La moglie coreana

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La storia di Gianluca, innamorato della cantante coreana Mi Kyong, raccolta da Simona Maria Corvese, è stata la più apprezzata del n. 29. La riproponiamo

Diverse volte nella vita sono rimasto solo. Ho sperimentato la solitudine molto presto, a 19 anni, quando ho perso tutti e due i genitori. Mio padre è morto d’infarto pochi mesi prima del mio diciottesimo compleanno. Mia madre è morta di tumore un anno dopo. La vita, però, è una ruota che continua a girare, senza mai fermarsi e porta con sé tante sorprese e motivi per gioire. Per il mio ventesimo compleanno il dolore della perdita dei miei cari era ancora molto vivo. Non avevo voglia di festeggiare, eppure i miei amici insistettero per portarmi in una pizzeria.
«Non devi isolarti, Gianluca. La vita continua e i tuoi genitori vorrebbero vederti felice» mi dicevano.
Accettai di malavoglia e a volte penso che, se non lo avessi fatto, non avrei mai conosciuto Mi Kyong. Era coreana e mi apparve come un’incantevole creatura dai lineamenti orientali finissimi, dai capelli color ebano lucidi come la seta. Mi Kyong era stata introdotta da una delle ragazze del nostro gruppo.
«Mi Kyong studia canto e starà per un anno qui a Milano a perfezionarsi» mi spiegarono. Con mio stupore, quando cercai di darle il benvenuto parlandole in inglese, lei mi rispose in italiano. “Che sciocco che sono” mi dissi, “studia canto lirico, si sta perfezionando in Italia, è chiaro che sa la nostra lingua”.
Mi Kyong conosceva la mia storia ma non mostrò mai compassione nei miei confronti. Si rivelò da subito una persona splendida e molto dolce. Quella sera cominciammo a parlare e scoprimmo di avere molti interessi in comune. Era incredibilmente facile aprirsi con lei e chiacchierare con semplicità, come si fa con una persona che conosci da sempre. Rimasi incantato dalla sua dolcezza e da come era disponibile ad ascoltarmi. Non avevo voluto riconoscerlo fino a quel momento ma avevo un disperato bisogno di parlare, di dar voce a tutto lo smarrimento che provavo dalla morte dei miei genitori. Vivevo alla giornata, non avevo più parenti stretti e mi angosciava non sapere che cosa ne sarebbe stato di me. Mi Kyong divenne l’amica con cui poter parlare di tutto questo. Lei era estremamente positiva, aveva mille progetti e sapeva trasmettermi una carica di fiducia nel futuro che da solo non avevo in quel momento. I suoi genitori non avrebbero potuto darle un nome più adatto: Mi Kyong, bellezza e brillantezza. Lei non era solo una persona brillante. Era anche incredibilmente affascinante d’aspetto e con modi discreti, tipicamente orientali.
Ben presto diventammo amanti. Fu uno dei periodi più belli della mia vita e quando il suo anno di studio terminò, capii che non volevo perderla. Lei e il suo affetto erano tutto ciò che avevo. Desideravo anche trovare un luogo dove dimenticare il dolore che avevo provato per la perdita dei miei genitori. Sono gli affetti che ti mettono le ali e ti fanno raggiungere mete impensabili. Sono gli affetti che ti fanno anche mettere radici in un luogo e ti danno un senso di appartenenza. La Corea mi sembrò la destinazione perfetta. Mi Kyong e Seoul sarebbero state le mie nuove radici.
Lavoravo da quasi due anni come insegnante in una scuola di italiano per stranieri a Milano e, da quando avevo conosciuto Mi Kyong, lei aveva iniziato a insegnarmi il coreano.
Ci trasferimmo a Seoul, dove non ebbi difficoltà a trovare lavoro in una scuola di lingue. C’era molto interesse in quegli anni per la mia lingua madre.
Mi Kyong trovò impiego come cantante alla Seoul Metropolitan Opera, presso il centro di arti per lo spettacolo Sejong, dove la compagnia aveva sede.
Lo scoglio più difficile da superare per me non fu la differenza culturale ma l’alimentazione, che è ricchissima di spezie: più volte fui tentato di diventare vegano! Quando proprio non ce la facevo più, andavo in una pizzeria gestita da un mio amico italiano e facevo una scorpacciata di cibo mediterraneo. Nel tempo libero lo aiutavo anche a servire ai tavoli, nelle serate più affollate.
Mi Kyong aveva molti amici e colleghi, a molti dei quali diedi lezioni private di italiano per arrotondare lo stipendio. Grazie al mio impiego e alle attività extra, Mi Kyong e io avevamo cominciato a mettere da parte i soldi per acquistare una casa.
Dopo due anni di convivenza a Seoul, ci sposammo. Ricordo bene il giorno del nostro matrimonio: Mi Kyong era bellissima. Indossava un hanbok nuziale, l’abito tradizionale coreano che molte giovani indossano per le nozze, con l’ampia e lunga gonna blu carico, la corta giacca e la sopra giacca verde giada, ricamata a mano con motivi floreali giallo pallido, con il significato di buon auspicio.

