E lo chiamavo amore di Elena Vesnaver

Cuore
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In occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne pubblichiamo la storia vera raccolta da Elena Vesnaver, tratta dal numero in edicola

Ieri ho visto Piero. Chissà dove andava, qualcosa di lavoro, ci metto la mano sul fuoco. Aveva quel passo sicuro che mi ha sempre incantato, come se tutto il mondo dovesse spostarsi e lasciarlo passare; soltanto che il mondo non si sposta per nessuno e lui si è trovato intralciato fra una signora con una sporta piena, due ragazzini e una giovane donna piena di fretta anche lei che parlava nel cellulare. Ho visto lo sguardo con cui ha incenerito tutti quegli importuni e l’ho riconosciuto, l’ho risentito addosso e mi sono svegliata, è sparito anche quel lieve rimpianto che avevo cominciato a sentire.

Rimpianto, ti rendi conto? Però lo sento ancora, punge ancora, taglia ancora e quanto mi vergogno, ma è normale, tutti mi ripetono che ci vuole tempo, ancora altro tempo e io spero, ogni volta, che sia l’ultima, che passerà, anzi, è già passato e quando ci ricasco, hai capito che delusione?

Sì, certo, passerà, lo so da me che passerà, è l’idea di essere stupida che mi disturba, che Piero avesse ragione quando me lo diceva, perché solo una stupida, ascolta, solo una stupida può provare nostalgia per l’inferno. Solo una stupida potrebbe amare ancora quell’uomo lì.

Dicono che non è amore, è dipendenza e passerà, sicuro che passerà. Con la presa di coscienza. Tu lo sai cos’è la presa di coscienza? Ha anche a che fare con l’autostima, credo e allora stanno freschi, che di quella non ne ho mai avuta nemmeno un briciolo, altrimenti perché avrei sposato Piero?

Perché lo amavo. Perché all’inizio mi amava. Perché in quel suo modo contorto ha continuato ad amarmi. No, stai zitta, stai zitta, che ne sai, che ne sapete? Vuoi sentire la mia storia, sì o no? E allora stai zitta.

«Signorina, scusi, avrei premura. È possibile mangiare subito qualcosa? Quello che c’è di pronto andrà benissimo».

Mi colpì subito la sua voce educata a cui non ero abituata perché, nel ristorante dove lavoravo in quel periodo, frequentato da gente che aveva solo voglia di mangiare e correre al lavoro, l’educazione non era molto frequente e invece quel bell’uomo mi trattava con cortesia rara, oltre a guardarmi in un modo che, non so come dire, nessuno mi ha mai guardata così, né prima né dopo. Ed è bello, sai, è una cosa che ti fa sentire, non so, importante, unica e aveva un sorriso che solo per quello meritava di fare qualsiasi cosa, come alzarsi e andare a lavorare in una giornata piovosa, per esempio.

Gli ho portato un piatto di pasta e sono riuscita a fargli preparare una bistecca fuori programma, anche se in cucina hanno storto il naso, ma ho raccontato qualcosa tipo che era amico del titolare e per fortuna che non è mai venuta fuori la verità.

«Lei è il mio angelo, Rossella» disse.

Certo, sicuro, aveva letto il mio nome sul cartellino, mica era un mago, però che mi chiamasse per nome mi fece un’impressione bella, un’attenzione in più. Il suo angelo. Mi piaceva essere il suo angelo, anche solo per avergli portato una bistecca.

Adesso, aspetta devo spiegarti una cosa. A me nessuno mi ha mai fatto sentire, non dico importante, ma neppure normale, come mi posso far capire? Allora. Una normale, fa le cose normali e qualche volta va bene, qualche altra sbaglia, ma alla fine sei in pari, no? È normale, appunto. Poi ci sono quelli che non sbagliano un colpo e poi ci sono io, che non ne ho mai combinata una giusta.

