I soldi dei vecchi, ovvero la silver economy

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È giusto che i nonni diano una mano ai nipoti, ma la vera ricchezza da trasmettere è la loro esperienza. Invece sono diventati una risorsa finanziaria in un Paese che ha buttato via i giovani

C’è una grande euforia nella comunicazione sulla silver economy, cioè sui soldi dei vecchi. Se ne fa un gran parlare,  tv, giornali, rete, pare che  il contributo dei nonni nel sostenere figli e nipoti sia davvero molto importante. I vecchi sono “motore  di sviluppo”,  aiutano coi bambini, e se non possono di persona pagano le babysitter. Tanto che la politica pensa di potenziare la sanità, per tenere in piedi questi bancomat vetusti, così utili, così attivi, così convenienti per  un appoggio finanziario.

Come vecchia, tutto questo mi allarma: ma allora, se non paghiamo più, ci buttano nel cassonetto? Ci negano le cure mediche?

Mi allarma dover dare una ragione sociale per giustificare la mia esistenza. Vorrei sommessamente rivendicare il diritto di essere viva sebbene vecchia.

È certo utile e lodevole che i nonni diano una mano coi nipoti, di persona o finanziando la custodia dei piccoli, e regalando ai figli la cosa più preziosa, il tempo. E facendo quello che lo Stato non fa, sostenere la minoranza che ha il coraggio di figliare in un Paese che si sta spopolando. Però questo rovesciamento degli usi è terrificante, contro natura. Finora erano i figli a supportare i genitori. I mezzi di sostentamento erano in mano ai giovani.

Se c’è tanto bisogno dell’aiuto economico dei nonni vuol dire che i giovani in Italia li abbiamo buttati dalla finestra, e con essi la coscienza dell’emergenza demografica.

In questo sistema paradossale, non solo i vecchi hanno più soldi, ma spesso i nonni lavorano e i nipoti sono disoccupati.

Comunque: gradiremmo che non si parlasse più di noi come di una risorsa finanziaria, e basta. Noi siamo la memoria. E i cantastorie. Quando ero piccola, i nonni al massimo ti allentavano i soldi per il cinema o il gelato, ma la loro funzione era soprattutto la trasmissione dell’esperienza, con racconti, aneddoti, leggende, e attraverso di essi, l’eredità di quelli che allora si chiamavano valori e che oggi vengono derisi e chiamati buonismo. Non che si praticassero tanto più di adesso, non era mica l’età dell’oro, ma almeno si riconoscevano come tali, erano la base della civiltà.

Sarebbe bello se oltre alla funzione di salvadanai i nonni ridiventassero i testimoni di un tempo diverso- oggi che c’è l’istinto mondiale di tornare alla clava, e la bestialità sta diventando regola e abitudine-  quando esisteva una cosa bellissima che si chiamava decoro, prima dei like, quando si faceva l’amore per farlo, e non per postarlo.

Spero che i nonni, in questa grande vergogna dell’Italia ( che la senatrice Liliana Segre, scampata ai lager nazisti, debba girare con la scorta perché minacciata di morte in quanto ebrea), abbiano saputo spiegare ai nipoti cos’era l’Italia del dopoguerra, nella quale sono cresciuti, camminando sulle macerie: un Paese distrutto dalla follia totalitaria, e cos’è stato lo sterminio degli ebrei perché ebrei.

I nonni dovrebbero ammaestrare, non mantenere. Nel mondo ideale che sogno a occhi chiusi, i giovani hanno la dignità del lavoro, e i vecchi smettono di essere motore economico, importanti per il pil, e ridiventano  affabulatori, compagni di gioco, maestri.

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