A misura di felicità

Cuore
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Vi riproponiamo nel blog una delle storie più apprezzate del n. 23

 

Sognavo di diventare stilista e ho modellato il mio percorso per cucirmelo addosso, proprio come una buona sarta. Per realizzarlo ho rinunciato a un uomo che non credeva in me e ho dato ascolto al mio cuore. Seguendo una grande maestra: Elsa Schiaparelli

STORIA VERA DI VALERIA D. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI

 

Non avevo fatto altro che studiare e lavorare. Studiare per superare la maggior parte degli esami in tempo e lavorare per pagarmi il viaggio. Il mio viaggio, quello che sognavo da quando avevo iniziato il corso di fashion designer all’Accademia della moda, da quando quel mondo fatto d’arte e creatività aveva riempito la mia vita.

Quegli anni, li ricordo benissimo, erano stati molto particolari, un misto di entusiasmo e tristezza, profonda tristezza. L’università, malgrado i sacrifici per pagare le rette, mi riempiva di soddisfazioni e di stimoli, consegnandomi ogni giorno la certezza di essere sul cammino giusto, mentre non potevo certo dire altrettanto della mia vita sentimentale. A 22 anni mi trovavo legata mani e piedi a un fidanzato scomodo e scostante.
Io e Raimondo ci conoscevamo fin dai tempi della scuola e metterci insieme era stato naturale. I miei, persone semplici e operose che si spaccavano la schiena per non farmi mancare nulla, erano felici che un ragazzo così dabbene, proveniente da una famiglia più che agiata, uscisse con me.

Da principio Raimondo era affettuoso e timido come ogni fidanzatino giovane e inesperto. Solo una volta cresciuto, quando entrambi avevamo iniziato a uscire dal bozzolo dell’adolescenza e dai suoi smarrimenti, aveva iniziato a manifestare una diffidenza e una possessività che diventavano sempre più malsane.

Non potevo ricevere messaggi da altri ragazzi perché altrimenti era un dramma, non potevo uscire senza prima averlo informato, le sue crisi di gelosia si moltiplicavano fino a soffocarmi e a farmi chiedere come, ancora così giovane, potessi essere tanto infelice.
In seguito, mi è capitato di ripensare spesso a quel periodo, chiedendomi perché mi facessi tanti problemi a lasciarlo. Oggi però credo di avere capito che furono il desiderio di non deludere i miei e la certezza di partire per il mio viaggio studio a evitarmi di affrontare la situazione con Raimondo.
Ai tempi frequentavo l’ultimo anno di Accademia e quando la mia relatrice mi disse che per la mia tesi avrei dovuto cercare in loco il materiale necessario, mi sentii travolgere da un entusiasmo incontrollato, visto che “in loco” per l’esattezza significava Parigi, la ville lumière, la città dove l’eroina dei miei studi, Elsa Schiaparelli, aveva aperto il suo famoso atelier di moda.

Ben presto mi resi conto che nonostante non fossi mai salita su un aereo e i miei genitori non riuscissero a coprire tutte le spese della mia trasferta, tanto che fui costretta a mettermi a vendere gelati per un paio di mesi, il problema vero erano le scenate di Raimondo di fronte alla mia decisione di partire.
«Ma dove vai? Cosa credi che stiano lì ad aspettare te per scrivere su quella donna, ma fai una tesi compilativa, una cosa semplice, senza andare a cercare chissà che…». Ecco questo era lui: accontentati, stai buona, mettiti a cuccia insomma.
«Raimondo, lo faccio per studio e dato che non posso cambiare la tesi adesso, devo partire» non facevo che ripetergli con voce rotta fino alla nausea.

Malgrado fossi spossata e pure un po’ spaventata, sentivo scorrere dentro fiotti di energia sotterranea che mi portavano lontano con una forza da vulcano capace di travolgere ogni difficoltà. Come Elsa Schiaparelli anch’io volevo cercare la felicità a tutti i costi, consapevole che le cose anche per me potessero migliorare.

Appena arrivata, presi alloggio in un alberghetto del quartiere latino, frequentato da studenti e da turisti amanti dell’atmosfera bohémienne della zona, poi mi trasferii in un appartamento lasciato da una ragazza che rientrava in Italia.

Fin dalle prime settimane mi concentrai sulla ricerca di documenti e testimonianze. Emozionata entrai al n. 21 di Place Vendôme, dove si trova l’atelier della stilista, feci diverse foto e ascoltai la voce di coloro che vivevano tra le sue creazioni, rimanendo sempre più colpita dalla storia di questa donna straordinaria.

Elsa Schiaparelli, malgrado fosse cresciuta a Palazzo Corsini in un ambiente di intellettuali e accademici, circondata da bellezza ed eleganza, ebbe una vita costellata da difficoltà, ma non per questo si lasciò sopraffare dagli eventi. Dalla famiglia, che ostacolò la sua vocazione di essere poetessa rinchiudendola in convento, fino al matrimonio disastroso, dall’unica figlia gravemente malata alle difficoltà economiche, quella donna non si arrese mai, anzi seppe prosperare dando voce alla sua creatività. Quanto avrei voluto che la sua forza, il suo genio fossero passati per osmosi in me per aiutarmi a vivere pienamente! In fondo, anche se ero nata in un’altra epoca (lei era del 1890), sentivo che potevo imparare molto da Elsa.