Non dire subito che non è vero, chiedi a mia mamma, a mio padre, ai miei fratelli. Rossella non sa fare niente, solo casini, Rossella è stupida, Rossella non combinerà mai un tubo. E poi arriva un uomo elegante che si vede che non è uno qualunque e mi dice che sono il suo angelo.

Avrei voluto vedere te, avrei voluto vederti al posto mio quando, il giorno dopo, l’ho trovato davanti al ristorante che mi aspettava.

«Ho chiesto a che ora finivi il turno a quella tua collega, quella bionda».

Avrei voluto vederti, avrei voluto vedere chiunque, non avresti sorriso, non ti saresti sentita contenta, non ti saresti innamorata? Io sì, subito, a fine serata avevo già capito che senza di lui non sarebbe stata vita, che era l’uomo che aspettavo da sempre e che lo avrei reso felice, sempre.

Fare l’amore con Piero è stato, non so, unico e basta. Tanto che ancora oggi, dopo tutto quello che è successo, non so se troverò mai un uomo che mi faccia sentire quella che ero con lui. Dici? Ma che ne sai.

 

 

 

Quando mi ha chiesto di sposarlo? Presto, prestissimo e lo so che non va bene, cioè ora lo so che se un uomo ha fretta di sposarti, se dopo due settimane vuole che tu vada a vivere con lui, c’è qualcosa che non funziona. Bene che vada, soffre la solitudine, se poi sei sfortunata, è uno come Piero. L’ho imparata la lezione e adesso lo so, ma allora non lo sapevo mica, ero solo felice.

Facevo la cameriera in un ristorante da schifo, a casa mi trattavano come l’ultima ruota del carro, non c’era uno straccio di nessuno che tenesse a me e all’improvviso arriva un uomo fantastico e dice che  vuole me, vuole me, vuole Rossella. Ti sfido a farci sopra troppi ragionamenti, o ad ascoltare chi ti raccomanda di avere pazienza.

«Fai un po’ come ti pare» commentarono a casa, «ma c’è qualcosa che non va». Volevano dire che se uno come Piero si innamorava di una come me, tutto giusto non poteva essere, immagino e ora mi tocca dargli ragione, che bella riuscita essere costretta ad ammetterlo. Questa cosa che sono stupida deve essere vera, altrimenti come ti spieghi quello che è successo? Colpa mia, ovvio.

Hai ragione, non mi devo colpevolizzare. Può capitare a qualunque donna e la vera sciocchezza è pensare che la colpa sia mia, se ne ho una è di essermi innamorata e di aver pensato a un lieto fine, ma lo vorremmo tutte, no? Be’, ora non ci credo più, che risultato fantastico.

La prima volta è stato dopo tre mesi che eravamo sposati, tre mesi durante i quali mi era sembrato di vivere in Paradiso con un marito che mi riempiva di amore e attenzioni e mai avrei potuto immaginare, mai.

Era domenica, stavamo pranzando, era una giornata di sole talmente bella che mi era venuta voglia di una passeggiata, solo che Piero era stanco, doveva controllare delle carte, insomma preferiva restare a casa.

«Ci vado da sola, allora e ti porto il gelato» mi ricordo che ho detto, sorridendo.

Se mi chiedi come è successo, non ti so rispondere, non mi ricordo, non ti so dire come mi ha guardato, se mi ha guardato, so solo dello schiaffo, questo sì, uno schiaffo talmente forte da farmi cadere dalla sedia. Ricordo il dolore fortissimo, il sangue sulle mani e non capivo da dove arrivasse, ricordo Piero che era in piedi, davanti a me, sopra di me, ricordo i pugni stretti e la paura.

Hai mai avuto paura, ma paura veramente?

Non per stupidaggini, che ne so, il temporale, un rimprovero, paura di perdere il lavoro o di deludere qualcuno, perché quello è niente e ricordatelo la prossima volta che pensi di avere paura, quella non è paura, è una barzelletta.

