Senza luce

Cuore
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È stata la storia più votata del numero 41. Da oggi potete rileggerla sul blog

 

 

L’amore è stato a lungo un lusso che non potevo permettermi. Finché è arrivato Lorenzo, ha preso la donna spenta e grigia che ero e per una notte l’ha fatta brillare come una stella, scacciando tutte le ombre. Ora sono pronta ad amare in modo completo 

 

Storia vera di Donata s. Raccolta da Elena Vesnaver

I miei genitori non li ho mai conosciuti. Ho un ricordo di mia madre, ma così vago, trasparente, che non so se quel viso che si china verso di me sia vero o una fantasia. In ogni caso, la donna che mi sorride in questo ricordo ha i capelli neri e gli occhi chiari, le labbra fresche contro la mia guancia. Basta. Finisce qui. Però assomiglia tanto alla foto sdrucita che mi sono portata dietro in tutti i posti dove sono stata e che mi hanno detto che era in mezzo alle sole cose che possedevo: una catenina con la medaglia della Madonna, Piccole donne in edizione economica, una sveglia di Topolino e quella foto con i colori tutti virati verso il verde; la mamma lì rideva e mi teneva in braccio come in trionfo, come se fossi la cosa più bella del mondo, chissà cosa è successo poi.

La cruda realtà è che sono finita in istituto e poi in affido, non mi ricordo neanche quante famiglie ho passato. Brave persone, per carità, ma alla fine me ne andavo sempre, io, con il libro di Piccole donne e la foto di mamma. È stato un sollievo compiere 18 anni e non dover più rendere conto a nessuno, poter decidere per me senza chiedere il permesso, perché io le idee chiare le avevo da un bel po’.

Prima cosa, trovarmi un lavoro, uno qualsiasi e un posto per dormire, serio e pulito, non avevo esigenze grandiose, poi mangiare quel che bastava per non svenire, un posto economico per scovare qualche vestito adatto e niente altro. Be’, la catenina con la Madonna l’ho venduta per permettermi queste cose e due lire mi sono avanzate per poter dire di aver cominciato a risparmiare. Era bello avere qualcosa da parte, mi faceva sentire sicura.

Il lavoro. Quella era la mia spina nel fianco, la mia prima preoccupazione ed è con il cuore in gola che sono andata in un’agenzia di viaggi per un annuncio che avevo letto per caso sul giornale. Quasi mi sono messa a piangere quando mi hanno presa, non ci credevo, che se ne facevano di una ragazzetta senza esperienza come me?

Per un anno non ho fatto altro che battere a macchina le schede dei clienti e dei viaggi che facevano, nemmeno sapevo dov’erano quei posti, non avevo idea di come potevano essere, così li immaginavo a modo mio e inventavo delle facce, anche, per quei mille e mille nomi. Intanto mi ero iscritta a un corso d’inglese e passavo le domeniche a lavare e sistemare le mie tre uniche gonne e due camicette, a ripetere le lezioni in quella stanzetta che ero riuscita ad affittare. Non entrava mai la luce lì, nemmeno in estate, ma a me sembrava magnifica, come erano magnifiche le mie cene a pane e burro. Ero libera e avevo un futuro, di cosa altro potevo avere bisogno?

Qualche angelo custode deve avermi tenuto una mano sulla testa, perché a un certo punto il titolare dell’agenzia mi ha fatto lasciare la macchina per scrivere, mi ha dato una scrivania, un telefono e un mucchio di dépliant da far vedere alla gente.

«L’inglese lo sai, impara anche a sorridere e sei a posto».

Con il nuovo stipendio ho potuto affittare un microscopico appartamento, studiare prima il francese e dopo il tedesco, ho imparato a vestirmi meglio, a non aver paura delle persone che incontravo, ho imparato moltissime cose, ma sorridere… continuava a non riuscirmi tanto facile, non viene il sorriso se non hai mai avuto niente per cui valesse la pena. Come per i vestiti: potevo comprarmi quello che volevo, ormai, ma continuavo a scegliere tailleur grigi e bluse color pastello.

