Il Carletto di Amalia Casati

ConfyLab
Ascolta la storia

L’autrice si presenta: Amalia Casati. Vivo in Francia, a Nizza, e che questo è un racconto di vita vissuta… tanti anni fa, quando ero una ragazzina brianzola innocente 

 

Avevo 19 anni nel 1958, lavoravo come segretaria a Milano; ero una delle numerose pendolari che arrivavano da tutti i paesotti dell’hinterland, con la corriera, il treno, gli autobus.

C’era lavoro per tutti; i più svegli e intraprendenti si mettevano in proprio ed era tutto un fiorire di piccoli capannoni, di dittarelle, spesso si lavorava in famiglia, cugini e nipoti compresi. Nell’aria c’era odore di soldi, ma sopratutto si era appassionatamente coscienti di far parte di un tutto, di tendere verso uno scopo, forse di formare una nazione, dopo i disastri della guerra. Non a torto quel periodo venne chiamato “il miracolo economico”. Milano e la Lombardia tiravano verso l’alto tutto il resto della nazione, e noi ne facevamo intensamente parte.

Quell’anno, il governo decretò che l’orario legale di lavoro sarebbe stato di 44 ore, pagate 48: Il giubilo fu grande, ma – c’è sempre un ma – per i pendolari ci furono delle difficoltà. Se i treni del pomeriggio esistevano sempre, le corriere che portavano dal capoluogo ai paeselli rimasero per quasi un anno ferme e rigide nel loro orario: ossia alle venti e quindici. Si finiva dunque a mezzogiorno, come fare per tornare a casa? Quattro chilometri non erano pochi, anche se eravamo giovani, in buona salute, ottimiste.

La soluzione dunque si affidava alle nostre gambette, si tornava a piedi; e ci trovammo così a essere una combriccola di ragazze allegre, che verso le due e mezza del pomeriggio del sabato si riversavano fuori dalla stazione di C** e, spesso a braccetto, se ne tornavano a casa spensieratamente. C’era la Teresina del Gaggin, la Carolina dei Nespoli, l’Antonietta dei Terruzzi e, solo povero maschio in mezzo alle garrule, il Carletto del Fattur, l’intendente del Marchese che possedeva tutta la terra intorno al paese, vale a dire quasi una celebrità.

Il nostro era un paesotto come tanti in Brianza,  dove esisteva una fabbrica che impiegava tutta la mano d’opera locale, cinquecento persone. I giovani, invece, trovavano lavoro in città, a costo di un lungo tragitto, corriera, poi il treno, poi gli autobus o i tram cittadini. Si partiva alle sei e mezza di mattina per tornare alle nove di sera.

Sulla strada si parlava del più e del meno, ci si raccontava delle piccole meschinerie sul lavoro, ci si rallegrava pensando ai piccoli umili piaceri della domenica incombente, si sussurravano gli ultimi pettegolezzi del paese, il cammino ci sembrava breve.

A metà percorso avevamo l’abitudine di soffermarci in un boschetto di pini, giù per una piccola scarpata in fondo alla quale sgorgava una sorgente sempre fresca e chiara, ci si dissetava mentre le farfalle svolazzavano tutt’intorno, le rondini sfrecciavano stridendo nel cielo blu, qualche lucertola si nascondeva sotto le radici, l’ombra del boschetto era cosi’ rinfrescante e la vita ci pareva facile e luminosa. Spesso, ora che sono una vecchia donna, ripenso a quei momenti, con immutata gioia e rimpianto.

Un pomeriggio, non ricordo più il perché, ci trovammo soli soletti, il Carletto e io, per fare la strada. Era in giovanotto di un paio d’anni più vecchio di me, ci conoscevamo fin dalle elementari, non c’era nessun imbarazzo. Diversamente da noi ragazze, che venivamo da famiglie molto numerose, era figlio unico, aveva trovato un buon impiego in una banca milanese e i suoi, come si suol dire in Brianza “stavano bene”.

