di Maria Rita Parsi
Oggi la quotidianità dei giovani scorre su due binari: quello reale, fatto di sguardi e presenza, e quello digitale, d’immagini e messaggi che sembrano avvicinare ma spesso allontanano. L’ultima ricerca del Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) che raccoglie le voci degli adolescenti mostra quanto la rivoluzione comunicativa stia trasformando non solo il linguaggio, ma anche la percezione di sé. Colpisce che più di un teenager su cinque sia iperconnesso ogni giorno. Tra le ragazze, poi, questa immersione digitale arriva a sfiorare quasi una persona su tre. Molti giovani raccontano di sentirsi più autentici online che nella vita reale: lì trovano il coraggio che fuori non riescono a esprimere. È davvero autenticità o solo la sicurezza di un’immagine filtrata? La Rete diventa specchio e rifugio, ma anche trappola. Ho pubblicato ho nel 2009 (con Tonino Cantelmi e Francesca Orlando) L’immaginario prigioniero (Mondadori) e nel 2017 Generazione H (Piemme) per far comprendere che il virtuale è un luogo dove si evita il conflitto, l’imprevisto e l’imperfezione, cioè tutto ciò che fa crescere. Non stupisce allora che quasi la metà dei giovani affermi di sentirsi più sincera dietro lo schermo e che uno su due abbia attraversato periodi di ritiro sociale. Il risultato è un paradosso: più i ragazzi sono online, più rischiano di scomparire offline. Allora è giusto vietare i social agli under 16, come in Australia? Un divieto può sembrare severo, ma a volte è un atto d’amore: significa dire: “Prima costruisci te stesso, poi, con la formazione a un uso virtuoso del virtuale, affronta l’enorme piazza del digitale”. Vuol dire proteggerlo da esposizioni precoci, confronti tossici e dipendenze emotive. Ma un limite non basta se non c’è un adulto che accende una presenza mentre si spegne lo schermo. Senza ascolto, senza relazione, senza spazi in cui allenare la propria voce, l’assenza dei social diventa vuoto, non opportunità. La stessa ricerca del Cnr mostra come fragilità familiari o socioculturali rendano alcuni ragazzi ancora più vulnerabili a un digitale senza guida. Per questo il divieto è solo un tassello. Serve una scuola che educhi al sentire e al pensare, genitori che accompagnino, adulti capaci di offrire strumenti, non solo regole. Ai giovani non servono più connessioni, ma connessioni migliori. Non follower, ma presenze reali che li vedano, li riconoscano e li ascoltino. Prima di chiedere ai ragazzi di stare meno online, dovremmo aiutarli a essere più se stessi. Solo così potranno abitare la Rete con autenticità. E capiranno che la loro voce vale più di un like e la loro unicità non ha bisogno di filtri per brillare. ●
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