Gli italiani a casa

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Come si reinventa la vita ai tempi del Coronavirus? È una riscoperta dei rapporti umani, che per fortuna va oltre la tecnologia

 

Ho sentito un esule siriano che diceva a Radio24 “per favore, non chiamatela guerra. Il Coronavirus non è la guerra. È una tremenda sciagura, fa molti morti, ma la guerra è un’altra cosa. Per voi la casa è il riparo, la sicurezza. In guerra sulle case ci buttano le bombe. E voi avete da mangiare. Vi trovate in casa coi bambini, dovete convogliare le loro energie. In guerra i bambini piangono perché muoiono di fame, ti chiedono il cibo e tu non puoi darglielo. Il virus è una tragedia, uccide, distrugge l’economia, ci separa gli uni dagli altri. Ma non è la guerra”.

Che facciamo nelle nostre case? Isolamento e abitazione coatta sono il grande banco di prova per le coppie. C’è chi già si amava poco e nella costrizione esplode, e il vicinato può usufruire di litigate d’inferno come al cinema, solo aguzzando l’orecchio. C’è chi credeva di essere stufo del partner e  invece riscopre che ci si può ancora divertire insieme, e delude i pettegoli con la sua pace amorosa. C’è chi è costretto a vivere col suo persecutore, o chi  si mette a odiare il convivente come se fosse il colpevole della pandemia e della reclusione. L’inquilino del terzo piano urla minacciando la moglie di dare fuoco alla casa, e tutti sperano che sia un’esagerazione.

Ma perlopiù è il trionfo del rapporto virtuale, uno scambio forsennato di video, mi scrive un amico: “passo le serate a fare call con 900 amici, tentando inutilmente si parlare d’altro, ma alla fine torni sempre lì, esorcizzare la paura che accumuliamo durante il giorno. Ma quella Skype corale è  tutto ciò che ci resta da fare. Mi sento molto fortunato a stare in casa con Francesca, è fra le cose che non ci fa uscire di senno. Ma appena ci distraiamo e ci dimentichiamo di amarci, ci riprende il panico e finiamo per ascoltare le notizie. È il momento peggiore”.

Non ho elementi per un quadro sociologico, sono troppo arretrata con le comunicazioni, disponendo solo di un Nokia e di un vecchio pc, e non mi posso documentare adeguatamente. Il solo campione a mia disposizione è il quartiere, unica porzione di mondo che mi è dato vedere portando fuori il cane, o andando a procurarmi il necessario (dicono bene, non uscite: ma se mi serve una medicina me la va a comprare lei, signor ministro?) o guardando dalla finestra la vita degli altri, come nel giallo di Hitchkock, La finestra sul cortile, dove James Stewart è immobilizzato con una gamba rotta e sta sempre dietro le persiane a farsi gli affari degli altri, scoprendo intrighi e delitti. Io invece da qui vedo solo cose di pace, tafferugli bonari da commedia all’italiana, e noto un ritorno all’antico. Dietro mascherine e occhiali ci si saluta anche se non ci si conosce. Perfino le anime più buie e i più drogati di social scoprono di avere dei libri in casa, e il tempo per leggerli. Molti rispolverano I promessi sposi, specie i capitoli 31 e 32 dove si parla della peste di Milano, e in confronto si sentono fortunati.

Tornano i lavori con carta forbici e colla, i miei piccoli vicini mi hanno chiamato dal balcone per mostrarmi il teatrino che avevano fabbricato col cartone. Mancando del materiale per le marionette, volevano far recitare il gatto, che al primo tentativo di travestimento è scappato in strada. Il papà è corso a riprenderlo. È stato fermato da un carabiniere, che dopo un brusco inizio ha riconosciuto come giusto motivo di uscita la fuga del gatto, e ha aiutato il papà a snidarlo da sotto la macchina dove si era rifugiato. Sono stati graffiati entrambi.

La signora che abita all’attico, di natura sospettosa ed egoista, ha capito da subito che il rischio sarebbe stata la mancanza di materie prime, e ha fatto un bell’orto in terrazza. Ora non pensa ad altro. Monta la guardia contro gli uccelli che vengono a beccare, armata di racchetta, con un feroce sentimento del territorio da signorotto medievale. Ha eretto una rete sormontata da filo spinato fra la sua terrazza e quella comune dove si va a stendere i panni, un tocco da trincea della guerra del 15-18. Si è punta col filo spinato e ha fatto una piazzata dall’alto ai condòmini, dando la colpa a loro. Fra le strida si capiva che se i condòmini fossero stati più affidabili, non sarebbe stata costretta a installare la sua trincea ortofrutticola.

Come prima dell’invenzione del telefono, ci si parla dalle finestre. Un amico del quartiere, sincero esibizionista, che esce solo per andare in farmacia, al ritorno chiama dalla strada i conoscenti che si affacciano, raccontando i fatti suoi, anche intimi, e tutto il vicinato può goderne.

Gli amici chiamano per coinvolgermi in messaggi video, ma la mia attrezzatura arcaica non lo permette. Attraverso di loro però vado scoprendo attività meravigliose: il geniale Carlo Antonelli mi ha fatto partecipare al telefono come narratrice di fiabe alle lezioni degli allievi della scuola elementare Francesco Crispi di Roma. Attraverso un broadcasting, gli allievi sono tutti in collegamento video e si vedono fra loro, come se fossero insieme in classe. Si chiama Doposcuola wow, i bambini assistono alle lezioni, intervenendo e commentando, con una vivezza e un senso del reale e del sogno che fa sperare bene per il futuro. Il loro, almeno. Mentre noi vecchi raccogliamo ciò che abbiamo seminato: lo sviluppo selvaggio volto al guadagno, col danaro come unico dio- e ci vuole una catastrofe sanitaria come questa, e un milione di morti, per ricordarci che la vita vale ancora qualcosa.

Confidenze