L’americana

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Ecco la storia vera più apprezzata del n. 36 

 

Mi sono sempre chiesta da dove venisse lo strano soprannome della mia bisnonna, visto che non aveva mai lasciato il paese. Ne ho scoperto il motivo molti anni dopo che lei ci aveva lasciati, in un momento della mia vita in cui avevo bisogno di luce. E l’ho trovata in un pacco di lettere

STORIA VERA DI AGNESE T. RACCOLTA DA GIOVANNA BRUNITTO

 

Sono l’unica della mia famiglia ad avere i capelli rossi. In ogni foto che conservo della mia infanzia, mi si vede con il ciuffetto arancione denso in bellavista. Tutti hanno i capelli castani o neri, io no. Da bambina, tante volte, mi sono chiesta da chi avessi preso, ma i miei genitori mi blandivano con complimenti e rispondevano evasivi rimandando a geni antichi che si erano presentati dopo qualche generazione. Quando poi d’estate andavo a stare qualche settimana a casa di mia nonna in Molise, i miei capelli rossi erano l’argomento che accompagnava le serate davanti agli usci delle case. Quando passavo in strada con mia nonna c’era chi mi toccava il viso, chi i capelli, i miei colori attiravano sempre tanta curiosità. La bisnonna, poi, impazziva letteralmente quando mi vedeva. Era una donnina raggrinzita con un sorriso dolce che abitava, tutta sola, appena fuori dal paese in una villa che allora mi appariva grandissima, piena di mobili di legno antico e con un bel parco intorno. Mia nonna era la sua unica figlia e una volta al giorno andavamo a trovarla. Mariuccia, questo il nome della bisnonna, seduta nel salone ci faceva trovare qualcosa di fresco, una limonata o un bicchiere di orzata che bevevo con gran gusto. Il suo sguardo benevolo mi accompagnava sempre e nella sua grande casa mi era permesso fare tutto quello che volevo. Mentre le nonne poi chiacchieravano, io giocavo nel parco con i bambini dei fattori che vivevano lì intorno. Il parco anche se era proprietà della villa era aperto a tutti, la bisnonna voleva così. Quando iniziava a calare il sole, tornavamo in paese e le serate terminavano tutte allo stesso modo, a guardare le stelle e a contarle con i miei nonni. Le stelle che si potevano vedere dal cielo del Molise erano uno spettacolo unico. Il paese sorgeva su una collina, le case illuminate di sera erano poche, le luci stradali erano fioche rispetto a quelle di oggi, e si apriva così il cielo con le sue mille scintille. Alcune stelle seppur lentissimamente si muovevano e, quando capitava che scorgessimo anche qualche scia luminosa, era una vera festa. Poi finiva il soggiorno estivo dai nonni, salutavo tutti e tornavo in città con i miei genitori. A Como, dove abitavamo e dove i miei insegnavano, tornavo a essere una bambina cittadina, dimentica di stelle e di lucciole, di odori e di sapori campagnoli. Nell’estate del mio decimo anno, la bisnonna Mariuccia inciampò in casa e si ruppe un femore. Purtroppo, non si riprese da quella caduta e in autunno ci lasciò. Quello che attirò la mia attenzione furono i manifesti che affissero in giro per il paese al suo funerale, nei quali mia nonna veniva ricordata come “l’americana”. In molti piccoli paesi c’è l’usanza di ricorrere a dei soprannomi che individuano le persone per alcune caratteristiche, oppure per il lavoro che svolgono o per qualcosa di particolare che li contraddistingue. Non riuscivo a spiegarmi perché la chiamassero così, per quanto mi risultava non si era mai mossa dal paese. Certo, in vecchiaia era un po’ andata di testa e chiamava James tutti gli uomini che vedeva, ma a casa dicevano che era la demenza e i troppi film che aveva visto in gioventù. Poi passò quell’estate e ce ne furono altre ancora, ma ormai iniziavo ad andare sempre più malvolentieri al paese, volevo stare a Como con i miei amici e accadde così che tornai solo per i funerali dei miei nonni. Mia madre ereditò tutto, ma anche lei non era molto interessata e affidò a dei mezzadri della zona la cura delle terre e del parco. La villa fu chiusa e sigillata, in attesa di tempi migliori per poterla vendere. Quando purtroppo poi mia madre è stata colpita da un brutto male che me l’ha portata via in un’estate, la sua eredità è passata a me.

La mia vita era andata avanti tra alti e bassi, nel frattempo. Tra gli alti posso contare sicuramente i miei due figli che hanno trovato la loro strada, tra i bassi la fine del matrimonio con Valerio. Avevamo tenuto duro per anni in attesa che i ragazzi crescessero e, forse sperando che qualche scossone inatteso potesse riavvicinarci, ma non era accaduto. Lo scossone era arrivato poi, ma non era quello che avevo sperato: si chiamava Laura, segretaria nello studio
di Valerio, e quello che più mi sconcertava era la gioia del mio ex marito. Con me non era mai stato così e neppure io avevo mai provato quello che vedevo
riflesso negli occhi della sua amante a dirla tutta. Quando pensavo a loro, avevo la sensazione di essermi persa qualcosa di importante. In meno di un anno lui se n’era andato per iniziare la sua nuova vita, i miei figli anche e io ero rimasta sola in casa.

