Amore allo specchio

Cuore
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Amore allo specchio, pubblicata sul n. 34 di Confidenze, è la storia vera più apprezzata della settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

Cosa sto facendo? Io e Andrea neanche ci conosciamo, eppure stiamo esplorando territori off limits della passione che con Lucio, il mio fidanzato, non ho mai oltrepassato. È uno stravolgimento dei sensi, un abbandono totale. Sento che dopo non sarò più la stessa

STORIA VERA DI ILARIA F. RACCOLTA DA IRENE ZAVAGLIA

 

Adoro gli specchi. Un tempo non mi piacevano, non mi fermavo mai a contemplare la mia immagine riflessa. Poi ho conosciuto lui. E tutto è cambiato.

Avevo un fidanzato, si chiamava Lucio. Proveniva da una famiglia di acclamati medici. Era un ragazzo assennato, pratico, gioviale. Ci eravamo adocchiati durante il mio tirocinio da infermiera. In quel periodo Lucio era specializzando in chirurgia e prometteva una brillante carriera. Era stato amore a prima vista, o qualcosa di simile. Avevamo iniziato una relazione stabile, di quelle che ti infondono sicurezza e lasciano ben sperare per il futuro.

«Mia cugina Susanna si sposa» mi annunciò un giorno. «Siamo stati invitati al matrimonio. Finalmente conoscerai i miei genitori, ci tengono tantissimo a incontrarti».

Mi prese il panico. «Credi sia l’occasione giusta?» domandai. Detestavo i matrimoni, li trovavo eventi destabilizzanti in grado di tirare fuori il peggio delle famiglie.
«Certo» rispose lui abbracciandomi. «Ho una famiglia numerosa e unita.Ti piacerà. E poi, quale occasione migliore per abituarci all’idea di come dovranno essere le nostre di nozze?». Il mio fidanzato mi sfiorò teneramente le labbra. Mi ritenni fortunata. Lucio era l’uomo che avevo sempre cercato, l’unico che avrei mai desiderato nella mia vita. Il matrimonio si sarebbe tenuto in pieno agosto, in una meravigliosa location sul mare. Arrivammo con qualche giorno di anticipo. I genitori di Lucio mi accolsero con affetto, una sfilza di parenti si premurò di farmi sentire a mio agio. Come già sapevo fin troppo bene, erano quasi tutti medici. Il papà di Lucio era un affermato chirurgo, la mamma una psicoterapeuta di successo, lo zio era un ortopedico e i futuri sposi si fregiavano di essere rispettivamente un dermatologo e una pediatra.

«E tu, come mai hai deciso di fare solo l’infermiera?» mi chiese la mia futura suocera cercando di conferire alla do- manda la stessa leggerezza con cui mi avrebbe interrogato sul perché preferivo il rosso al giallo. Era evidente che per il figlio aveva sperato in una compagna che ambisse ben più in alto di dove io avevo puntato.

«Perché senza infermieri non esisterebbe la sanità, zia! E tu, costretta a fare il lavoro pesante, incominceresti a desiderare di coltivare la terra piuttosto che analizzare il prossimo». Il ragazzo che aveva parlato, facendo il suo ingresso a sorpresa, si chinò ad abbracciare la donna.
«Andrea! Quando sei arrivato? Non ti aspettavamo prima di domani».
«Lo sai che mi piace stupirvi» rispose lui illuminando la sala da pranzo con uno dei sorrisi più affascinanti che avessi mai incrociato.
Erano chiaramente tutti felici di rivederlo. Ci furono baci e abbracci. Si avvicinò anche a me. Mi allungò la mano. «Piacere, sono Ilaria, la fidanzata di Lucio». «L’infermiera» sottolineò con tono canzonatorio. «L’infermiera» ripetei sospirando.
«Io, invece, sono Andrea, la pecora nera». Avvolse la mia mano tra le sue e mormorò ironico: «Qui avrebbero pagato pur di vedermi fare anche solo l’infermiere…» ammiccò. Mi sentii strana, come se il vino del pranzo avesse iniziato a farmi effetto solo in quell’istante. Quel tizio mi confondeva. «È particolare tuo cugino» dissi a Lucio una volta rimasti da soli.