Il destino è come il nome che ti danno quando vieni al mondo, ti si appiccica addosso e buona notte e il mio nome, poi, è buffo: Donata. Donata a chi? Vorrei saperlo.

“Intanto a me” sbufferebbe il mio capo, se mi sentisse. “Che se non ci fosse lei, chi manderebbe avanti l’ufficio?”.

Caro signor Giovanni, lui sì che è stato un dono del cielo e l’ufficio andrebbe avanti lo stesso, sono tutti bravi, giovani ma bravi e i giovani, ogni tanto, hanno bisogno di una scrollata, tutto qui.

Parlo come se di anni ne avessi cento, lo so e ne ho 45, solo che io non ho mai fatto niente di quello che si fa da ragazzi. Non è che ci sia molto tempo per pensare alle sciocchezze quando sai che in quella casa resterai qualche mese e basta e quindi inutile farsi degli amici, senza contare che nessuno vuole fare amicizia con te. Non c’è tempo, non c’è la possibilità di una vita come quella degli altri. Anche se nessuno è davvero cattivo con te, hai il marchio, quelli che ti hanno messo al mondo non ti hanno voluta, chi altro potrebbe volerti?

Sono troppo vecchia per i miei 45 anni, o troppo giovane, chissà, l’unica cosa certa è che ci sono arrivata vergine a questa età.

E non mi sono mai innamorata. Anche questo era un lusso che non potevo permettermi, proprio come i vestiti colorati e il sorriso e quando avrei potuto vestirmi colorata, sorridere, innamorarmi, me ne era passata la voglia. Oppure, più giusto, non sapevo da che parte cominciare.

Ancora più giusto, ero spaventata a morte. Mettiamo che mi piacesse un uomo, mettiamo che a lui piacessi io, incredibile ma potrebbe succedere, come potrei dirgli che non ho mai fatto l’amore e che non saprei da che parte cominciare?

Meglio lasciar perdere, siamo seri.

 

 

 

Una delle tante cose che lascio perdere, di solito, sono i pranzi aziendali. I colleghi sono tutti simpatici, ma io non sono brava a stare lì, con un bicchiere in mano a fare battute e chiacchierare, però l’ultima volta hanno insistito tutti e alla fine quel sabato che avrei passato tanto volentieri a leggere in poltrona e a caricare una lavatrice, mi sono ritrovata davvero con un bicchiere in mano, cercando di essere cordiale.

«Si annoia anche lei?».

Mi ricordo la mia mano attorno al calice di vino e mi ricordo come lo sconosciuto mi guardava, le mie guance sempre più calde, proprio come il cristallo che stringevo fra le dita. Lui ha sorriso, ha continuato a sorridere finché ho sentito che dovevo farlo anch’io, che non era difficile, perché sorridere insieme a lui era naturale.

Lorenzo era capitato là per caso, trascinato da una mia collega.

«Sono qui per lavoro e Arianna ha deciso che non dovevo passare da solo la giornata, anche se ci sono abituato».

Lorenzo sapeva raccontare, lo sapeva fare così bene che cominciai pure io, dicendogli cose che mai, mai, neppure sotto tortura, avevo mai detto. Niente di che, intendiamoci, ma io parlo poco, si sa e con lui, invece.

A tavola lo hanno fatto sedere di fronte a me e tra una pasta allo scoglio e il secondo che non volevo prendere, non lo prendo mai, mi sono trovata a osservarlo così, senza parere. A cercare di indovinare prima il colore degli occhi, poi a seguire le sue mani, come si muovevano sulla tovaglia tra coltelli, forchette e panini da spezzare e ancora la sua voce, la bocca, che bella, solo gli attori hanno una bocca così e il modo in cui mi guardava.

Perché Lorenzo mi guardava e non come tutti quelli che mi guardano ogni giorno, lui mi guardava come se volesse capire, non so cosa, forse la mia testa, forse quello che ero. Insomma, gli interessavo.

E lui mi piaceva, non sapevo bene dire come e perché, ma mi piaceva.