«Gli artisti dell’avanguardia dadaista hanno influito molto sullo stile delle sue creazioni» mi riportò alla realtà la voce infervorata della direttrice dell’atelier mentre mi mostrava diverse foto di abiti che erano vere e proprie opere d’arte. «Ma prego, si documenti anche con il materiale che non è esposto» mi disse infine la donna lasciandomi sola in una stanza immensa piena di carte.

Ed eccomi qui a caccia di documenti, dichiarazioni, interviste, impregnata da un senso di libertà e di tranquillità che non provavo da tempo. Con brividi di gioia, mi immersi nei disegni dei prototipi dei suoi famosi pullover neri decorati con disegni bianchi trompe-l’œil, e in molto altro materiale di fondamentale importanza che mi faceva sentire al centro del mondo. Il mio mondo. Mai ero stata più felice. Tutto in quel periodo mi faceva sentire bene, a parte le telefonate che ogni giorno ricevevo dall’Italia.

«Non chiami mai. Ti stai montando la testa? Non avrai incontrato lì un francese che si approfitta di te visto che sei sola? Ma tanto dove credi di andare? Tanto devi pur tornare» sibilava Raimondo con tono feroce.
La sua insistenza, per non dire della volgarità, erano diventate un’interferenza dolorosa, una spina nel fianco e solo la distanza mi permetteva di procrastinare ancora la decisione di lasciarlo. Le mie giornate parigine mi allontanavano anni luce dalle sue invettive e dal suo carattere opprimente, facendomi sentire aperta al mondo e perfino radiosa. E fu proprio in quel periodo che Max entrò nella mia vita.

«Sei italiana vero? Sono Max ed è da un po’ di tempo che ti osservo. Non è favoloso questo posto?» mi domandò un giorno un ragazzo bruno, alto, dallo sguardo languido da cerbiatto, indicando l’insegna della brasserie di Les Halles dove eravamo seduti entrambi per la pausa pranzo.
«Il miglior posto al mondo» gli risposi persa in quegli occhi liquidi.

Da allora, l’incontro con Max divenne un rito. Ogni giorno prendevamo posto sempre allo stesso tavolino e passavamo un’ora a parlare di noi. Max era gentile, ma molto determinato e come pasticcere diplomato lavorava in una famosa boulangerie della via, un panificio di alto livello, che oltre al pane sfornava dolci memorabili.

«La mia famiglia è di umili origini e visto che i miei a malapena sono riusciti pagarmi la scuola da pasticcere, da un anno sto portando avanti da solo il mio progetto: lavorare nelle migliori pasticcerie artigianali d’Europa per raccogliere le ricette dei dolci tipici di ogni Paese per poi riproporli nel mio laboratorio» mi raccontava con la voce sfavillante d’entusiasmo.

E così, seduti davanti a due insalate, mentre
lui mi descriveva i magnifici churros spagnoli, il divino kanelbullar svedese, lo spettacolare kataifi greco, il sublime trdelník della Republica Ceca, io gli riempivo la testa con i maglioni col collo a V e un doppio nodo disegnato e con le fantastiche collezioni ”Farfalle”, ”Fondo del Mare”, ”Commedia dell’arte” della mia amata Elsa Schiaparelli. L’ora volava e sorridenti ci lasciavamo illanguiditi e sazi dei nostri stessi sogni fino al giorno dopo quando ci saremmo incontrati di nuovo, assetati delle nostre risate, delle nostre fantasie e storditi dalla voglia sempre più irrefrenabile di toccarci. Ero così presa dalla mia vita che non mi resi conto che il mio tempo a Parigi volgeva al termine e il momento del mio rientro in Italia mi sorprese troppo presto. Non ero pronta. Mi sembrava di avere ancora tante ricerche da fare e soprattutto tante parole da regalare a Max. Max che, nonostante fosse sconfortato quanto me dal mio imminente ritorno a casa, non smise mai di spronarmi a finire gli esami e a discutere la mia bellissima tesi.

Il giorno della partenza sistemai presto i bagagli e scesi a fare colazione alla nostra brasserie. Una volta a tavola, lo vidi arrivare di corsa per stringermi in un abbraccio meraviglioso che ridusse il mio cuore in briciole. Partii lasciandolo con l’aria stralunata dal desiderio sulla soglia di quello che era il nostro amore. Una volta in Italia, rientrare nei ranghi non fu facile. Raimondo da prepotente era diventato sottomesso, accondiscendente e spendeva fortune in mazzi di fiori recisi di cui mi liberavo il prima possibile, dato che da sempre mi facevano una gran pena.

«Sposiamoci, subito dopo la laurea, sposiamoci, Vally» mi sussurrava sempre più spesso con gli occhi in fiamme. «Mettiamo su famiglia, ci penso io a te. Tutte queste assurdità della moda, dài che il lavoro ce l’hai già nell’azienda della mia famiglia».