«Chi, Andrea? È sempre stato un po’ ribelle. Ha perso la madre quando era ancora adolescente. Mia zia è stata stroncata da un brutto male. Ridicolo vero? Trovarsi in una famiglia di medici e non poter essere salvati. Da quel momento Andrea ha seguito una strada diversa dalla nostra. Si è laureato in Biologia e adesso fa il biologo marino in giro per il mondo. È il mare la sua vera inclinazione» mi raccontò mascherando a stento la chiara allusione che fare il medico, nella vita, fosse l’unica via per il successo. «Ma non ha una fidanzata, qualcuno con cui condividere tutto?». La voce mi si incrinò lievemente.

Lucio non sembrò farci caso. «Non credo, non si è mai legato a nessuna. Però deve averne castigate tante, con quella faccia da angelo tenebroso».
Provai fastidio a quella risposta. Se fossi stata sincera con me stessa avrei potuto giurare di aver avvertito un senso di rabbia e di insensata gelosia. Molte verità si imprimono dentro di noi ancora prima di essersi palesate.

I giorni che precedettero il matrimonio furono di fibrillante attesa e interamente incentrati sui preparativi. Ogni volta che Andrea era nei paraggi, i nostri sguardi si attraevano irrimediabilmente. Un pomeriggio ci portò a fare un giro sulla sua barca a vela. Possedeva una Comet 111 che aveva rimodernato con gusto per i suoi spostamenti a lungo raggio. Ne ero rimasta entusiasta, le barche a vela erano da sempre anche una mia passione. Al tramonto, il sole dipingeva lingue di fuoco sull’immensità del mare. «Adoro tutto questo» mi confessò avvicinandosi. «Anche mia madre trovava conforto nel mare». Rimanemmo in silenzio estasiati da quello spettacolo. «Furono gli infermieri ad alleviare le sue sofferenze» aggiunse, infine, senza una ragione apparente. «Non dimenticherò mai l’amore e la com- passione con cui la curarono, fino alla fine».

Giunse la data delle nozze. La canicola d’agosto ci soffocò stretti negli abiti eleganti. Solo Andrea si era presentato senza indossare la giacca, con la camicia bianca che spiccava sulla pelle abbronzata e i capelli schiariti dalla salsedine raccolti in un codino dietro la nuca. «Spero che almeno che sotto al vestito tu sia nuda» scherzò soffiandomi sulla scollatura accentuata di cui andavo fiera. Avvampai. Quei suoi slanci improvvisi mi intimidivano. Lucio era sparito, sequestrato dal padre che non perdeva occasione per parlare di lavoro. «Vieni, balliamo» esordì Andrea trascinandomi al centro della pista dove alcune coppie si erano già date alle danze. Mi cinse con un braccio stringendomi a lui. Respirai l’aroma forte e speziato che gli aleggiava intorno. Non ero una grande ballerina, ma riuscivo a seguirlo. Sembrò leggermi nel pensiero. «La danza è come l’amore, ci vuole affinità».

Fu in quel momento che, disgraziatamente, lo sposo cadde battendo la testa contro lo spigolo di un tavolo. Perdeva sangue. Si decise di caricarlo in una macchina e di portarlo al Pronto soccorso. Lucio si offrì di guidare. La sposa li seguì. La festa era finita male.

Attendemmo notizie. Arrivò finalmente una telefonata. «Tutto bene» mi informò Lucio. «È solo un leggero trauma, per questa notte lo tengono in osservazione, ti dispiace se rimango con lui?».

