Una famiglia unita

ConfyLab
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L’autrice si presenta: Mi chiamo Mariarosa “Mary” Miceli e sono nata a Prato (PO) il 10 Agosto 1987. Sono cresciuta a Paola (CS) un paesino della Calabria e mi sono laureata in Ingegneria Civile all’UNICAL di Rende(CS). Attualmente svolgo la mansione di Assistente Amministrativo. A ConfyLab ha affidato la storia vera di suo nonno Francesco

 

Storia vera di Francesco raccolta da Mariarosa Miceli

Vedere queste terre inasprirsi e l’erba crescere mi riempie il cuore di rabbia.
Quest’anno l’estate ci regala una stagione tormentata, le interminabili giornate afose e le improvvise piogge brevi e abbondanti stanno rovinando il raccolto, i pomodori hanno le foglie gialle e i fagiolini raggrinziscono. Al contempo, quest’anno, neanche i fichi sembrano contenti del caldo. Il fico è un frutto che non mi è mai piaciuto, sono frutti appiccicosi e per coglierli e venderli ho imprecato ogni volta, se non riuscivo a venderli subito nelle cassette dopo un giorno sembravano flaccidi e malandati.
Odiosi. Le gambe mi fanno male e le ginocchia sono consumate dagli anni di lavoro nelle gallerie e dai lunghi pascoli fatti nei tardi pomeriggi con qualsiasi tipo di giornata: vento, pioggia, grandine… Ma si sa, l’animale è come l’uomo e deve mangiare tutti i giorni. Intanto bestemmiando dietro a qualche ricordo, rimproverandomi e per fortuna, ogni tanto, anche ridendo, mi gratto il capoccione e mi rifaccio gli occhi guardando la fattoria oggi semivuota, e la casa.

Forse è questo che hanno le mie ginocchia, sono atrofizzate dalla rabbia e dal dispiacere, ho il cuore di un leone e la forza di un coniglio ormai. Ho trascorso la mia vita lavorando come un mulo. Da ragazzino, quando portavo le vacche al pascolo nelle montagne, la sera guardavo le stelle dalla stalla in cui passavo le due notti successive prima di tornare a casa per un giorno, mai avrei immaginato che un giorno sarei stato un vecchio dalle gambe consumate che, poggiato ai piedi di un albero di alloro, si sarebbe riscoperto un po’ più emotivo del solito e un po’ più rassegnato.

Da piccolo ho lasciato presto la scuola e un po’ mi è dispiaciuto, ho studiato fino alla seconda elementare , ho avuto il tempo di imparare un po’ a leggere e fare la mia firma, poi mio padre mi ha mandato al pascolo per le montagne, eravamo una famiglia di contadini e ogni mano era un aiuto in più. Oggi, un bambino di nove anni solo nelle montagne risulterebbe essere una notizia di cronaca da telegiornale, con
tanto di assistenti sociali e opinionisti da salotto che dicono la loro. Le persone della televisione parlano per dare aria alla bocca.
Oggi ho i piedi nascosti negli scarponi, eppure, il mio primo paio di scarpe l’ho avuto a diciotto anni quando sono partito per lavorare a Roma, lo facevano in tanti all’epoca, partire per trovare di meglio, ma la città non mi è mai piaciuta, non ci sono le terre da coltivare e non ci sono campi in cui poter portare gli animali al pascolo, le case sono piccole e ammassate fra loro, e anche se le persone sono tutte vicine non si parla molto e ci si conosce appena. Dopo l’esperienza a Roma sono partito per la Svizzera, lì sarei rimasto volentieri. Della Svizzera mi piaceva l’ordine e la quiete, era organizzata bene e forse in Italia un ordine così non l’avremo mai, e poi le valli erano estese per miglia e miglia ed io immaginavo lì di pascolare una mandria assortita di vacche e capre. L’unico problema della Svizzera sono gli inverni rigidi,
nevica abbondantemente e altrettanto forte e pungente è il freddo, le temperature scendono come qua non è mai successo, non è facile abituarsi a tali temperature. Ero tornato in Italia con l’intento di ripartire con tutta la mia famiglia, ma il destino ha voluto che ci fosse un lavoro ad aspettarmi, così, non sono partito mai più.
Quando mi sono sposato ero un ragazzo di ventisette anni e mia moglie una sposina di quindici anni, il suo vestito era ricamato e impreziosito con dei merletti così da farla sembrare una bambola di porcellana, e dopo cinquant’anni di matrimonio è ancora così: la mia pupa. Quando sono partito per la Svizzera ho lasciato la mia pupa a casa da sola con la nostra prima figlia. Dopo il primo mese di lavoro ho spedito
quasi tutto lo stipendio, oltre che una famiglia avevo lasciato qualche piccolo debito che andava saldato. Ci siamo sposati senza avere nulla, oggi un matrimonio così non lo si riesce neanche a immaginare, e ricordi come i miei sono considerati avvenimenti di storia antica. Abbiamo festeggiato uccidendo un vitello e dalla sera stessa è iniziata la nostra vita insieme, fatta di poche cose semplici, lavoro e doveri. Il
viaggio di nozze era qualcosa di cui non si leggeva neanche nei libri.