«Adesso, dove va?» mi chiese mentre ci si salutava e ognuno pareva avere fretta di andare a vivere il suo fine settimana.

Dove andavo? A casa mia, dove altro potevo andare?

Lorenzo aveva altri programmi. Voleva fare un giro in città, passeggiare in centro e più tardi andare a cena in un ristorante che gli avevano consigliato, un bel programma e glielo dissi.

«Vieni con me».

Tre parole, tre parole semplici e piccole, tre parole stupide, ma per me sono state uno scoppio di fuochi d’artificio. Qualcosa di mai sentito, che mi è esploso nel cuore e nella testa. “Vieni con me”. Nessuno aveva mai voluto andare con me da nessuna parte.

Il mio primo pensiero è stato che non sarei andata, non si fa, non si deve, non si può, ma perché no, poi? E chi lo aveva detto? E cosa me ne importava?

Ecco, è andata in questo modo, che per la prima volta in vita mia non mi è importato, né degli altri, né di quella mia testa senza emozioni e senza luce, come quella stanzetta che mi pareva una reggia una volta, perché anche quello che abbiamo amato ci va stretto.

 

 

 

Vieni con me. Certo. Sì. Vengo con te, sicuro, perché è la sola cosa che è di sicuro sbagliata, ma che mi va di fare.

È stato un pomeriggio, strano, indescrivibile, qualcosa che non avevo mai vissuto.

Siamo andati a spasso per la città, la mia città che conosco bene, eppure sembrava talmente nuova, lucida, una scoperta in ogni angolo, forse perché la guardavo attraverso gli occhi di Lorenzo, forse perché, a un certo punto lui mi ha preso la mano e non me l’ha lasciata più.

Abbiamo cenato a un baracchino in mezzo al parco, un panino pieno di qualcosa di buonissimo e piccante e una birra che mi ha fatto girare la testa e venire da ridere, mentre gli raccontavo chissà che cosa di quando avevo 15 anni e che non mi aveva mai fatto ridere, anzi. Solo che, a ben guardare, era divertente davvero e glielo dissi che lui doveva essere magico, altrimenti non si spiegava.  Lorenzo ha riso, mi ha tirata verso di lui e mi ha baciata.

Per un istante orribile mi sono resa conto che non sapevo come ci si deve comportare, dove mettere le mani, non sapevo come ricambiare quel bacio che mi faceva tremare, ma poi, non so come è successo, non ci ho pensato più, ho lasciato che Lorenzo mi guidasse, che il mio istinto si risvegliasse.

«Anche tu sei magica, se mi fai fare cose del genere».

Ci siamo baciati di nuovo. Ancora, sempre di più.

Sentivo che aveva voglia di me, sarò una vecchia ragazza, ma non sono stupida, solo che dovevo spiegargli, dovevo e come potevo? Da che parte cominciare?

L’ho allontanato quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi.

«Mi piaci da morire» mi ricordo di avergli sussurrato, quasi contro la bocca. «Però io non ho mai… non sono mai stata con un uomo, ecco».

Sarò arrossita a questo punto, credo, ma Lorenzo mi ha baciata di nuovo, difficile rendersi conto di qualcosa con le sue labbra che accarezzavano le mie.

«Sei una perla rara, allora» ha sorriso e l’ho fatto anch’io senza farmi più domande, senza più dubbi.

È stata una notte come non me lo sarei mai immaginato.

Si leggono tante cose, è vero e poi ci sono i film, no? E i racconti delle amiche e quello che tu inventi nella testa, ma niente è uguale a come è veramente, niente riesce a dare la misura di quanto può essere magnifico e unico.

Lorenzo era bello, io ero bella, anche se mi vergognavo tanto e lui lo ha capito e ha saputo farmi passare tutto, la paura, l’imbarazzo, quel nodo in gola che non sapevo cosa potesse essere, ha guidato le mie mani che di nuovo non sapevano dove andare.

«Non c’è fretta» mi sussurrava dentro ai capelli, «nessuna fretta. Dimmi quello che ti piacerebbe».

