Pane e salame in tavola, vere opere d’arte

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La cucina creativa, scusate tanto, ma a me non piace. Volete mettere la soddisfa di un bel salame con un tozzo di pane casereccio?

Una sera gli amici hanno prenotato in un ristorante di quelli che vanno di moda adesso. Cioè, con un menu incomprensibile e dei piatti da carestia. Presentati, però, come vere opere d’arte.

Infatti, appena è arrivato l’antipasto sono rimasta stupita dalla bellezza dei sassolini bianchi sui quali era appoggiata una pallina scura. E in testa mi bombardava una domanda: quali ingredienti avevano usato per realizzare ciottoli uguali spiccicati a quelli della spiaggia?

Per quanto incuriosita, mi sono comportata educatamente e non mi sono avventata con la mia solita foga su quella proposta dello chef. Ed è stata una botta di fortuna assoluta, perché mi sarei spaccata i denti: quelli che avevo sotto gli occhi erano sassi veri! Mentre la misera pallina scura si è rivelata un microscopico flan di acciughe (anzi, di un infinitesimo di un’unica acciuga).

Già partita male, la cena è proseguita con una lunga serie di portate dello stesso genere: molto buone e splendide da vedere, ma così piccole che non avrebbero saziato neppure un uccellino anoressico.

E se quando mi sono alzata da tavola non avevo più fame, è solo grazie alla benevolenza del cameriere che, rigorosamente di nascosto, mi ha fornito di un cestino di pane non previsto dalla severa padrona del ristorante, decisa a farci mangiare le sue prelibatezze senza che nulla potesse “contaminarle”.

Morale, sono uscita dal locale imbufalita come una pantera. E sempre più convinta del fatto che Quando la cucina diventa arte (è il titolo di un articolo su Confidenze in edicola adesso) io devo stare alla larga.

Lo dico perché sedersi a tavola, a mio avviso, è sinonimo di voluttà, abbondanza e, soprattutto, libertà. Di fare il bis. Di concedermi la scarpetta con il pane non razionato come se fossimo in guerra. E di gustare ciò che ho ordinato nel mio ordine preferito e non in quello imposto da un borioso chef paranoico.

Insomma, non sono proprio la persona in grado di apprezzare il trend della cucina creativa. Tant’è che se mi chiedono di prenotare da qualche parte, la mia scelta cadrà sempre su trattoriole alla buona, dove le tagliatelle annegate nel sugo potrebbero sfamare un reggimento. E pazienza se vengono servite in zuppiere poco eleganti come se fossimo a casa. Perché più che alla forma, quando si parla di mangiare io bado al contenuto.

Non a caso, detesto anche gli “assaggini” raccolti nei minuscoli bicchieri trasparenti tanto in voga negli ultimi tempi. Sì, perché quando finalmente individui quello che ti piace da pazzi, devi marcare a vista i camerieri sperando che tornino a ronzarti intorno e ti offrano una seconda possibilità. Ovvero, quella capace di dare finalmente un contentino al tuo povero palato, bramoso del gamberetto (uno e striminzito) adagiato sul riso (due chicchi in croce).

No ragazzi, scusate ma non ci siamo proprio. La mia idea di cibo, infatti, è tutta un’altra storia. Con ricette ispirate alla tradizione e dosi che abbiano una minima di senso. Tant’è che non baratterei neanche sotto tortura un bel piattone di salame (meglio se accompagnato da una scodella di giardiniera) con un vol-au-vent al seitan profumato al mirto e adagiato su un letto di erbe bio. E neppure delle lasagne trasudanti ragù e besciamella con una tristissima alternativa a base di ingredienti buttati dentro con scoordinata fantasia solo perché oggi fa figo cucinare così.

Ripeto: no, no e ancora no! Sono italiana, mi piacciono la pasta, la pizza e le ricette semplici. Anche nella terminologia ormai incomprensibile ai più, come ironizza Maurizio Crozza. Che nelle sue strepitose imitazioni degli chef stellati, spara a raffica gli stessi verbi assurdi. Uno per tutti, l’ambizioso “dinamizzare” per dire “mescolare”. Ma siamo matti?

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