Judy Garland, voce d’acciaio, cuore fragile

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Da ieri al cinema c’è Judy, il film di Rupert Goold sulla storia di Judy Garland. Ecco l’articolo uscito su Confidenze del 7 gennaio

di Roselina Salemi

«Se vuoi la celebrità, devi pagare un prezzo e io certo l’ho pagato. Devi saper ridere di tutto, soprattutto di te stessa. Io rido sempre di me. Devo essere una persona molto divertente con cui vivere». In una delle ultime interviste, Judy Garland, nata Francis Ethel Gumm, disincantata e ancora bellissima, raccontava così la sua vita sotto i riflettori, le vittorie, le sconfitte, i matrimoni (cinque, tutti infelici). E pur con leggerezza, lasciava intravedere l’ombra della tragedia che si allungava su di lei. Bambina senza infanzia, cresciuta più negli studios che in famiglia, iniziata dalla madre agli psicofarmaci da adolescente per reggere il superlavoro e non ingrassare, è ancora lì a guardarci con gli occhi innocenti e sgranati di Dorothy nel Mago di Oz (1939), il film che l’ha resa famosa con la canzone Over the Rainbow. Ma per capire che cosa succedeva davvero sul set, tra crisi nervose e dosi massicce di alcol, c’è voluta la biografia di Paul Donnelly, quasi una confessione, alla quale ha attinto a piene mani il regista Rupert Goold per il film Judy, con Renée Zellweger (al cinema dal 16 gennaio). Consacrata star a 16 anni, morta a 47, il 22 giugno del 1969 per un’overdose (accidentale?) di barbiturici, poco dopo il quinto matrimonio, Judy aveva una voce potente e profonda. Cristallina, senza imperfezioni. Ugola d’acciaio in un corpo da scricciolo, fragile e vulnerabile. La maledizione del talento, accompagnata da amori tormentati e un equilibrio psicologico instabile, l’ha spinta su un ottovolante di cadute e rinascite, di difficoltà che Hollywood ha tenuto nascoste per proteggere la sua immagine. Non che fosse facile mantenere i segreti. Judy cerca di spiegarsi: «Ognuno ha dei problemi. Voglio solo quello che vogliono tutti, una famiglia, essere felice, ma per me è più difficile». E a uno dei tanti medici che le chiede se prende qualcosa per la depressione, risponde: «Quattro mariti, e non sono serviti». Judy era piena di ironia.

SOGNA LA NORMALITA’

Il primo consorte è David Rose (dura più o meno 18 mesi) fino all’incontro, nel 1944, con il regista Vincente Minnelli. «È l’amore» giura, «è l’amore per sempre». Lo sposa un anno dopo e nasce Liza che erediterà il talento e la volontà furibonda della madre, ma sul set del film Il pirata (1947) Judy è sfinita. L’esaurimento nervoso la divora: «Non ce la faccio ad andare avanti» confida. Invece deve. È troppo popolare, è una macchina per fare soldi. «Prendevo qualsiasi cosa, alcol, medicine, qualsiasi cosa mi permettesse di tornare sul set a cantare e sorridere, cantare e sorridere». Vista da fuori, sembra la ragazza meravigliosa che ha tutto, invece tenta il suicidio due volte. Come nel romanzo La valle delle bambole (nomignolo hollywoodiano delle pillole), ha farmaci per dormire, per stare sveglia e per dimagrire. Comincia film che non riesce a terminare. Sul set di I Barkleys di Broadway viene sostituita da Ginger Rogers, in Anna, prendi il fucile da Betty Hutton, in Sua Altezza si sposa da Jane Powell. La MGM rompe il contratto, e lei rompe con Minnelli. Divorziano nel ’51 ma Judy crede sempre nella possibilità che l’uomo giusto possa aiutarla a ricominciare. Incontra Sid Luft. Si sposano. «Sono felice, adesso sì, sono felice» grida. Avrà due figli, Lorna e Joey, però la carriera hollywoodiana è più o meno finita: si è sparsa la voce che è costosa, inaffidabile e basta poco perché nessuno le offra più una parte. Ma la sua voce è sempre strepitosa, i suoi concerti sempre esauriti. E al cinema conquista una chance entrando nella produzione di È nata una stella (1954), un film memorabile che ha già avuto cinque versioni (l’ultima con Bradley Cooper e Lady Gaga). Il botteghino delude, la critica la esalta Lei si scusa perché è incinta e non può partecipare alla notte degli Oscar, dove i pronostici la danno vincitrice. Invece la statuetta tocca a Grace Kelly. Si consolerà più avanti con i quattro Grammy vinti grazie al  doppio album dal vivo registrato alla Carnegie Hall il 23 aprile del 1961. «È meraviglioso essere qui, esistere ancora per voi, è meraviglioso che la mia voce vi faccia sognare ancora».

 

TROPPE BAMBOLE

Dietro l’elenco sfiancante dei concerti, c’è il bisogno di denaro. Perché divorzia di nuovo nel ’63 e ha paura che l’ex possa portarle via i figli, sapendola schiava dei vari cocktail di medicine che le permettono di restare sulla scena. La sua tenacia, il suo bisogno di essere parte di una coppia per sentirsi completa è commovente, quasi infantile. Si lascia incantare dalle promesse di un collaboratore, Mark Herron, e lo sposa nel ‘65 («Se ami qualcuno gli devi mettere l’anello»). Non funziona, da subito. Non è un matrimonio. È un’alleanza commerciale, senza solidarietà. Sei mesi dopo, altra rottura, altro amore, altra speranza: «Sì, sono sicura. Non si può sbagliare cinque volte di seguito». Mickey Deans è un manager di night club e forse neanche lui è l’uomo giusto, ma è comunque arrivato tardi: quando Judy accetta l’ultimo concerto a Londra, è malata, segnata, si vede anche dalle fotografie. I medici scopriranno poi che aveva una grave cirrosi, le sarebbe rimasto poco da vivere. Judy, la donna dalla voce sublime, resta sveglia tutta la notte senza le sue “bambole”. Ne prende tante, troppe, quella sera del 1969. Vuole dormire. Va incontro al Grande Sonno. Renée Zellweger, che ha visto tutto il materiale di repertorio per somigliarle, è rimasta colpita: «Dava a tutti la sensazione di avere un legame speciale con lei. Era come se lei percepisse il dolore di ognuno». Forse perché conosceva bene il dolore. ●

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