Alla fonte delle parole di Andrea Marcolongo

Mondo
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99 etimologie che ci parlano di noi perché le parole sono un modo per collegare noi stessi al mondo

Caos e confusione. Nominare la realtà significa sottrarsi alla confusione. Fin dalla prima parola pronunciata dall’essere umano nella storia del linguaggio, l’atto di apporre al mondo dei significanti – delle forme espressive per dirlo – serve a far emergere dal caos il suo significato, il suo reale contenuto. Un atto, questo, innanzitutto intellettuale: prima ancora di plasmarla a parole, attraverso suoni o segni grafici, è nel pensiero che la realtà prende forma e consistenza. Soltanto se pensiamo – se siamo disposti a pensare – il reale, allora esso inizierà a modellarsi, venendo alla luce dal groviglio indefinito delle sole percezioni e trasformandosi in idee. Subito dopo giungono le parole, l’antidoto per non farci sommergere dal disordine del nostro privato sentire. Ogni uomo percepisce la realtà che lo circonda in modo unico, insostituibile. È nello scegliere un nome per dirlo, tra tante e tante possibilità offerte dal linguaggio, che una porzione del reale viene sottratta al magma dell’anonimia. Apporre quindi delle etichette linguistiche al caos è il primo rimedio per fare ordine dentro noi stessi: è fondamentale conoscere non tanto la forma di ciò che si sta cercando, ma dove poterlo trovare. Come accade per i libri di una biblioteca o per gli oggetti in un armadio, le parole sono il nostro modo di indicizzare, di catalogare l’universo. Di apporre alla realtà dei segnali, costruendo così una mappa di lemmi per non smarrirci. Senza parole, non rimarrebbe che l’affanno di cercarci all’interno della realtà alla cieca, e per goffi tentativi. L’esito non potrà che essere quello di perderci in un innominabile e doloroso spaesamento, risucchiati in un silenzioso gorgo”. 

99 etimologie che ci parlano di noi. Questo è il titolo di appoggio del testo della Marcolongo che vi consiglio questa settimana. Io ho cominciato a leggerlo ieri sul treno che da Roma mi riportava a Milano e mentre mi facevo trasportare dal vagone sulle rotaie venivo nello stesso tempo trascinata con sapiente ritmo all’interno e nel profondo del significato delle parole scelte dall’autrice. Anche per noi lettori forti è un tempo nuovo, un tempo che esprime se stesso attraverso l’immediatezza dell’immagine catturata in uno smartphone e poi condivisa in un social. Ho scattato la foto che ritraeva la copertina del libro e ho scritto di getto: I treni hanno una funzione. La stessa delle parole. Collegano distanze. Ed è verissimo. I treni avvicinano i luoghi tenendo ben salde le peculiarità, i tratti distintivi, di ognuno e conservando il senso dello spostamento, il ruolo dei passaggi. Le parole collegano quello che si agita nell’animo dell’uomo al luogo di appartenenza, alla cultura che lo culla fin dalla nascita. La parola è un latte che nutre e rinforza la struttura ossea del pensiero e del collegamento di questo con quanto lo circonda.

Nell’incipit la Marcolongo cita Elena Ferrante, che nell’Invenzione occasionale scrive: “Le parole, la grammatica, la sintassi sono uno scalpello che scolpisce il pensiero”. E sempre nell’incipit si cita lo studio dell’antropologo Robert Levy condotto a Tahiti. Quale poteva essere il motivo alla base del numero spropositato di suicidi che si verificavano tra i suoi abitanti? Levy scoprì che nella lingua tahitiaca, pur ricchissima, mancavano parole per esprimere il mal d’anima. Questo portava uomini e donne, soffocati da qualcosa che non aveva nome, a togliersi la vita. Allora ecco l’importanza di recuperare i significati, le radici, gli etimi: le parole, non utilizzate a caso, ci collegano con quanto di più distante esista. Ci collegano con noi stessi e con il nostro mondo.

 

Andrea Marcolongo, Alla fonte delle parole, Mondadori

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