Nel nido vuoto

Cuore
Ascolta la storia

Riproponiamo nel blog una delle storie vere più apprezzate del n. 48

 

Mio figlio si trasferisce in un’altra città per frequentare l’università. Cosa farò adesso che non devo più prendermi cura di lui? Poi mi ricordo cosa diceva mia madre e decido di non darla vinta alla malinconia

STORIA VERA DI LUCIANA S. RACCOLTA DA GIOVANNA SICA

 

«Pure le foto stacchi dal muro?» dico.

«Non tutte, solo alcune, le voglio appendere nella mia nuova stanza. Ti lamenti sempre che non le spolvero mai, adesso non ti sta bene che le tolgo? Che te ne frega, ma’, di quello che mi porto via? Sono tre ore che mi stai addosso e storci il naso a ogni cosa che metto in valigia».

«Mi piace, quando entro nella tua stanza, vedere le tue cose al loro posto. Le foto esposte me le guardo ogni giorno, quando ti rifaccio il letto» replico.

«Non sono souvenir, cara madre. Sono oggetti funzionali alla mia vita che adesso mi seguiranno all’università. E non fare quella faccia triste, da domani non dovrai più rifarmi il letto. Adesso puoi anche non venirci proprio più nella mia camera, una stanza in meno da pulire, usa il tuo tempo per te, vatti a fare una bella passeggiata».

Usa il tuo tempo per te, già, magari fosse così facile. È vero, mi piaceva tanto passeggiare. Camminare veloce al sorgere del sole aveva il potere di farmi cominciare bene le giornate. Solo che negli anni è diventato sempre più difficile trovare un’ora al giorno da dedicare a me. Prima i figli, Giorgia e Luca, erano piccoli, e appena uscivo dal lavoro mi precipitavo da loro per portarli al parco. Mi sentivo così in colpa: passavo parecchie ore in ufficio, quindi appena timbravo avevo un solo pensiero: correre dai miei bambini e tenerli qualche ora all’aria aperta a giocare. Una volta a casa c’era da fargli il bagnetto, inventarsi la cena che doveva essere sana, per- ché se arrostivo surgelati nel fornetto, poi pure di quello mi sentivo in colpa. Già, penso di aver passato gran parte della mia vita a sentirmi in colpa! Mio padre si lamentava perché andavo a fargli visita raramente, mia suocera perché la domenica non pranzavamo da lei. Mia madre, invece, è stata l’unica persona che mi ha aiutato senza farmelo mai pesare. Giorgia e Luca me li andava a prendere lei all’asilo, poi li teneva a casa sua fino a che io non tornavo dal lavoro.

Gianni, mio marito, ha sempre fatto più tardi di me in ufficio, quindi il carico della famiglia era tutto sulle mie spalle.

Mi illudevo che con l’adolescenza, con i figli autonomamente impegnati nelle loro attività, avrei avuto un po’ più di tempo per me, ma non è andata affatto così. Ben presto mi resi conto che i ragazzi andavano seguiti ancor più di quando erano piccoli. Nuove frequentazioni. I primi amori. E tutti i pericoli di Internet, quindi controlli e liti per le limitazioni che loro contestavano. Poi, prima Giorgia e dopo Luca, hanno cominciato a uscire la sera, bisognava accompagnarli o andarli a riprendere, a volte anche molto tardi. Ma pure se andava qualche altro genitore, di certo non riuscivo a dormire fino a che non tornavano.

Di conseguenza, le mie passeggiate sono diventate sempre più delle chimere: la mattina non ce la facevo a svegliarmi alle cinque, visto che non andavo mai a letto prima di mezzanotte. E dopo l’ufficio, anche se non dovevo più correre al parco per far giocare i miei figli all’aperto, saltava sempre fuori qualcosa da fare. La spesa. La cena. Passare a trovare i miei genitori che vedevo rimpicciolirsi sotto i miei occhi stupiti. Poi, però, succede che le cose cambiano, e non l’avresti mai detto. Succede che quello che ti sembrava un tempo immobile, si muove, si trasforma. E all’improvviso tutta quella folla di persone che avevano bisogno di te sparisce. I genitori si fanno vecchi, muoiono. I figli si fanno grandi, se ne vanno.

