Storia vera di Raffaella L. raccolta da Carmelita Fioretto
Spalancando la finestra avverto subito la primavera nel vento che soffiava dal fiume. Il sole del mattino avvolge Lisbona in un abbraccio caldo, dorato. Come mi succede da troppo tempo, ho fatto fatica ad alzarmi e ad affrontare questo nuovo giorno. Anche stamattina mi ha aiutato pensare a mia figlia, anche se vive a Londra, ai nostri scambi di messaggini durante la giornata e quindi alla telefonata serale. Con Noemi fingo un’allegria che sono lontana dal provare. In realtà fingo con tutti. Con lei per non farla preoccupare, con gli altri per orgoglio.
Non voglio apparire a nessuno la donna sola e depressa che invece sono.
Tomàs, mio marito, mi ha lasciata quindici anni fa per una ragazza di vent’anni più giovane di me. Con lui non sono stata davvero felice, eppure ho sofferto per il suo abbandono. Può sembrare strano ma dopo non mi sono più innamorata e tengo gli uomini a distanza, li frequento solo come amici, forse perché l’esperienza mi ha resa molto cauta e selettiva.
La mia strada nella vita è sempre stata in salita con soltanto brevissimi tratti pianeggianti. Così ecco che a cinquantacinque anni mi ritrovo svuotata, stanca e disillusa al punto da non avere più sogni né speranze. E se quasi ogni giorno accendo un cero davanti all’immagine di Sant’Antonio, nella chiesa vicina alla Cattedrale, non è perché mi illuda che il Santo, nato proprio a Lisbona, possa aiutarmi ma soltanto perché quel gesto mi dà in qualche modo conforto.
Oggi è sabato e quindi faccio tutto senza fretta. Mentre sorseggio il caffè nella cucina inondata dal sole, combattendo già contro la malinconia, non posso certo sapere che la vita sta per sorprendermi come mai avrei immaginato potesse più fare e che forse i ceri davanti all’immagine di Sant’Antonio non sono stati accesi invano.
Circa alle dieci esco per andare a fare un po’ di spesa. Sto aspettando l’ascensore quando dal B&B sul mio stesso pianerottolo escono un uomo e un ragazzo che mi rivolgono un educato cenno di saluto. Mi capitava spesso di incrociare degli ospiti del B&B e, come faccio sempre, anche questa volta mentre scendiamo al pianterreno me ne sto sulle mie, fissando con apparente interesse la pulsantiera dell’ascensore. Quando le porte si aprono, i due si scostano per lasciarmi passare per prima, una gentilezza che ricambio con un rapido sorriso. Incrociando per qualche secondo lo sguardo del più anziano mi sento sussultare dentro e avverto una strana, indefinibile emozione che però dissolve mentre mi allontano verso il piccolo supermercato dove di solito faccio la spesa.
Sto scegliendo della frutta quando mi sento chiamare: «Raffaella!», all’italiana con la doppia elle perché in portoghese si pronuncia con una sola.
Mi giro di scatto un po’ sorpresa e mi trovo davanti l’uomo di poco fa. Sul suo volto un’espressione di stupore, di incredulità.
«Ma allora sei davvero tu! Raffaella…? È incredibile! Pazzesco!»
Lo fisso altrettanto incredula. Come ho fatto a non riconoscerlo subito? È che prima gli ho lanciato appena un’occhiata e poi è l’ultima persona al mondo che mi sarei aspettata di incontrare. Certo, negli anni è cambiato, invecchiato… però adesso a guardarlo bene, con attenzione, è innegabilmente lui e i suoi occhi sono gli stessi frammenti di cielo di un tempo.
«Niccolò!» esclamo esterrefatta.
«Allora mi riconosci pure tu! Allora non ti sei scordata di me!»
Certo che no! Come si può dimenticare il primo amore? Mi stupisce invece che lui abbia riconosciuto me.