Ho lavorato per quasi tutta la mia vita nelle gallerie della ferrovia e quando tornavo a casa mi occupavo degli animali. Ci sono stati anni in cui avevo una trentina di capre e una decina di vacche, la pupa la mattina presto lavorava il latte e preparava ogni ben di Dio da vendere ai vicini: ricotta, mozzarelle e provole. È sempre stata furba, andava di pari passo con le mode di cui si parlava in televisione. Ad esempio, si vedevano in televisione le mozzarelle intrecciate? Intrecciava anche lei. Si pubblicizzava la sfoglia di mozzarella Santa Lucia? Faceva sfoglie anche lei. Non si è mai scoraggiata nel fare nulla, mi sono chiesto spesso come facesse a stare dietro a tutto: dietro a tre figli, alla campagna, agli animali da accudire, a pane e pizze che sfornava alacremente, a dolci e vassoi di pasta fresca o secca. Non avevamo la
possibilità di andare al ristorante ma, a ogni compleanno preparava i dolci e la torta, e si festeggiava. Non si è mai abbattuta per niente e non si è mai smarrita in un momento difficile, nonostante ce ne siano stati tanti, ha sempre gestito lei lo stipendio e le piccole entrate che con i suoi lavori riusciva a ricavare, poco alla volta abbiamo sempre pagato i debiti e continuato a fare progetti, e poco alla volta abbiamo costruito tutto. Ha impiegato tanta di quell’anima nelle azioni che svolgeva da trasmettere passione, ogni volta che accendeva il forno a legna era un giorno di festa, una festa alla quale i figli ancora oggi non hanno voluto rinunciare. Nei giorni che precedono la Pasqua mi promettono di fare loro qualcosa insieme al forno a legna, e si prodigano davvero. Quanto durerà ancora? Se Dio vuole, piano piano, continuerò a trasportare la legna e a sedermi fuori sotto il porticato, guarderò i figli sfornare le pizze e continuerò a mangiare il mio pezzo di pizza accompagnato da un bicchiere di vino. La mia felicità e la mia soddisfazione è tutta lì, nei piccoli gesti.

Quando ho comprato questa casa dividemmo l’immobile con un’altra famiglia. La nostra abitazione era semplicemente composta da un magazzino e una cucina rustica ricavata in muratura e rivestita con ceramiche semplici. Quando i vicini si sono trasferiti ho comprato questa casa un pezzo per volta, e oggi, abbiamo dato un appartamento a ogni figlio, il corredo alle femmine e qualcosa anche al maschio. E poi, abbiamo questa terra che non coltiverà più nessuno con tutte le tasse che lo Stato ha imposto, quand’ero ragazzo l’agricoltura era considerata un bene prezioso, la democrazia dava il premio per ogni mucca che aveva partorito, oggi, invece, per crescere un animale bisogna pagare le tasse. I tempi sono cambiati, e lo stato non sempre è dalla parte del cittadino.

Tutto quello che ho creato in questi anni l’ho conseguito per i miei figli e spero che qualcosa di buono sono riuscito a trasmettergli, è sufficiente che siano buoni lavoratori, buoni d’animo ed educati, perché l’educazione dev’essere sempre la prima cosa con cui una persona va a presentarsi.
La famiglia è cresciuta, è diventata grande ma è unita, questo lo so perché le cose importanti si fanno insieme. Insieme si fanno anche le serenate, come quella che figli e nipoti hanno organizzato per il nostro cinquantesimo anno di matrimonio, forse qualcosa di buono in questi anni l’abbiamo fatta davvero se si sono impegnati tutti insieme a cantare per noi. Non siamo andati in viaggio di nozze neanche questa volta, ma abbiamo avuto una festa, una di quelle belle che fanno vedere in televisione e che si leggono nelle storie. La pupa sembrava, esattamente come allora, una bambolina, mi emozionavo a vederla nel suo abitino dorato, era bella. Bella lo è sempre stata.
Erano belli tutti quando li guardavo dal mio posto: ballavano, cantavano, ridevano, scherzavano; abbiamo mangiato e brindato, e abbiamo festeggiato per almeno una settimana. Chi c’era ci ha lasciato il dono più bello: un po’ di affetto e stima. Forse la terra quando non ci sarò più io non la coltiverà più nessuno, ma sono sicuro che loro resteranno uniti e faranno tante altre cose importanti insieme.

 

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