse di tre fratelli Iannone, ospitati nel 1946, si faccia sentire. Sarebbe meraviglioso ricostruire quel pezzo di storia che mi sfugge.
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