I miei genitori si sono conosciuti a Roma. Mia madre, nata a Coimbra, era la tata in una facoltosa coppia portoghese che aveva seguito in Italia quando vi si erano trasferiti per lavoro. Invece mio padre, pugliese, era cameriere nel bar che lei frequentava nelle ore libere. Si sono innamorati, sposati e quasi subito sono nata io. Credo che tutto sommato insieme siano stati felici nonostante le mille difficoltà economiche, le privazioni e i salti mortali per arrivare in qualche modo a fine mese. Non so perché ma papà perdeva spesso il lavoro e magari restava disoccupato per mesi. Mamma aveva lasciato il posto di tata e andava a servizio a ore. Lui non aveva parenti, era cresciuto in orfanotrofio e la famiglia di lei era tutta in Portogallo quindi potevano contare solo su se stessi. Eppure, da bambina sono stati così bravi che non mi sono mai resa conto di quanto fossimo poveri.
Dopo le medie volevo andare a lavorare, ma loro erano disposti a qualsiasi sacrificio purché io prendessi un diploma, così mi sono iscritta a ragioneria ma non andavo molto bene tanto che un anno sono stata persino bocciata.
Un sabato, con la mia amica Susanna siamo andate al Luna Park dell’EUR. Era una primavera radiosa e noi avevamo diciassette anni e tanta voglia di divertirci. Niccolò e il suo amico Sandro ci hanno adocchiato sull’autoscontro e non facevano che venirci addosso. Noi fuggivamo ridendo e loro ci inseguivano sulla loro macchinetta. Dopo tre corse ci hanno offerto il gelato.
Che bel pomeriggio è stato quello! Mi basta chiudere gli occhi per risentirne i suoni, i profumi, gli odori e soprattutto le emozioni, l’allegria spensierata e l’eccitazione e la gioia che mi facevano vibrare lo stomaco, il cuore quando Niccolò mi veniva un po’ più vicino come al tirassegno dove mi ha circondato le spalle con un braccio ed ha posato una mano sulla mia per aiutarmi a reggere la carabina e a prendere la mira ed ho sentito il suo respiro accarezzarmi l’orecchio.
Emozioni così forti non le avevo ancora mai provate e mi spaventavano un poco.
La sera già calava su Roma quando ci hanno accompagnato a casa. Era quasi ora di cena e mamma andava in ansia se ritardavo, anche perché il nostro non era un quartiere molto sicuro dopo il tramonto, così fremevo mentre ci salutavamo davanti al portone. Stavo già per salire quando Niccolò mi ha chiesto se mi andasse di vederci il giorno dopo, noi due da soli anche perché Susanna era impegnata in famiglia. Ci siamo dati appuntamento per il pomeriggio in Piazza Argentina. Non volevo che i miei, apprensivi com’erano, vedessero che uscivo da sola con un ragazzo e magari me lo proibissero.
La nostra storia è cominciata quella domenica pomeriggio. I rossi del tramonto incendiavano il cielo e l’innamoramento infiammava il mio cuore quando Niccolò mi ha dato il primo bacio a Villa Borghese.
A Roma c’ero nata, era la mia città e l’amavo, credevo di conoscerla bene eppure con Niccolò mi pareva di vederla con occhi nuovi e mi appariva ancora più affascinante, più bella. Anzi tutto il mondo mi sembrava nuovo, diverso.
Niccolò aveva vent’anni, frequentava ingegneria ed era pieno di interessi, di progetti. Quanto a noi due non pensavamo ancora al futuro ma ci godevamo quello che ci appariva come un eterno, magnifico presente.
Quell’anno con lui è stato uno dei migliori della mia vita. Ricordo le serate in pizzeria con gli amici, le giornate al mare a Ostia, le gite nella campagna romana…
Niccolò è stato il primo con cui ho fatto l’amore. Lui era già stato con una ragazza più vecchia di qualche anno, di cui ero assurdamente gelosa anche se non la vedeva più. Ricordo ogni istante, ogni gesto, emozione, sensazione della nostra intimità, i timori e i pudori e la spavalda, atletica bellezza del suo corpo nudo.
