Madri e figlie davanti alla violenza

Mondo
Ascolta la storia

Il caso dell'imprenditore Alberto Genovese ci fa riflettere su quanto possiamo fare da genitori nell'educare i figli al rispetto degli altri e di se stessi

Della vicenda di Alberto Genovese, l’imprenditore accusato di aver abusato di un diciottenne nel suo attico milanese, si sta occupando la magistratura e a mano a mano che i giornali pubblicano stralci delle deposizioni, ne esce un quadro sempre più agghiacciante e inquietante (la droga usata per sedare le ragazze, una seconda giovane di 23 anni che accusa Genovese di violenza sessuale consumatasi a Ibiza l’estate scorsa, alla presenza della fidanzata dell’imprenditore). Insomma sembra una discesa agli inferi nelle umane perversioni.

Confesso che quando è venuta fuori la notizia, la prima cosa che ho pensato un po’ egoisticamente è stato: meno male che non ho una figlia femmina, perché come mamma di un’adolescente che si affaccia alla vita, sarei angosciata al solo pensiero che possa finire in un giro di persone simili e davanti a episodi come questi, non saprei davvero come muovermi, quali consigli darle se non quello scontato di stare a casa ed evitare di andare a feste con sconosciuti. Poi però, da madre di figlio maschio, ho fatto anche una riflessione sulla responsabilità educativa che abbiamo noi genitori nel trasmettere certi principi e una certa idea della donna che non sia quella di una creatura dipendente in tutto e per tutto dall’uomo né tanto meno di un oggetto sessuale con cui divertirsi.

Non conosco la signora Genovese né la famiglia e quindi non posso esprimere giudizi, immagino anche come possa sentirsi in queste ore ma più di tutto immagino come possa sentirsi la madre della ragazza violentata nell’attico milanese, la diciottenne su cui Genovese ha infierito con una violenza tale da far dire alla dottoressa del “Soccorso Violenza Sessuale e Domestica” della clinica Mangiagalli di Milano, che l’ha curata che “ in tanti anni non mi era mai capitato di vedere qualcosa di così cruento”.

Del tema parla su Confidenze Maria Rita Parsi, psicoterapeuta, nell’articolo Alla madre di una vittima di violenza dove risponde a una donna che ha vissuto un’esperienza simile con la figlia, consigliandole di starle vicino con l’aiuto di una terapeuta che possa assistere entrambe.

In questi casi infatti ci si sente doppiamente ferite: come donne e come madri per non aver saputo proteggere una giovane vita che si affaccia al mondo degli uomini. Pochi giorni fa leggevo sul Corriere della Sera la lettera della mamma di Noemi Durini, 16 anni, uccisa dal fidanzato. Il suo era un grido di dolore perché il ragazzo che le ha portato via sua figlia, oltre ad aver avuto una pena ridotta a soli 18 anni di detenzione, ha chiesto e ottenuto dei permessi per lavorare fuori dal carcere. Già perché purtroppo queste vicende, per quanto cruente, con il tempo si dimenticano e quando escono dal cono di luce dell’opinione pubblica finiscono per essere edulcorate anche nella aule dei tribunali.

Nel caso dell’imprenditore Genovese c’è tutto un mondo che ruota intorno fatto di feste Vip, droga che viene consumata a fiumi, ragazze forse attratte dalla prospettiva di entrare in un certo giro di conoscenze importanti, divertimenti facili e gratuiti. Magari questa ragazza, una modella pare, avrà messo anche in conto che la serata potesse concludersi in altro modo, ma non certo da grand guignol com’è stato.

Ecco, se io fossi la mamma di una ragazza giovane che si affaccia alla vita e al mondo degli uomini le direi di tenere a mente solo una cosa: che la violenza è trasversale, non conosce ceto sociale, né cultura, né età.

Uno si immagina che un giovane uomo come Genovese, arrivato all’apice del successo con le sue forze nel vivace settore delle start up di Internet non possa certo coincidere con l’identikit del predatore sessuale stile vecchio magnate bavoso; si immagina un ragazzo sveglio, abituato a frequentare mondi giovani ed emancipati dove tante donne lavorano e sono indipendenti. E invece scopriamo che ha trattato questa ragazza come un oggetto sessuale, una bambola di pezza e a quanto sembra è solo l’ultimo di una serie di infiniti di casi.

Donne esposte come trofei di caccia, né più né meno che come corpi da collezionare e far vedere poi agli amici nelle tante foto scambiate sul cellulare. E tutto questo nell’omertà più assoluta, delle vittime in primis, che hanno taciuto fino a quando questa ragazza non ha sporto denuncia per prima, e della corte di pseudo-amici che lungi dal mettere in guardia Genovese sulla deriva di certi suoi comportamenti, hanno taciuto, ben sapendo cosa accadeva nelle famose feste sulla “Terrazza Sentimento”.

Ma più di tutto fa male leggere che una donna, la compagna dell’imprenditore, sia stata complice se non lei stessa artefice di questa violenza, una sconfitta per tutte che ci deve far riflettere.

Confidenze