Storia vera di Alvaro S. raccolta da Antonio Bozzo
Disse solo: «Sono Gesuina. Questo è per lei, signor Alvaro». Lo disse come se si rivolgesse a un viandante, a uno che ha ancora molta strada da fare. Accettai, pensando che fosse una buona idea dei padroni di casa farmi avere qualche genere di conforto: avrei pagato alla fine del soggiorno, tali gradevoli extra.
Nei giorni seguenti, mentre mi stavo ambientando e distillavo ragionamenti sull’archeologia sarda, per trasformarli in uno studio avanzato da discutere poi in università, Gesuina compariva e scompariva, sempre col passo leggero di chi non ha paura del silenzio. Portava un pane, qualche volta un frutto, sempre dell’acqua, anche aromatizzata con un’erba locale che la rendeva molto rinfrescante. Mi parlava a voce bassa, ma senza alcuna soggezione, raccontandomi che dentro il nuraghe si sentivano le voci.
«Ma non come le intende lei, professore». Aveva preso a chiamarmi con la mia qualifica, non più con un generico signore. «Non semplici parole, sono vibrazioni. Come una musica che si dimentica appena la si ascolta».
Io ridevo, tra me e me. Avevo scritto una monografia sul rapporto tra struttura e astronomia nei nuraghi del Sinis, mi sembrava di sapere di cosa parlavo.
«Le pietre non parlano, Gesuina. Non ci sono misteri, solo cultura materiale, con ancora tanti lati oscuri, questo sì, ma nulla di fantascientifico o alla Indiana Jones. L’archeologia è piena di avventure e colpi di scena, ma si resta sempre con i piedi ben piantati a terra» le dissi sorseggiando la sua acqua fresca, dal vago sapore mentolato.
Gesuina non si offese, per le mie puntualizzazioni da studioso. «Lei non ascolta veramente, Alvaro. Lei misura, traccia confini, cerca prove che non troverà per le sue teorie. Dovrebbe imparare, mi permetta, a lasciarsi andare: la Sardegna ha una voce antica che non tutti possono capire». Il mio nome pronunciato così, Alvaro, senza titoli, senza neppure un banale “signore” a precederlo, mi colpì più di ogni riflessione, causata dalle parole di Gesuina. Nessuno, fuori dalla prima cerchia di amici, peraltro piuttosto ridotta, mi chiamava in modo talmente diretto. Gesuina lo disse con una dolcezza che sembrava non appartenere alla nostra epoca. Mi stavo rendendo conto che questa figura, la giovane donna che in qualche modo mi accudiva, aveva un non so che di arcaico e nobile, quasi provenisse da un mondo fuori dal comune. Ma era certo una fantasia. A volte noi ricercatori, forse per distrarci un po’ dall’ossessione degli studi sul campo, costruiamo castelli in aria, produciamo dei film mentali, per dir così, che ci portano lontano. Gesuina, alla quale non chiesi mai nulla più di ciò che richiede la cortesia, poteva essere di questa sorta? Chissà, rimuginai. E promisi a me stesso che avrei indagato su di lei, sarà, pensavo, una nipote dei padroni di casa. Non ne sapevo nulla, se non che aveva modi gentili, un tempo si sarebbe detto urbani, e che sì, era una ragazza ben disegnata, insomma graziosa. Una sera mi portò lungo un sentiero che non era segnato su alcuna mappa. Passammo tra rovi e massi, finché davanti a noi si aprì un piccolo anfiteatro di pietra. In mezzo, una vasca scavata nella roccia.
«Qui venivano a purificarsi, prima di entrare nel nuraghe» sussurrò Gesuina, con tono malinconico. L’acqua era immobile, scura. Non feci domande. Per qualche ragione, non volevo infrangere il silenzio. Tornammo, mentre le ombre della sera prendevano il sopravvento. Un’altra volta, ed era notte, mi condusse dentro la camera centrale del nuraghe, con solo una candela accesa.
«Tenga gli occhi chiusi, Alvaro» disse, imperiosa. Io, che mi ero sempre difeso con l’ironia, obbedii. Allora lo sentii: un fremito nella pietra, un suono sordo, un cuore antico che batte piano.
«Non è possibile» esclamai, un po’ spaventato.
«Non tutto ciò che è vero ha bisogno della sua approvazione, professore» rispose lei.
Qualche giorno dopo, mi svegliai nel cuore della notte. Non saprei dire perché. Forse fu il vento, o forse la sensazione netta di non essere solo. Guardai fuori: sotto la luna velata, Gesuina camminava verso il nuraghe. La seguii di nascosto, attento a non fare rumore. Il sentiero era lo stesso del giorno, ma le pietre sembravano più alte, i cespugli più fitti. Lei avanzava senza voltarsi, eppure sapevo che era consapevole di essere seguita da me. A un certo punto scomparve dietro un muro crollato. Accelerai il passo, ma quando girai l’angolo non c’era più. Il nuraghe era davanti a me, immobile e nero. Sentii un sussurro, il mio nome, ne sono certo, provenire dall’interno. Entrai. Mi feci luce con il cellulare. Non trovai nessuno. Solo un odore di cera spenta, e il battito lontano, come quella notte con la candela.
Il giorno dopo Gesuina non venne. Né quello dopo ancora. Andai all’osteria. Chiesi di lei. Un anziano, seduto in un angolo, mi guardò come si guarda chi ha toccato qualcosa di pericoloso.
«Gesuina? Ma povera ragazza, è morta tanti anni fa, non lo sa? Stava sempre in mezzo ai nuraghi. Diceva che li capiva e che quelle pietre capivano lei. Una povera anima, ma buona. Morì laggiù, tra quelle rocce, dev’essere stato un incidente, Gesuina aveva l’abitudine di passeggiare di notte, e non si fa. Non è mai stato ritrovato il corpo. Ma perché lei, sappiamo che è un professore di Roma, cerca Gesuina?».
Non risposi. Tornai al sito. Salii fino alla sommità. Il vento portava con sé l’odore del mirto e il gracchiare dei corvi. Mi sedetti, appoggiai la mano su una pietra. E per la prima volta da anni, non cercai di capire.●
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