Milan l’è semper on gran Milan

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Lo sostenevano già nel 1939 Giovanni D'Anzi e Alfredo Bracchi, autore e interprete della canzone dedicata a Milan (in dialetto). E lo sostengo io, nel 2019

Sono nata a Milano da genitori milanesi (una razza piuttosto rara in via di estinzione) e sono così abituata al mio habitat che se mi proponessero di trasferirmi in qualsiasi altro posto al mondo scuoterei sgomenta il testone: qui ci sto talmente bene che non riuscirebbero a smuovermi neppure le cannonate.

Insomma, sono legata alle mie radici e alla mia città con tale tenacia da non aver mai condiviso nemmeno per un nano secondo quei sogni comuni a molti, tipo aprire un chiringuito su una spiaggia esotica, andare a vivere nel verde o, peggio ancora, in campagna a stretto contatto con la natura. No, amici: io resto qui, aggrappata come un’edera al cemento, al traffico, al rumore assordante e alle polveri sottili.

Se oggi vi parlo con tanta passione del capoluogo lombardo è perché sono ancora sotto l’influsso dell’articolo Sulle tracce di Leonardo a Milano, che trovate sul numero di Confidenze in edicola adesso. Leggerlo mi ha fatto uno strano effetto. Infatti, sentir raccontare in versione “turistico-culturale” la nebbia, la Darsena o corso Magenta è stato come ascoltare la descrizione di una persona che conosco alla perfezione fatta da un estraneo. Cioè, da chi è in preda all’entusiasmo di una nuova scoperta, quindi poco incline a vederne gli inevitabili difetti.

Negli ultimi tempi Milano è migliorata. È diventata meta ambita da turisti che qualche anno fa non l’avrebbero mai presa in considerazione (in piazza del Duomo sono tutti biondi, con sandali e calzini corti). Offre mille possibilità. Piace, interessa, diverte. Ma è anche una città con tanti problemi, tra i quali un clima che la trasforma con puntualità in una specie di Siberia in inverno e in una fornace in estate.

Eppure, per me è la cuccia, la copertina di Linus, il luogo che abbandono effettivamente ogni weekend, ma con la consapevolezza di assaporare una grande gioia quando lo ritroverò.

Le sensazioni che mi scatena partire il venerdì e tornare la domenica sono le stesse che provavo quando avevo i bambini piccoli e la sera uscivo lasciandoli con la tata. Dimenticare per qualche ora biberon, pannolini e capricci era una vera pacchia che portava il mio umore alle stelle. Ma ancora più bello e commovente era il rientro, con il rituale del bacio della buona notte a quei due profumati strufolini che se la dormivano come buffi ghirotti.

Sia chiaro: non è che al termine dei fine settimana io scoppi a piangere commossa ogni volta che il suono del telepass mi comunica che sto per entrare in città (è vero che ho la lacrima facile, ma a tutto c’è un limite). Però vi confesso che quei chilometri di tangenziale che mi portano verso casa li percorro con la stessa festosa aspettativa con cui un bambino vive la vigilia di Natale. Perché arrivare a Milano (anche se sto tornando dal viaggio più bello) per me significa rifugiarmi nel guscio che mi ha vista nascere e crescere. E che mi fa sentire accudita e protetta.

Detto questo, guardate il calendario: oggi è venerdì. Quindi, sappiate che finisco quel che devo fare e poi parto. Ma domenica sera varcherò la barriera autostradale della Milano-Torino e, andando verso casa, avrò gli occhi gonfi di lucciconi a ogni sacrosanto semaforo di viale Certosa (che trovo sempre tutti rossi) per il felice turbamento di essere di nuovo a Milano!!!

Confidenze