Quel giorno indossai anch’io l’abito tradizionale coreano, con comodi pantaloni di seta grigio scuro e una giacca color carta da zucchero scuro con il collo alla coreana, ricamata con piccolissimi fiori d’oro.
Fu una cerimonia ricca di rituali tradizionali nella casa dei genitori di Mi Kyong e pochi intimi amici: i miei due testimoni e le ancelle della sposa. Le foto che ci scattarono nel pomeriggio, lungo il ponte che portava al padiglione della regina nei giardini del palazzo reale di Gyeongbok, furono incantevoli.
Fermo sul ponticello di legno, chinato in avanti con gli avambracci appoggiati alle protezioni finemente decorate, ebbi un momento di malinconia pensando ai miei genitori. Davanti a quel laghetto artificiale, la cui superficie era cosparsa di fiori di loto, vidi riflessa l’immagine di un giovane uomo dal fisico slanciato, i capelli scuri e un’espressione pensierosa.
Mi Kyong, con una grazia e una spontaneità che mi commossero, passò il braccio sulle mie spalle e, reclinando la testa da un lato, verso di me, mi abbracciò. Fu in quel momento che prevalse quella particolare sensazione che si prova quando ci si ama e si inizia una vita insieme: tutto sarebbe stato possibile con la forza dei nostri sentimenti.
I primi cinque anni di matrimonio trascorsero quasi senza che ce ne accorgessimo. Il mio lavoro come insegnante di italiano agli stranieri procedeva serenamente. La carriera di Mi Kyong progrediva di giorno in giorno. Cantava parti secondarie ma riscuoteva grandi apprezzamenti negli spettacoli che la compagnia metteva in scena. Mi Kyong era una cantante versatile e veniva richiesta anche in spettacoli coreani tradizionali.
Le sue ambizioni però erano concentrate verso l’opera lirica europea. Avevo capito che avrebbe voluto esibirsi nei più grandi teatri del mondo. Aveva già ottenuto parti significative per la sua carriera e si era esibita anche al Teatro Colòn, a Buenos Aires, nella parte di Annina, la serva di Violetta nella Traviata.
Tutto questo, però, non le bastava. La vedevo irrequieta e capivo che avrebbe desiderato una carriera internazionale che stentava ad arrivare. Mi Kyong era una bravissima soprano, apprezzata nella sua patria ma pressoché sconosciuta all’estero.
Dietro il palazzo del centro Sejong c’è una grande fontana, sovrastata dalla statua dell’ammiraglio Yin Sun Sin, l’eroe nazionale coreano, i cui getti d’acqua arrivano dal selciato. Nei giorni più caldi quella scia di allegri zampilli è la gioia dei bambini. In quel luogo d’incontro e riposo ero solito aspettare Mi Kyong, quando finiva le prove per gli spettacoli.

