Te la do io l’America

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Quando mio figlio è partito per gli Stati Uniti, ho vissuto qualche momento di panico. Come tutti i genitori con i ragazzi all'estero

In L’Italia non è un Paese per giovani? (potete leggere l’articolo su Confidenze in edicola adesso), quattro genitori raccontano dei loro figli (nessuno supera i 30 anni) che si sono trasferiti all’estero per motivi di lavoro.

Sia le mamme che i papà si dichiarano felici per i loro ragazzi, ma anche un po’ malinconici. Quindi, ho provato a ricordare quando è stato il mio turno. Cioè, quando uno dei miei figli (allora diciassettenne) è andato negli Stati Uniti per frequentare il quarto anno di liceo.

Naturalmente il progetto ha richiesto un po’ di tempo per la realizzazione, quindi fra il momento della decisione e quello della partenza è passato un sacco. E in quel lungo periodo io alternavo un entusiasmo a mille (l’esperienza meritava di essere vissuta) a un panico a duemila (il mio strufolino lontano da casa per 12 mesi!!!).

Ma i giorni peggiori sono stati alla vigilia del viaggio: il “migrante”, infatti, aveva praticamente smontato la sua camera e svuotato gli armadi. Il che dava a tutta la casa un’idea di smantellamento che mi angosciava. Così, quando passavo vicino al suo letto (e lui era fuori casa, ovviamente), lo accarezzavo come fosse mio figlio a cui davo l’estremo saluto.

A un certo punto, per fortuna, è come se avessi visto la scena dal di fuori e mi sono vergognata per quanto fossi patetica. Soprattutto perché tanta nostalgia non aveva il minimo senso.

Intanto, perché lo strufolino era ancora a Milano e non c’era motivo di sentirne la mancanza. E poi, perché oggi partire non è come ai tempi del Titanic (parlo dei passeggeri della terza classe), quando imbarcarsi significava rischiare di perdere definitivamente i contatti con la famiglia.

Ma va! Adesso vivere nello stesso appartamento o dall’altra parte del mondo sembra quasi essere la stessa cosa. Tra Whatsapp, Facebook, Skype e compagnia bella, infatti, rimaniamo tutti in compagnia bella! Anzi, forse ancora di più in compagnia, se i figli sono adolescenti.

Sì, perché a quell’età quando entrano in casa è per rinchiudersi in camera. Mentre se sono in America, se si chiudono in camera è per prendere il computer e scrivere alla loro mamma!!!

Tant’è che mio figlio, da cui non avevo mai ricevuto una lettera (le uniche erano per Babbo Natale), dalla Florida mi mandava mail esilaranti in cui, con tutto il suo senso dell’umorismo, mi teneva aggiornata su fatti e misfatti della sua vita con la puntualità di un cronista del Miami Herald.

Certo, un anno rispetto a una prospettiva di lontananza ben più lunga fa la differenza. Ma le testimonianze dei genitori intervistati confermano che anche no: tra Internet e voli low-cost, infatti, ormai tutto il mondo è paese. E i figli all’estero invitano a visitarlo.

Confidenze