La paura vera è stare per terra e renderti conto che il tuo uomo ti ha picchiata, leggergli negli occhi che sta per farlo di nuovo, che lo farà ancora, che pensa sia giusto. Vedere il tuo sangue che macchia i vestiti e il pavimento ed è talmente tanta la paura che cerchi una ragione, una qualunque, per non diventare matta. Matta di paura e di terrore.

Durò poco, forse durò ancora meno di quel che mi ricordo. È stato, giuro, come spegnere un interruttore, prima la luce c’è, dopo non c’è più. Prima Piero sembrava pronto a uccidermi, dopo era in ginocchio vicino a me e mi supplicava: «Amore, amore, non volevo, Dio che ho fatto, non volevo, credimi, credimi, perdonami, mai più amore, mai più vita mia, è la prima e ultima volta, perdonami, credimi».

 

 

 

Oh, era facile credergli, era così facile lasciarsi cullare dalle sue braccia e dalle sue parole dolenti, perché io volevo solo essere rassicurata, desideravo una voce che mi ripetesse mai più, mai più succederà, per poter dimenticare il sangue, il dolore, l’orrore e credere che era la prima e ultima volta, che ci avrebbe pensato il tempo a far sparire tutto di quel giorno, tutto.

Poi abbiamo fatto l’amore là per terra, in cucina, le fettuccine che diventavano fredde, i nostri corpi sempre più caldi e colmi di un desiderio talmente bruciante, quasi fosse l’unico modo per esorcizzare quello che era successo. Se è stato bello? È stato fantastico, te lo dico.

Poi, dopo che il sangue si è asciugato ed è diventato meno di un ricordo, la vita ha continuato come prima, anche meglio. E io ci ho creduto che quella era stata la prima e ultima volta, ho dimenticato la paura, ci ho provato almeno, mi sono convinta, a dire la verità, tanto per essere sincera davvero.

La prima e ultima volta.

Quante sono state, invece ed erano sempre la prima e l’ultima?

Poi si pentiva, ogni volta si pentiva, dopo e implorava perdono e giurava. Quanti giuramenti mi ha fatto, quante promesse, amore perdonami, cambierò, giuro che cambierò e mei più, mai più, credimi, credimi, credimi. E io credevo.

Se gli credevo davvero? Tu, che risposta vorresti?

Dovevo credergli, capisci, per avere uno straccio di vita normale, perché avevo bisogno di lui, porca miseria, perché lo amavo, sì e ora dimmi che era sbagliato.

Che ne sapete tutti, che state lì a dirmi quello che dovevo o non dovevo fare, che avrei dovuto lasciarlo alla prima sberla, che dovevo capire, che dovevo salvarmi?

Io lo amavo, è chiaro? E quando si ama si dà una possibilità, altrimenti che razza di amore è, perché uno può sbagliare, ma questo non vuol dire che sia cattivo, no, non vuol dire proprio niente.

E invece vuol dire. Cosa credi, lo so che sto tirando fuori una montagna di stupidaggini; prima avevo bisogno di credere alle sue chiacchiere, ora, per non andare fuori di testa, ho bisogno delle mie favole sull’amore eterno.

È che ci sono stati dei periodi belli, quelli mi hanno fregato, settimane e mesi durante i quali tutto sembrava a posto, come prima e io mi dimenticavo della paura e dei lividi,  pensavo sul serio che l’inferno fosse terminato e invece ricominciava. Quando meno me l’aspettavo, ricominciava.

Adesso, con il tempo, ho capito che Piero non sopporta di essere trascurato. Sì, va bene, a nessuno piace, ma per lui è una cosa intollerabile, dolorosa, lui deve essere sempre al centro dei pensieri di tutti, per questo nel lavoro è il migliore e con me si scatenava ogni volta che gli sembrava che non gli prestassi sufficiente attenzione. Sì, una vita tremenda, la sua e la mia, solo che io ne sono uscita e Piero no.