Un giorno di inizio estate ero seduto ai margini della fontana e guardavo divertito un gruppo di monelli che giocava a passare tra un gettito e l’altro. Una bambina in particolare attirò la mia attenzione: poteva avere all’incirca otto anni, indossava una gonnellina di jeans corta sopra il ginocchio ed era a piedi scalzi. Aveva due simpatici codini da birichina ed era completamente fradicia. Per un attimo la bambina si girò verso me e Mi Kyong, che sedeva accanto a me. Ci rivolse un luminoso sorriso e, nei suoi occhi, vedemmo la felicità senza riserve.
Quella scena ci colpì a tal punto che non ci fu bisogno di aggiungere parole.
Da tanto tempo desideravo avere un figlio e, per un po’, Mi Kyong e io avevamo deciso di aspettare per stabilizzare le nostre posizioni lavorative. Ormai eravamo sposati da alcuni anni e quel desiderio era divenuto sempre più impellente ma non ancora esaudito.
Un anno dopo nacque Kyung Soon, che significa onore e gentilezza. Appena nata la nostra piccola assomigliava tantissimo alla mamma ma, crescendo, emersero in lei molte somiglianze anche con me. Eravamo tutti al settimo cielo e, per un po’, anche Mi Kyong sembrò più tranquilla e soddisfatta di sé.
I primi anni come genitori coincisero con uno dei periodi più belli della nostra vita. Eravamo tutti e due felici di essere impegnati nel nostro ruolo di papà e mamma. Mi Kyong sembrava aver abbandonato l’idea di una carriera internazionale e non aveva più partecipato ad audizioni per parti in teatri all’estero. Quando Kyung Soon aveva otto anni, un giorno Mi Kyong mi disse che le si era presentata l’opportunità di lavorare per un anno in Canada, con la Canadian Opera Company, a Toronto, presso il Four Season Center For Performing Arts.
Ero consapevole che un’occasione così non le si sarebbe ripresentata e appoggiai la sua scelta. Ci trasferimmo tutti. La nostra piccola non ebbe difficoltà ad ambientarsi nella scuola internazionale in cui la iscrivemmo. Fui io a sostenere il cambiamento più forte e non per il lavoro. Le scuole di lingue non mancavano di certo a Toronto. Fu un altro salto culturale, meno traumatico e radicale di quello che avevo affrontato un decennio prima dall’Italia alla Corea, ma comunque fu un bel salto. L’anno trascorse velocemente però Mi Kyong non sembrava contenta di ritornare a lavorare a Seoul. Più si avvicinava la fine del suo contratto, più diventava irrequieta. Tornammo in Corea, dove riprendemmo la nostra quotidianità. Kyung Soon e io eravamo felici. Mi Kyong invece sembrava un leone in gabbia e cominciava a trasmettere ansia anche a me. Avevo bisogno di parlare con qualcuno del disagio che stavo vivendo.
Mario, il mio amico pizzaiolo di Seoul era più bravo di uno psicologo quando si trattava di ascoltare e dare consigli. A un certo punto cominciai ad avere problemi con il mio lavoro. Sembrava che negli anni l’interesse per la lingua italiana non fosse più così forte e i clienti erano sempre meno, fino a quando capii che era giunto il momento di cambiare lavoro. Mario mi lanciò l’idea di collaborare. Lui trascorreva sei mesi a Seoul e sei mesi in Italia e in questo modo non era mai disoccupato. Tornai per un breve periodo in Italia, dove frequentai un corso per diventare pizzaiolo, poi tornai con Mario a Seoul e, forte dell’esperienza che avevo già maturato nella sua pizzeria coreana, iniziai il mio nuovo lavoro. Lui mi offrì di diventare suo socio ma io esitai. La mia vita era molto incerta e non sapevo che direzione avrebbe preso.
Mi Kyong e io eravamo sempre più distanti e tra noi era calato un silenzioso gelo. Quando lei mi disse che voleva andare a lavorare per un po’ negli Stati Uniti, dove avrebbe potuto perfezionarsi ulteriormente, fu la goccia che fece traboccare il vaso. In quel momento mi resi conto di non riuscire più a sostenere una vita così. Io avevo cercato una casa nel mondo dove affondare le mie nuove radici. Mi Kyong non voleva mettere radici in nessun luogo.
Sapevo che il lavoro di una cantante lirica comportava continue trasferte per le tournée ma l’irrequietezza d’animo di Mi Kyong era qualcosa di diverso da ciò che richiedeva la sua professione. Con grandissimo dispiacere chiedemmo il divorzio e lo ottenemmo dopo un anno. Stavamo soffrendo in due: lei a sentirsi costretta a rimanere ferma a lungo, io a dover cambiare in continuazione.
Tornai in Italia, dove tutt’ora vivo e lavoro come pizzaiolo.

Chi ha sofferto di più per la separazione è stata la mia piccola Kyung Soon. Quando sono tornato in Italia lei aveva solo 10 anni e ha preferito seguire la mamma negli States. D’estate invece torna a Seoul per stare con i nonni e aspettare che io la raggiunga.
Ci sentiamo e vediamo tutti i giorni su Skype e non le faccio mancare la mia presenza perché, appena posso, la vado a trovare. Adesso lei ha 15 anni e frequenta le scuole superiori in un collegio a Seoul. Mi Kyong è stata per un po’ con lei negli Stati Uniti. Quando la ragazza ha iniziato le superiori e ha manifestato il desiderio di rimanere a Seoul con i nonni, Mi Kyong ha compreso che stava perdendo anche lei e ha rinunciato ai suoi sogni di una carriera internazionale. Si è resa conto che gli affetti sono più importanti di tutto e sono contento che, alla fine, abbia scelto ciò che per lei era veramente importante.
Sono stato a Seoul per un mese quest’estate ed è stata una sorpresa vedere la mia piccola Kyung Soon alta un metro e 72, a 15 anni. È bellissima, sembra una Audrey Hepburn orientale. Indossa degli occhialini come quelli di Harry Potter, divora i libri di J.K. Rowling ed è un genietto della matematica. Ma da chi avrà preso? Sua madre e io siamo due umanisti! Mi piace scherzare con lei e chiamarla «Audrey Potter, con un debole per Einstein».
Lei, saggiamente, mi risponde con una frase di Einstein: «Non tutto ciò che può essere contato conta e non tutto ciò che conta può essere contato».
Siamo andati per qualche giorno al mare, a Busan, la capitale estiva della Corea del Sud e lì, a sorpresa, ci ha raggiunto Mi Kyong.
È stata Kyung Soon a convincerla, lei temeva che io non avrei gradito la sua presenza. Ci è bastato guardarci negli occhi per capire che non avevamo mai smesso di amarci. Mi ero rassegnato a vivere da solo e non avevo cercato altri affetti che colmassero il vuoto che aveva lasciato Mi Kyong. Ma non si è mai veramente soli nella vita. Dal molo di Gwangalli, guardando la famosa spiaggia di Haeundae con il suo profilo di grattacieli avveniristici, abbiamo ricominciato la nostra vita insieme. E questa volta non torneremo più sui nostri passi.●
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