E poi all’improvviso è crollato tutto. Un mattino a svegliarmi di soprassalto è stato l’urlo di mia madre che pareva quello di un animale ferito a morte. Mi sono precipitata verso quel grido e l’ho trovata in bagno abbracciata a papà riverso nella doccia. È stato un infarto fulminante a strapparcelo.
Il periodo che è seguito è di un grigio plumbeo. Mamma è caduta in un baratro di dolore e depressione. Non sapevo come aiutarla a venirne fuori. E intanto eravamo senza denaro e piene di debiti. E poi da Lisbona è arrivata zia Paula ed ha finito per portarci via con sé. Mia madre si è affidata completamente alla sorella e io non ho avuto altra scelta che seguirle. Da sola non potevo mantenermi e poi mamma non poteva perdere anche me.
Sono partita con la morte nel cuore, dicendomi che appena mamma si fosse ripresa sarei tornata subito a Roma.
«Resta a vivere con me» tentava di convincermi Niccolò «in qualche modo faremo» ma sapeva anche lui che era solo un sogno perché dipendeva ancora dai suoi, gli mancavano almeno due anni alla laurea e poi aveva da fare il servizio militare.
«Sarà questione di mesi» gli promettevo «Tornerò presto»
«Se non lo farai verrò a Lisbona a prenderti» giurava lui imprigionandomi tra le sue braccia.
L’ultima notte a Roma, me ne sono fregata della mamma e dalla zia e siamo riusciti a passarla insieme. Dall’alto del Gianicolo abbiamo visto albeggiare sulla città e ci siamo giurati di amarci per sempre.
Sono partita con la morte nel cuore. Era difficile trattenere il pianto. I primi mesi a Lisbona ero sempre triste. Zia Paula diceva che soffrivo di saudade, di nostalgia ma che sarei guarita, mi sarei ambientata e avrei amato il Portogallo tanto quanto l’Italia. Ero sicura che non sarebbe stato così.
Niccolò mi mancava da impazzire. Aspettavo con ansia le sue lettere, le cartoline e mi dispiaceva di non essere in grado nelle mie risposte di esprimere sino in fondo ciò che provavo. Telefonarci costava troppo.
Soltanto qualche anno dopo sarebbe divenuto via via sempre più facile, rapido e meno costoso tenersi in contatto, comunicare, invece non lo era affatto in quel 1989.
I miglioramenti di mamma si alternavano a improvvise ricadute. Zia Paula, con cui abitavamo, mi ha fatto assumere nella ditta in cui lavorava e che commerciava con l’Italia. Presto Lisbona mi ha affascinato con i suoi profumi, i colori, la luce. Ho cominciato a conoscere gente. Quando si è giovani e si ha sete di compagnia, di vita ci si ambienta in fretta.
Niccolò ha iniziato a scrivermi di meno e di conseguenza anch’io. Oppure è stato il contrario? Non ricordo. Forse eravamo entrambi distratti da altre cose, forse il nostro amore aveva ancora radici troppo corte.
Tomàs era figlio di un’amica di Paula. Una sera mi ha invitato ad ascoltare il Fado in un locale del Barrio Alto. Non ne ero innamorata però lo trovavo divertente, simpatico e anche attraente. Stare con lui mi confortava, mi rassicurava. Tra le sue braccia mi sentivo in un porto sicuro.
Lo so, avrei dovuto scrivere una lettera d’addio a Niccolò, spiegargli anche se non capivo bene neanch’io cosa mi stesse accadendo, cosa provassi davvero. Invece, ho scelto un vile e ambiguo silenzio. Del resto non ci vedevamo ormai da più di un anno, anche se nell’ultima lettera lui mi giurava che in estate sarebbe venuto a Lisbona. Quando però sono rimasta incinta e con Tomàs abbiamo deciso di sposarci ho dovuto scriverglielo. L’estate era ormai alle porte. Non mi ha mai risposto.