Carletto era alto e magro, con un promettente inizio di calvizie; si diceva di lui che era stato “cresciuto nella bambagia”, e il fatto che gli mancassero alcuni denti si spiegava così: la paura del dentista, forse. Sua madre “la Fattora” era un donnone che ci incuteva rispetto e che vegliava sul suo pargolo come una chioccia, nel timore che qualche malafemmina glielo portasse via. Senza essere timido, Carletto mancava di quella dote che consiste a ispirare simpatia.

Si andava di buon passo quando, fermandoci alla fontana, tutt’ad un tratto, a bruciapelo, mi chiese: «Senti un po’, Marietta, ma tu quanto guadagni?»

In Brianza nessuno si offenderebbe per una domanda così diretta, da sempre i Brianzoli hanno un rapporto molto sano con “i danéé”, eravamo orgogliosi, al ventisette del mese, nel portare a casa, intatta, la busta-paga piena di bei soldi in contanti che consegnavamo alla Reggiura (la Mamma); e così, sorridendo, gli risposi senza remore: «Sessantamila, più la tredicesima! E tu?».

Senza rispondermi, aggrottò le sopracciglia, riflettendo intensamente. Potevo quasi vedere, dietro l’ampia fronte (ampia per via della calvizie, s’intende!)  gli ingranaggi del suo cervello di contabile, che ruotavano freneticamente. Dopo un tempo che mi parve assai lungo, bofonchiò: «Ma te l’immagini, Marietta, se io e te ci sposassimo, che montagna di soldi ci porteremmo a casa?»

La cosa mi parve così buffa che sbottai in una risata squillante, accennando perfino un passettino di danza. Continuammo la strada e io continuavo a ridacchiare, mentre il Carletto – ci pensai dopo – non diceva più niente. Arrivati vicino al paese, presi a sinistra verso la nostra cascina, e lui continuò verso la casa del fattore, salutandoci con un laconico: «Ciao, a lunedì».

Quando venne sera e ci sedemmo tutti davanti al grande tavolo e la Mamma scodellò sul tagliere la polenta fumante; quando ciascuno ne ricevette un bel triangolo, da intingere nella scodella col latte freddo – cena forse parca, ma che durante la guerra ci impedì di aver fame – mi ricordai dell’episodio e intrapresi di raccontarlo spiritosamente.

Con voce bianca, la Mamma chiese: «E che cosa gli hai risposto?».

«Ma niente, mi son fatta una bella risata!»

Si fece un grande silenzio. La Mamma, solitamente di colorito pallido, cominciò a diventar rossa, si alzò e venne dietro la mia sedia, poi battendomi sul cranio con le dure nocche delle dita, con voce sibilante mi urlò: «Stronza! Cretina! Ignorante! Ma non ti sei resa conto che ti chiedeva in sposa?».

«E che ne sapevo io?».

«Tu mi farai morire! Un’occasione come questa! Un impiegato di banca! Il figlio del fattore! Vai via, vai di sopra, vai a letto, non voglio più vederti, sennò faccio uno sproposito!».

I miei fratellini più giovani sgranavano gli occhi, intimoriti; le mie due sorelle più grandi sghinacciavano dandosi di gomito; il povero zio Paolino teneva il naso nella sua scodella e mangiava come se gli dovessero togliere il cibo di bocca. Ho mendicato conforto guardando papà e mi è parso di vedere un’ombra di sorriso sotto i suoi baffi, poi me ne sono andata a letto, rimuginando sull’ingiustizia subita.

Mia Mamma è morta a 102 anni: ora che sono sposata da tantissimi anni in Francia, torno almeno un paio di volte all’anno al paese, che si è ingrandito e dove non conosco quasi più nessuno. Ebbene la mamma trovava sempre il modo per ricordarmi l’occasione sfumata e mi chiamava ancora cretina.

Talvolta rivedo il Carletto, non ha più un solo capello e pochissimi denti, è grassoccio, s’è sposato e ha fatto tanti soldi, effettivamente. Gli capita di cercare di scantonare, quando mi vede da lontano, ma io non lo mollo, mi avvicino a lui e strizzo l’occhio. Lui arrossisce.

Mah, forse mi voleva bene davvero ?

 

 

Confidenze