No, non lo giustifico, all’inizio sì, quando ami qualcuno cerchi delle scusanti, ti inventi un’infanzia difficile, tipo, un trauma, un abbandono, il gatto smarrito, insomma, ci deve essere una ragione, no? Altrimenti sarebbe solo un mostro e non ci si vuole arrendere all’idea di amare un mostro e di esserne amate, perché te l’ho detto, vero, che ero sicura che Piero mi amasse? Te l’ho detto, sì.

Mi amava, me lo diceva ogni volta che tornava a casa, ogni mattina, ogni volta che facevamo l’amore, me lo ripeteva cento, mille volte dopo avermi pestata. Piero era convinto di amarmi e ha convinto pure me che le botte fossero una dimostrazione d’amore.

La mia famiglia?

Lasciamo perdere, che ancora adesso mio padre non vuole nemmeno sentirne parlare e mia mamma in fondo pensa che me lo sia meritato.

Gli amici, poi, per carità.

I suoi si sono bevuti la storia che sono una pazza in libertà che ha fatto di tutto per rovinarlo; i miei sono spariti, forse pensano che questa cosa sia troppo meschina e triste, una storia brutta con cui è meglio non avere niente a che fare, che non si sa mai, magari resta appiccicata addosso, come la scalogna.

 

 

 

Nei film c’è sempre qualcuno che aiuta la protagonista, una collega, un’amica più sveglia delle altre, un uomo che si innamora di lei, ma nel mio caso non è andata in questo modo, ne sono uscita da sola. Sì, davvero.

Mi ricordo che era pomeriggio, uno di quei bei pomeriggi di autunno ancora tiepidi, ancora con un ricordo di estate. Io ero in cucina a preparare la cena e mi sono accorta che mi ero dimenticata di comprare quella spezia… aspetta, coriandolo, ecco, coriandolo. A Piero piace la carne con il coriandolo.

Ho cominciato a sudare, con il cuore che mi andava a mille e le mie mani tremavano tanto che ho dovuto posare il coltello altrimenti mi tagliavo e adesso che faccio che faccio che faccio? Se esco non riesco a preparare la cena in tempo, cosa dirà Piero, si arrabbierà, cosa mi farà? Cosa mi farà?

Vedi, tante volte basta una frase: “Cosa mi farà?». E in quel momento ho capito che non potevo andare avanti, che se restavo là, o mi ammazzava lui o sarei morta di paura e io non voglio morire, mi sono detta, sia quel che sia, ma non voglio morire.

Me ne sono andata. Ho buttato due cose in una valigia e sono corsa in stazione, dove ho preso il primo treno che partiva ed era per una città che non conoscevo e più il treno mi portava lontano, più respiravo bene.

Rifarmi una vita dal niente non è stato complicato. Dopo aver passato cinque anni nel terrore, tutto il resto è una passeggiata, puoi star sicura, il difficile, il difficile vero, è stato capire quello che mi era successo e non sono  sicura di esserci ancora riuscita. Be’, prima o dopo ce la farò e allora potrò dimenticare, almeno ripensarci con meno dolore e umiliazione, perché dimenticare, dimenticare davvero, è un altro discorso, bella mia.

Qui ci torno solo per vedere i miei, per quello che serve e ieri ho visto Piero, te l’ho detto. Mi pare di aver sentito che ha una compagna e non so, forse con lei è diverso, forse la colpa era sul serio mia, come sono convinti tutti, ma non mi interessa, fatti loro, ma qualcosa vorrei dirglielo, a lei.

Cosa?

Chi lo sa, forse di stare attenta, ecco, di non lasciarsi imbrogliare, di non consegnargli il cuore e la vita come ho fatto io, che il mio sbaglio più grande è stato questo, di non credere che per amore va bene tutto, perché l’amore non giustifica, no, mai.

L’amore non è così, quello non è amore, chiamiamolo come ci pare, ma non amore.

Solo che io lo chiamavo così. E lo chiamo ancora, qualche volta e allora penso che non mi salverò, no, non mi salverò mai.

Dici? Ma che ne vuoi sapere? ●

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