Tutto questo a me è successo nell’arco di un lustro, ed è stato molto difficile da elaborare. Cinque anni fa è morto mio padre, l’anno dopo mia figlia se ne andata a lavorare a Londra. Era il suo sogno da quando aveva 13 anni, avrei dovuto aspettar- melo, ma fino alla fine ho sperato fossero solo chiacchiere. Due anni fa è mancata anche mia madre, e lì ho avuto un crollo fortissimo: lei era la mia ancora di salvataggio, l’unica persona al mondo che mi faceva sentire che niente era grave, che tutto si poteva aggiustare. Pure quando le è morto il marito, non si lamentava di essere rimasta sola, perché nessuno le faceva compagnia, no, ha continuato a sorridere a tutti fino all’ultimo dei suoi giorni. L’ultima cosa che mi ha detto è stata: «Luciana, pensa a te». Questa era mia madre, una che non voleva mai che gli altri si preoccupassero per lei. Io mi sono sempre sentita solo figlia sua. Mio padre è sempre stato una figura vaga, uno che stava lì, al suo posto, con le sue idee, ma non è che potevi parlargli delle tue cose o chiedere un consiglio. Almeno, io non ci sono mai riuscita, e da quel che so, nemmeno mio fratello.

E oggi, in questo inizio di ottobre assolato che pare ancora piena estate, mio figlio sta facendo la valigia per trasferirsi in un’altra regione, parecchio lontana da quella in cui viviamo noi, dove frequenterà l’università. Io, per quel che potuto, ho cercato di fargli cambiare idea, di trattenere qui con me almeno lui, almeno qualche altro anno. Poi, quando ho visto che era determinato a spiccare il volo, ho fatto un passo indietro. Ogni oggetto che mette via me lo sento strappare dal cuore. La playstation. I manga. Il tappetino per allenarsi. Le foto da cui mi sorrideva, ogni giorno, abbracciato ai suoi amici che ho visto crescere assieme a lui. Le felpe tutte nere su cui cambiano solo le scritte. L’unica camicia presente nel suo armadio, il solo indumento che stiro con rigore quasi scientifico, sugli altri panni ci passo sopra il ferro da stiro in volata. E adesso, chi gli stirerà? Chi gli farà da mangiare? Ho il terrore che fuori di casa Luca si nutrirà solo di schifezze, che non dormirà abbastanza, che…

La verità è che non so cosa farò, adesso che non ci sarà più nemmeno lui di cui prendermi cura. Adesso che il nido è vuoto e nessuno ha più bisogno di me. Cerco di ricordarmi che anelavo proprio a questo, a riprendermi il mio tempo, poter pensare a me. Ricordo che con Gianni fantasticavamo sul giorno in cui saremmo stati di nuovo solo io e lui, come da fidanzati, e avremmo potuto fare tutto quello che volevamo. Cenette a lume di candela, weekend fuori, viaggi pensati per noi, per soddisfare i nostri desideri. E se adesso non ne avessimo più voglia? Com’è beffarda a volte la vita. Ti dà quello che hai desiderato intensamente quando non ti interessa più. Mi sforzo di pensare alle cose che volevo fare, provo a stendere una lista, ma il foglio rimane bianco. E anche camminare, un tempo la cosa che di più mi faceva stare bene, è diventato faticoso. Non ho più il passo leggero e veloce di quando avevo i minuti contati. Adesso, quando esco, non vedo l’ora di tornarmene a casa. Forse è solo un periodo. Sicuramente i due pesanti lutti subiti in questi anni hanno amplificato il peso che ho dato alle partenze dei miei figli. Comunque, non intendo darla vinta alla malinconia a 53 anni; tantomeno intendo andare a ripescare i dvd di quando erano piccoli i ragazzi e i miei genitori ancora vivi, perché, anche volendo, non ho più il lettore. Domani proporrò a mio marito di andare a mangiare in quel ristorantino sulla spiaggia, quello che ci arrivi via mare oppure sfidando 200 scalini. Ho sempre adorato quel posto, e anche gli spaghetti con le vongole che prendevamo lì, con un vino bianco fresco. Poi, coi figli piccoli non era facile arrivarci, coi figli grandi non potevamo allontanarci perché all’improvviso chiamavano per farsi andare a prendere da qualche parte… Adesso non ho più scuse per rimandare ancora una cosa che mi piacerebbe fare. Adesso è davvero tempo di pen- sare a me, come mi ha consigliato mia mamma, l’ultima volta che ha avuto voce per parlarmi. ●

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Confidenze