Al lavoro mi avevano proposto la pensione anticipata e così a 55 anni la mia vita era praticamente entrata in un vicolo cieco. Anche i miei capelli rossi stavano iniziando a virare su un colore più sbiadito. Io che avevo sempre avuto la capacità di trovare il lato positivo di ogni momento, adesso mi sentivo al capolinea e non vedevo spiragli ai quali potermi aggrappare. Ero al buio. Perfino il mio corpo combatteva una battaglia contro di me. Avevo preso diversi chili, le rughe sul viso sembravano ispessirsi ogni giorno di più, anche camminare diventava una fatica enorme. Poi un giorno è arrivata una telefonata. Il notaio che si era occupato dell’eredità di mia madre mi chiamava da Montefalcone, il paese dei miei nonni, chiedendomi se fossi stata interessata a vendere la villa e i terreni; aveva ricevuto una proposta da una società che ne voleva fare una spa. Sul momento, ho detto subito sì senza neanche rifletterci. Non tornavo in paese in Molise da secoli e non avevo intenzione di tornarci a breve. A dire il vero in quel periodo della mia vita non avevo proprio la forza di fare nulla, neanche sognare mi riusciva più. Figuriamoci immaginare altro. Non avevo messo in conto, però, che vendere significava ritornare al paese e quasi senza rendermene conto, mi sono ritrovata a preparare le valigie per partire. Se un’amica mi chiedesse un consiglio su come superare un momento di stasi, un periodo di buio, forse suggerirei di sforzarsi e uscire. Cambiare aria per un po’, vedere le cose da altri punti di vista, provare a immaginarsi la giornata che verrà con un sorriso. Darsi insomma una speranza. Questo è il bagaglio che avevo preparato per me, ma niente mi aveva fatto presagire quanto quel viaggio avrebbe cambiato la mia vita. Arrivata alla stazione di Napoli ho affittato un’auto per pochi giorni e mi sono addentrata verso gli Appennini. È impressionante come ogni manciata di chilometri percorsi verso l’entroterra cancelli la modernità delle autostrade, dei palazzi all’avanguardia, delle città che non dormono mai per lasciare spazio a colline dolci, paesi arroccati che scrutano pianure sonnacchiose, pascoli a perdita d’occhio, tutto uguale da secoli.

Il Trigno è un fiumiciattolo che in certi frangenti può essere anche molto impetuoso e quando inizio a costeggiarlo mi si apre sul viso un sorriso. Sono arrivata. Non ricordavo più quanto questa terra fosse così bella e rilassante. Riaprire la villa non è stato facile e ho dovuto chiedere aiuto ad alcune donne per rendere abitabile almeno un paio di stanze e la cucina. Le prime sere le ho trascorse a guardare le stelle seduta su una sdraio in cortile. Ogni luccichio del cielo sembrava illuminare un po’ il buio che mi aveva avvolto nell’ultimo anno. È stata una di queste sere che mi ha raggiunto Antonio. Ha salutato e si è seduto poco distante da me. Mi aveva chiamato per nome, quindi mi conosceva. Io non ricordavo chi fosse, ma non mi sono allarmata, nei paesi così piccoli è normale salutarsi e fermarsi a fare due chiacchiere con chi è vicino di casa.
Antonio mi ha detto che mi aveva riconosciuto dai miei capelli rossi e che era venuto per capire se fossero vere le voci che io volessi vendere la villa e la terra. Gli ho risposto di sì, anche un po’ seccata, come a fargli capire che non erano affari suoi. Lui mi ha guardato intensamente come da anni non capitava che un uomo facesse e, senza cambiare espressione, mi ha consigliato di informarmi bene prima di farlo. La mia bisnonna Mariuccia, l’americana, non avrebbe voluto. Mi sono messa a ridere, non pensavo alla bisnonna da così tanto tempo e avevo persino dimenticato quel soprannome. Poi lui ha continuato dicendo che io avevo ereditato anche i capelli rossi. Al che mi sono fermata, volevo una spiegazione, ma Antonio era andato via. L’andatura leggermente claudicante mi ha aperto la mente e ho riconosciuto in lui il bambino con il quale avevo stretto amicizia in quei pomeriggi di tanti anni fa.

Era diventato adulto, ma gli era rimasta negli occhi una luce adamantina che non aveva cambiato lo sguardo limpido del bambino.