E io gliel’ho detto e non avrei mai pensato di riuscire a trovare le parole.

È stata una notte piena di stelle, non so se anche in cielo, non l’ho neppure guardato, ma dentro di me sì, tantissime stelle che brillavano e scoppiavano.

«Che occhi che hai».

Allora le avevo anche negli occhi.

Quando mi sono svegliata ed era tardi da come la luce arrivava dalla finestra, Lorenzo non c’era più, se n’era andato, lasciando solo il suo profumo amaro nell’aria e un biglietto sul cuscino: “Grazie”.

Ho passato la domenica a sorridere, mi sembrava giusto farlo per quella nuova me e il mio viso nello specchio, il mio viso che sorrideva così sconosciuto, la mia bocca più rossa e con quegli angoli in su, malandrini. Mi piacevo, ero felice, ero innamorata di questa nuova me stessa piena di luce. La luce, quella che mi era sempre mancata.

Lorenzo non l’ho visto più.

 

 

 

Al lavoro ho sentito qualcuno che parlava di lui, un giorno. Diceva che aveva una moglie, dei problemi, un figlio che lo faceva penare e ho sorriso, ormai mi riesce facile, perché queste cose non me le ha dette, non ne abbiamo avuto il tempo, ma non importava.

Ho voglia di rivederlo? Non lo so, davvero. È stato tutto stupendo, mi ha fatto nascere un’altra volta, ora so cosa vuol dire fare l’amore, farlo sul serio, anche se per una sola notte e allora va bene così, davvero. Rivederlo mi piacerebbe, ma magari no, perché rovinare?

Lorenzo ha cambiato la mia vita. Ha preso una donna ormai spenta, grigia e tranquilla, ha preso me, insomma e mi ha fatta brillare, ha acceso la luce, ha scacciato le ombre, quelle che mi porto dietro da quando sono nata, da quando mamma e papà non mi hanno voluta. Le ombre che c’erano nella mia stanza in affitto, negli appartamenti nei quali ho vissuto, sempre un po’ scuri e senza luce, le ombre dentro di me, quelle che mi sono costantemente portata dietro, un incantesimo proprio, che Lorenzo ha rotto.

Ho conosciuto un altro uomo, qualche tempo fa.

La prima volta l’ho sentito al telefono, un cliente come un altro che chiedeva informazioni per un viaggio in India. Gli ho detto che piacerebbe anche a me andarci, che è sempre stato un mio sogno.

«Potrebbe venire con me, allora e se non proprio in India, magari a prendere un aperitivo».

È cominciata così, tra Marco e me.

Gli è piaciuta la mia voce, dice, dovevo essere per forza favolosa con quella voce da sballo.

Favolosa, io, che ridere.

Dice anche che ho uno splendido sorriso, figuriamoci.

Ieri sera mi ha invitato a cena fuori.

Ci siamo divertiti molto e abbiamo parlato di viaggi, di quelli che ci piacerebbe fare e che insieme sarebbero ancora più belli. Poi abbiamo passeggiato e sentire il suo braccio sulle mie spalle è stato perfetto, magnifico. Gliel’ho detto, ma lui pensa che quella magnifica sia io, che perfetto sia il mio sorriso e stare insieme io e lui, parlare o tacere, come ci pare, come ci pare meglio.

Ci siamo salutati che era tardissimo e lui mi ha dato un bacio leggero, quasi timido.

«Hai talmente tanta luce dentro di te, Donata, che non si può fare altro che amarti».

Ho fatto le scale di casa piano, come in un sogno.

Ho aperto la porta, l’ho richiusa, ho scalciato le scarpe e mi sono affacciata al balcone. La macchina di Marco era ancora giù e lui stava là, appoggiato alla portiera e quando mi ha vista, mi ha fatto un sorriso.

«Vieni su» ho mormorato, tanto piano che nemmeno sapevo se poteva sentirmi.

Mentre aspettavo, ho guardato il cielo. Quante stelle.

E ho mandato un bacio a Lorenzo. ●

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