Quando Matt mi ha chiamato “mamma”

Cuore
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Non so come abbia potuto dirmi «mamma». Né dove abbia imparato questa parola. Di certo lui è stato mio figlio

Che non si è mamma soltanto mettendo al mondo un figlio, l’ho sempre pensato, e non tanto perché non avrei potuto. Era una sensazione viva dentro di me, anche se non provata, finché la foto di Matt, un neonato indiano abbandonato a poche ore di vita in una discarica, me ne ha dato l’occasione. Sì, perché non solo l’ho adottato a distanza, ma non ho potuto fare a meno di incontrarlo.

Appena arrivata a Daddy’s Home (nell’Andhra Pradesh, India centro-orientale), la struttura della onlus Care&Share che lo ospitava, dopo un viaggio di otto ore in macchina da Hyderabad dov’ero sbarcata dopo altrettante ore di volo, non avevo ancora scaricato il bagaglio, che una delle mamy della nursery a sorpresa me lo ha portato.

A quel punto Matt aveva diciotto mesi e lo sguardo antico, già consapevole, struggente che vedete nella fotografia. Con quello sguardo mi ha trafitto e poi ha iniziato a piangere come un disperato, attaccato al collo della mamy. Aveva evidentemente capito che quella strana donna troppo alta, troppo bionda, troppo incantata a guardarlo era lì per lui, ma per quale motivo? Doveva essere terrorizzato.

Totalmente travolta da uno tsunami di emozioni e preoccupata da un primo approccio così sbagliato, ho detto di riportarlo alla nursery. Mi sarei fatta vedere più tardi in mezzo a tutti i bambini, per far sì che, nella settimana prevista di permanenza nella struttura, la mia presenza gli diventasse piano piano consueta.

E così ho fatto. Entravo nel grande box dei bebè e giocavo ora con l’uno ora con l’altro senza degnare Matt di uno sguardo diretto. Lui però mi spiava, sembrava tenermi sott’occhio, e quando me ne accorgevo gli sorridevo, ma non mi avvicinavo.

Che fatica trattenermi dall’abbracciarlo… I primi due giorni sono andati così, “a giusta distanza”, mentre ad attaccarsi a me è stata una bambina appena operata al cuore che voleva starmi sempre in braccio.

Prima di continuare, devo premettere che Matt e i suoi piccoli compagni, non parlavano nessuna lingua: né Indu né Inglese. Troppo piccini e troppo poco sollecitati se non dalle mamy (che parlavano Indu) il cui lavoro prioritario era l’accudimento dei neonati. Quindi, io parlavo loro in inglese ma accompagnandolo con gesti molto italiani per farmi intendere.

Ed eccoci al dunque: il terzo giorno, arrivata alla nursery, non ho visto Matt tra i bimbi. La piccola, invece, mi stava già aspettando per saltarmi al collo. Ero un po’ scoraggiata, lo ammetto, ma poi mi son detta che forse era meglio così. Di lì a poco me ne sarei tornata in Italia. Non avrei mai voluto che Matt sentisse la mia mancanza… Anzi, sarebbe stato meglio diradare le visite alla nursery anche per quella bimba che mi si stava attaccando troppo.

Ero in piedi con la piccola in braccio, quando ho sentito dal basso qualcosa afferrarmi per i pantaloni.

Era Matt, letteralmente appeso con le mani alla mia gamba. E poi la bomba. «Mamma», mi ha detto con gli occhi accesi fissi nei miei. Aveva deciso. Aveva capito. Aveva sentito. Ma come ha potuto chiamarmi “mamma”? Una parola mai espressa in italiano nella nursery di Daddy’s Home e, soprattutto, mai usata a sproposito?

Non lo saprò mai, ma da quel momento fino alla mia partenza per l’Italia non ci siamo più lasciati. E questa è un’altra, bellissima storia.

Matt è l’unico bambino ad avermi chiamata “mamma” (che è anche l’unica parola che mi ha detto) e ad aver riconosciuto dentro di me non solo il desiderio, ma la reale possibilità di esserlo.

Nel numero in edicola, nella storia di Barbara T. raccolta da Jolanda Pergreffi a pagina 60, troverete emozioni simili alle mie, con la variante sostanziale che nel mio caso sono stata mamma soltanto una settimana (Matt è stato poi adottato da una famiglia indiana).

Un tempo più che sufficiente, ve lo garantisco, per definirla l’esperienza più straordinaria della mia vita.

 

 

 

 

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