Alla stazione

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog “Alla stazione” di Maurizio Riboldi, pubblicata sul n. 45 di Confidenze è una delle storie vere più apprezzate della settimana

 

Storia vera di Giulia V. raccolta da Maurizio Riboldi

 

Sto preparando le valigie con la massima cura: voglio che non resti niente di mio, in questa casa, non un vestito, un foulard, un pettine, un profumo. Niente.

Mi porto tutto, voglio che lui non abbia nulla che possa anche solo contenere il mio Dna. Nulla che possa essere maledetto, su cui sfogare la sua rabbia di maschio ferito, il suo odio cieco, la sua violenza da padrone.

Piego tutto con calma, meticolosamente, così che i miei abiti non si stropiccino quando aprirò i bagagli lontana da qui. Sono sempre stata di un ordine maniacale nei momenti decisivi della mia vita, e questo lo è più di tutti gli altri.

I pochi soldi che guadagno come babysitter e il niente che mi ha sempre passato mio marito ora mi fanno comodo: ho tre vestiti e quattro fronzoli, viaggerò leggera. I trucchi con i quali ho più spesso coperto i lividi che tentato di abbellirmi, il profumo costoso e discreto che mi piace tanto: l’unico lusso di una vita modesta e faticosa.

Non è stato facile arrivare qui: quanti anni ho sprecato a cercare di capire, giustificare, pensare che, in fondo, era colpa mia perché, quella sera avevo bruciato il sugo, oppure tardato a lavare le sue tute da lavoro; o, ancora, gli avevo chiesto di uscire quando chiaramente era stanco, o davano la partita alla televisione e non avrei dovuto proporlo, se fossi stata una buona moglie accondiscendente e innamorata.

E quante volte mi sono messa il ghiaccio sulle botte, preoccupata solo di non far vedere, il giorno dopo, i segni che avrebbero chiarito al mondo cosa succedeva in quella casa. E quando ero costretta a ricorrere al Pronto Soccorso perché le cose erano andate decisamente oltre, era sempre lui che mi accompagnava, con una sollecitudine e un’ansia che riuscivano a ingannare tutti. Ogni tanto un medico che mi aveva osservata più attentamente mi chiedeva se fossi davvero caduta dalla scala pulendo i vetri, o inciampata nei tacchi alti scendendo le scale di casa, o finita sotto un mobiletto ribaltato tentando di spostarlo durante le pulizie.

Ma le mie storie sembravano credibili, io ero serena, anche se tutta dolorante, e lui, in quei momenti, si comportava come il più affettuoso dei mariti, in pena per la mia salute e preoccupato della mia distrazione che finiva per mettere a repentaglio la mia incolumità. In quelle occasioni ritrovavo l’uomo che avevo conosciuto, che sembrava così innamorato di questa ragazzina più giovane che lui aveva la responsabilità di plasmare come donna. Me lo diceva sempre: «Farò di te una donna perfetta, saremo felici». Ma, evidentemente, l’allieva non era stata all’altezza, non aveva voluto imparare…

 

Dopo averle prese, almeno nei primi anni, il mio unico pensiero era proteggere lui, impedire che si sapesse la verità e che qualcuno potesse equivocare sulle sue reali intenzioni: non era cattivo, voleva solo farmi intendere meglio il suo punto di vista e qualche volta la cosa gli sfuggiva di mano.

Poi, piano piano, mentre il mio amore moriva schiacciato dalle botte e dal suo evidente disamore, avevo mentito solo per proteggere me stessa: se qualcosa fosse emerso, chi mi avrebbe protetta, una volta a casa? Chi poteva salvarmi dalla sua reazione? Sapevo perfettamente che i medici del Pronto Soccorso non hanno poteri di arresto, che si sarebbero limitati a inviare una segnalazione per far aprire un’indagine e mio marito l’avrebbe saputo subito: e dopo? Cosa mi sarebbe successo?

Quasi ogni giorno i giornali danno notizia di una donna uccisa dal compagno o dal marito, spesso per molto meno; allora diventavo ancora più reticente e decisa a negare qualsiasi causa diversa dall’incidente domestico. Sempre di più pensavo che la mia vita dipendesse dalla capacità di essere convincente al Pronto Soccorso; anche se mi chiedevo spesso se quella vita, ogni giorno più violenta, più umiliante, non fosse in realtà un lento morire. Ma era l’istinto di conservazione a fornirmi le parole e i medici non hanno mai saputo nulla.

La mia unica, segreta precauzione è stata prendere la pillola anticoncezionale: non volevo restare incinta, con un uomo così; inoltre, temevo che le percosse potessero far morire anche un bambino; lui non avrebbe avuto colpe, non si può scegliere da chi nascere, ma io potevo scegliere al posto suo. Per quanto desiderassi un figlio, ogni sera, di nascosto, inghiottivo in bagno una piccola pillola, poi nascondevo tutto.

Anche se ciò aveva portato ad altre percosse, perché, ovviamente, dovevo essere io quella sterile e non certo lui.

Neanche ieri sera ho parlato.

I medici sono stati più insistenti che mai, sostenendo che le ferite che mi ero procurata in testa non erano compatibili con la mia ricostruzione dei fatti; ma io irremovibile, ho raccontato di ante di vetro aperte per pulire, del mio equilibrio instabile e della mia imprudenza di casalinga maniaca del pulito.

Questa volta sono stata ancor più brava del solito, più serena, perché avevo un piano, un bellissimo piano e non volevo rovinarlo proprio ora.

Mio marito mi ha portata a casa e messa a letto con ogni precauzione, con quel riguardo che gli viene quando si rende conto di aver esagerato, quando teme di poter perdere la sua preda. Due carezze e la promessa di non rifarlo più. Gli ho lasciato credere che sarebbero bastate. E invece no.

Chiudo la porta, eccomi in strada con due borse e il biglietto di un treno.

 

Mentre attendo il taxi per la stazione, i pensieri si accavallano nella mente con le parole della mia amica Silvia: «Non devi scappare, rivolgiti a professionisti abituati a trattare questi reati e denuncialo. È giusto che lui sia punito, anche per evitare che altre, in futuro, debbano subire ciò che è toccato a te». So che ha ragione, ma io non voglio rivolgermi ai servizi sociali o alla Polizia; non voglio processi e racconti da fare a giudici e avvocati; ho solo bisogno di cancellare il mio passato e il ricordo della mia vita d’inferno di tutti questi anni. Non mi importa che venga punito, voglio solo iniziare una vita nuova, cambiando città e anche nome e cognome, se fosse possibile. Mi guardo attorno, vedo donne che camminano e sul loro volto non puoi leggerci niente: chissà come sarà la loro vita dentro le mura di casa? Guardo le due borse, nelle orecchie l’eco sempre più forte delle parole di Silvia. Ecco il taxi. «Dove andiamo, signora?».

«Alla stazione». Indugio un attimo, poi accartoccio il biglietto del treno:  «… dei Carabinieri».

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