Mi sentivo soffocare, avrei voluto scappare, ma dovevo ancora terminare gli studi e da tempo non avevo notizie di Max. Ero stata io a smettere di rispondere alle sue telefonate e ai suoi messaggi, lasciandolo solo a combattere contro la nostalgia, dato che spesso sorprendevo Raimondo a leggere il mio cellulare o con l’orecchio teso ad ascoltare ogni chiamata che ricevevo.

Ma gli incoraggiamenti del mio pasticcere erano rimasti depositati in fondo al mio cuore come briciole del miglior pan di Spagna, pronte a darmi nutrimento e forza, a tal punto che ripresi subito a studiare e a rielaborare il materiale della tesi per arrivare soddisfatta a discuterla un caldo pomeriggio di inizio luglio.

Dopo i festeggiamenti, sapevo già cosa sarebbe successo. Ero riuscita a dribblare per troppo tempo l’offensiva del nemico, perché di quello ormai per me si trattava.
«Amore, con la moda non si va da nessuna parte. Hai promesso che ci saremmo sposati e che avresti lavorato nell’azienda di famiglia».
Se c’era una cosa di cui ero certa era che mai avevo fatto promesse del genere a Raimondo.
«Il mio silenzio non è mai stato un assenso» gli risposi senza nemmeno pensare.
A quel punto Raimondo sembrò gonfiarsi ed esplodere mostrandosi in tutta la sua brutalità.

«Ma chi ti credi di essere, sei una pezzente, figlia di pezzenti e devi sentirti onorata dal solo fatto che io ti guardi! Prendi al volo questa mia offerta perché per quelle come te non se presentano molte, sappilo. Ho avuto fin troppa pazienza finora».

Credo che un ceffone mi avrebbe fatto meno male. Stordita lo guardai incredula di aver udito parole che in verità avevo sempre percepito dai suoi modi e dal suo comportamento sgarbato. «Vattene, la tua carità portala fuori da qui, dalla mia casa, lontano da me e dalla mia famiglia. Non voglio vederti mai più!» mi sentii urlare con una forza sconosciuta e poderosa che oltre a liberarmi dal mio fidanzato, sprigionò definitivamente la mia anima, per troppo tempo sottomessa.

Non appena sentii il rombo furioso della moto di Raimondo allontanarsi dal mio cortile scrissi a Max. In un fiume di parole gli raccontai della mia laurea, della soddisfazione dell’aver finito gli studi e di quanto mi fosse mancato. Una volta inviato il messaggio rimasi a lungo a fissare il telefono e ad attendere una risposta che non arrivava.

Passarono diversi giorni, avevo ormai perso la speranza che volesse ancora parlarmi, temevo di averlo perso e con lui l’amore della mia vita.
“Non farlo mai più!” trovai scritto invece una mattina sullo schermo illuminato. Max mi aveva risposto e io potevo ricominciare a respirare. Lo chiamai immediatamente incurante dell’orario.

«Mai, mai più. Perdonami. Posso venire a Parigi?» gli chiesi senza nemmeno salutarlo con voce roca sulla soglia del pianto.
«No! Non ci provare» mi rispose secco dall’altra parte dell’apparecchio.

«No?» riuscii a pronunciare in un soffio esangue. «Meglio se vieni a Lisbona, ora sono qui. Sto studiando la pasticceria portoghese e in particolare il pastel de nata, un dolce formidabile, la cui crema deliziosa al profumo di cannella rimetterebbe in sesto anche un morto».
Queste sue parole rimisero in sesto anche me, ma soprattutto sancirono l’inizio della nostra storia.
Lo andai a trovare e Lisbona divenne la culla della nostra passione. I nostri corpi, già preceduti dai nostri cuori, finalmente si intrecciarono in una stretta piena di promesse. Ma nonostante avessimo rafforzato con il piacere la nostra intesa non era mia intenzione costringerlo a rientrare in Italia insieme a me.
Fu lui invece a scrivermi un bel giorno di dicembre.

“Ho finito di cercare ricette, ora alla mia lista manca solo la tua dolcezza. Arrivo”.
Oggi ripensandoci, posso dire che ho cercato di modellare la mia vita a misura della mia felicità, come una buona sarta. Ho aperto la mia piccola casa di moda, ho
sei dipendenti sempre sorridenti e insieme a loro cerco di rendere la creazione dei miei abiti non una professione, ma un’arte, come mi ha insegnato Elsa Schiaparelli. E mentre io mi perdo tra cartamodelli, aghi e fili, Max gestisce la sua pasticceria affollatissima di golosi che cercano prelibatezze italiane e le migliori leccornie che l’Europa può offrire.
Ma soprattutto abbiamo due figlie meravigliose alle quali abbiamo insegnato attraverso l’esempio a non rinunciare per nessuna ragione ai propri sogni e ad ascoltare sempre il proprio cuore perché se con tenacia si cerca la felicità, spesso lei si fa trovare. ●

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