E adesso eccolo lì davanti a me per un’incredibile, sconvolgente casualità.
«Raffaella!»
«Niccolò!»
Lo fisso incredula, turbata, imbarazzata. Forse è ridicolo ma vorrei essere andata dal parrucchiere ieri, vorrei essermi vestita meglio. Spero che non pensi: Dio mio, come si è ridotta! Ma che mi giudichi dopo tutto ancora una donna piacevole anche se, ovvio, non sono più la ragazza di un tempo. Del resto, anche lui non è più quello.
Accetto subito la proposta di andare in un locale là vicino a chiacchierare in tranquillità. Davanti a due boccali di birra, che quasi non tocchiamo, ci raccontiamo un po’ delle nostre vite. I nostri divorzi, i nostri figli. Gli confido come la nascita di Noemi abbia avuto un effetto quasi miracoloso su mia madre che all’improvviso è uscita dall’apatia, dal letargo, dalla depressione. Ormai lei e zia Paula non ci sono più.
Niccolò non recrimina sul passato, non muove rimproveri. La troppa acqua che è passata sotto i ponti deve aver portato via con sé ogni rancore.
«Eravamo così giovani!» sospira a un tratto.
Ed era un altro tempo, un’altra età, un’altra vita.
È qui a Lisbona per trovare la figlia Carlotta che sta facendo l’Erasmus. Il ragazzo con cui l’ho visto prima era solto un altro ospite del B&B, uno sconosciuto per lui. Mi chiedo se durante il volo verso Lisbona e anche prima si sia detto che forse aveva una qualche infinitesimale probabilità di incontrarmi. Nel week end è impegnato con Carlotta ma il lunedì prima di partire lo dedica tutto a me che prendo un giorno di ferie. Intanto ci siamo scambiati i numeri di telefono e mandati diversi messaggi. Tutto questo mi emoziona sino a farmi palpitare il cuore, mi rende euforica, mi dà una sferzata di energia.
Lisbona mi appare ancora più bella, più luminosa con Niccolò accanto. Non siamo più dei ragazzi. Lo scorrere del tempo non ci ha cambiati solo nel fisico. Le esperienze della vita hanno mutato i nostri caratteri, le nostre anime eppure tra noi c’è quella confidenza che sempre unisce in qualche modo chi ha condiviso emozioni, sentimenti soprattutto in gioventù.
Non accade nulla tra noi se non uno sfiorarsi di labbra al momento del distacco e un abbraccio che non vorrebbe finire mai.
«Ti aspetto a Roma» mi sussurra.
«Chissà!» rispondo senza sbilanciarmi.
È lui il primo a farsi vivo dopo una settimana dall’incontro a Lisbona. Solo Dio e Sant’Antonio, a cui continuo ad accendere ceri, sanno l’ansia con cui ho aspettato la sua chiamata. Faccio fatica a tenere a bada le speranze e la fantasia. Non voglio rimanere ferita, delusa.
Le telefonate si fanno sempre più frequenti, più lunghe. Ci raccontiamo avvenimenti, emozioni, opinioni, ridiamo insieme. In Niccolò è rimasto poco del ragazzo di cui mi sono innamorata tanti anni fa, però l’uomo che è adesso mi piace allo stesso molto. Mi piace la sua arguzia, condivido le sue opinioni. Mi piace come sa ascoltarmi, come mi capisce.
Adesso non mi pesa più alzarmi al mattino e mi scopro a cantare sotto la doccia come non mi accadeva più da tanto.
Al termine di ogni telefonata lui mi ripete: «Ti aspetto a Roma» e io replico sempre: «Chissà!»
Finalmente, lo prendo davvero il volo per l’Italia.
Scendendo dall’aereo mi commuovo respirando l’aria che è già quasi quella di Roma.
Le braccia di Niccolò mi avvolgono in un caldo abbraccio.
Non è un ritorno ma un nuovo inizio.
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