Per tutta la notte mi sono chiesta cosa volesse dire, cosa c’entravano i miei capelli rossi con la bisnonna Mariuccia e soprattutto con la vendita della proprietà. Il giorno dopo ho cercato Antonio in giro ma sembrava che di lui non ci fosse traccia. Qualcuno lo aveva visto a valle, qualcuno con il trattore nei campi. Mentre giravo in tondo tra le strade del paese, mi si è affacciata alla mente un’immagine lontana eppure vivida. Io bambina con la mano stretta ad Antonio, anche lui bambino, che saliamo su in soffitta con la bisnonna e mettiamo qualcosa dentro a un baule. Mi sono precipitata su come in una sorta di trance e facendomi largo tra polveri e cianfrusaglie varie, sono arrivata al baule. Era lì, scolorito dal tempo, ma esattamente come lo ricordavo. L’ho preso e l’ho portato giù in camera. Aprirlo da sola era impossibile. Ho atteso la sera e sono tornata a cercare Antonio, era al bar in paese che chiacchierava tranquillo con dei compaesani. L’ho chiamato e gli chiesto a bruciapelo se anche lui si ricordava della soffitta. Ha sorriso e mi ha chiesto se avessi trovato il baule. Ho fatto un cenno con la testa e siamo tornati indietro, passando da casa sua a prendere alcuni attrezzi. Ci sono momenti nei quali percepiamo che sta cambiando qualcosa nella nostra vita. Io, seguendo Antonio verso la villa, ho avuto chiara l’impressione di essere a un punto di svolta. A ogni passo le immagini della bisnonna si facevano più nitide. Dal baule sono emerse diverse lettere e dei diari. Ero affascinata e cercavo di toccare tutto con molta attenzione per non sciupare nulla. Antonio allora mi ha fermata e mi ha chiesto se volevo conoscere la storia di Mariuccia, perché era chiaro che nessuno me l’avesse raccontata. Abbiamo così trascorso l’intera notte in compagnia di due innamorati di metà degli anni Venti. James, nato in New Jersey, era figlio di immigrati italiani che avevano fatto fortuna ed era venuto in Italia per visitare le terre natie della sua famiglia. A una festa del paese vicino incontrò Mariuccia, 16 anni, e tra loro scoppiò l’amore. Purtroppo, però, i tempi non erano propizi. Il governo italiano fascista in quegli anni disincentivava le migrazioni e gli Stati Uniti avevano ristretto molto il numero degli italiani che potevano accogliere. In mezzo alla battaglia politica che sfocerà poi in aperta ostilità si trovavano James e Mariuccia e a questo si aggiungeva l’astio della famiglia di lui che aveva in programma ben altri progetti per il rampollo americano. I viaggi di James verso il Molise furono tre e nell’ultimo Mariuccia restò incinta, ma la notizia arrivò negli Usa dopo che la famiglia di lui aveva già organizzato il matrimonio con un’altra ragazza. Disobbedire alle famiglie era pressoché impossibile in quegli anni e James non fu in grado di sottrarsi al volere dei suoi. Fece l’unica cosa che poteva fare: non potendo riconoscere Alma, mia nonna, come sua legittima figlia, si preoccupò che a lei e a Mariuccia non mancasse nulla e si adoperò dagli Usa per far loro avere una casa, dei terreni di proprietà e somme di denaro a intervalli regolari. Lo scandalo in paese destò molte chiacchiere, ma Mariuccia non si fece travolgere.

Si spostò nella villa e per anni utilizzò i denari americani per aiutare chi ne aveva bisogno. Anche i genitori di Antonio avevano frequentato l’università a Napoli grazie al suo aiuto. Tutte le famiglie del paese dovevano qualcosa a Mariuccia e, calmate le chiacchiere del primo momento, presero a rispettarla e a proteggerla da qualsiasi malignità esterna. Il filo che legava lei e James però non si era mai interrotto e arrivava fino ai primi anni Settanta, quando una malattia se l’era portato via. Le lettere che avevamo davanti erano quel legame. Ero senza parole! Com’era possibile che Antonio e tutto il paese sapesse qualcosa di così personale e bello della mia famiglia e io non ne fossi a conoscenza? Perché nessuno me ne aveva mai parlato? Antonio, allora mi ha risposto, con il riserbo che ho poi imparato essere un suo tratto caratteristico, che probabilmente la mia famiglia non sapeva come dirmelo e alla fine, trascorsi gli anni non se n’era più presentata

Ho riflettuto sulle parole di Antonio e penso che possa aver ragione. Se avessi saputo della bisnonna Mariuccia in un altro momento della mia vita, forse non avrei dato a questa storia il valore che le ho attribuito oggi. Quell’amore che ha attraversato oceani e decenni mi ha folgorato e emozionato, mi ha dimostrato che se ci si ama per davvero lo spazio e il tempo non sono poi tanto importanti. La villa non l’ho venduta e, proprio come faceva Mariuccia ho riaperto il parco a chi volesse godere del fresco e del verde. Con Antonio ho ripreso a camminare mano nella mano come facevamo quando eravamo bambini e a credere nell’amore. Le lettere le ho lette tutte e in un’ultima corrispondenza Mariuccia scrive a James: “Sono diventata bisnonna e sono felice. Si chiama Agnese e ha i capelli rossi. Come te”.

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