Tirai un sospiro di sollievo e lo tranquillizzai: sarei tornata a casa con qualcuno. Andrea mi stava fissando. Piuttosto che raggiungere l’ospedale come avrebbe voluto, era stato insignito dell’arduo compito di congedare gli ospiti e di

raccogliere i cocci della festa spezzata. Si avvicinò. «Mi aiuti a portare i regali a destinazione?» propose indicandomi una pila di pacchi che giaceva in un angolo. «È assurda la mole di cianfrusaglie che riescono ad affibbiarti il giorno del tuo matrimonio. E ancora ci si domanda perché uno tenti il suicidio buttandosi di testa». Riuscì a farmi ridere. Acconsentii ad accompagnarlo, avremmo trasportato tutto nell’appartamento della novella coppia e al ritorno mi avrebbe lasciata dove meglio preferivo.
La futura residenza degli sposi si trovava in un grazioso e appartato quartiere. Quando terminammo di mettere i doni al sicuro, mi divertii a sbirciarne gli ambienti. Le pareti erano state tinteggiate di fresco e i mobili erano quasi completamente assenti. C’erano solo alcune librerie, il frigorifero, il letto matrimoniale e una grande specchiera appesa all’ingresso. Andrea mi spiegò che si erano verificati dei ritardi nelle consegne, i piccioncini avevano più volte cambiato idea sui modelli da acquistare, Scherzammo sull’effettiva difficoltà di concordare tra un divano bordeaux e uno ocra. Ridemmo fino alle lacrime, così tanto da non renderci conto di esserci avvicinati più del dovuto. Improvvisamente, eravamo così vicini da sfiorarci col respiro. Andrea mi prese le mani, se le portò al viso, socchiuse per un istante gli occhi. «No…» implorai con un filo di voce. Avvicinò le mie dita tremanti ai bottoni della sua camicia e attese c h e la forza dell’attrazione che ci univa mi desse la spinta per sbottonarne il primo. A fatica, la ca- micia raggiunse il pavimento. Mi guidò, poi, sulla cintura dei pantaloni. Armeggiai impacciata con la fibbia. Feci scivolare il tessuto pregiato sulle sue cosce muscolose. Mi lanciò uno sguardo eloquente: voleva che andassi fino in fondo. Vacillai. Fu interamente nudo davanti a me, un Adone senza veli; non avevo mai dato inizio a un approccio spogliando completamente un uomo.

Cercò la lampo del mio vestito. «Con te è più semplice» mormorò. Rimasi sui tacchi a spillo con indosso solo la biancheria intima e l’impressione che sarei senz’altro svenuta. Mi condusse davanti alla specchiera. Si posizionò alle mie spalle.
«Guardaci» disse sollevandomi con delicatezza il mento. «Non dovremmo essere qui» provai ad oppormi con l’ultimo residuo di volontà e buon senso che mi rimanevano. «Ti prego, guardaci».

Contemplai le nostre figure riflesse allo specchio: le mie gambe candide stagliate davanti alle sue decisamente scure, il mio ventre morbido, il suo bacino disegnato. Salii curiosa a osservare i nostri volti, il mio arrossato, con uno sfolgorio che non avevo mai visto prima, il suo volitivo e ardente di passione. Senza ancora sentirle, immaginai le sue mani sfiorarmi i fianchi e soffermarvisi voluttuose, per poi avventurarsi a tratteggiare la curva dei mie seni e delle mie braccia.

Lui seguì proprio quel percorso, poi le dita tornarono lì dove si erano divertite a vagare: giocarono con l’elastico del perizoma che avevo scelto con cura, ne spinsero via la trama sottile, si attardarono a scandagliare quanto fossi eccitata.

«Continua tu, voglio guardarti» mi sibilò all’orecchio. «Non puoi chiedermi questo…».
«Sì che posso. È quello che più desideri» scandì guidando ancora una volta la mia mano incontro a voglie inconfessabili e lasciandola soltanto quando i miei sospiri si fecero pesanti. Un sussulto di piacere rischiò di farmi perdere l’equilibrio. Andrea mi circondò con entrambe le braccia, scivolò lungo il mio corpo, avvertii il ruvido della barba incolta premere contro di me. Non sapevo quanto ancora avrei resistito. Ma il mio amante era lontano dal concedermi la pace.

Mi sollevò e mi portò sull’unico letto esistente. «Hai sete?» bisbigliò. Sì, avevo sete. Qualcosa di potente mi divampava dentro e mi consumava. Si allontanò, lo sentii armeggiare dalle parti della cucina. Tornò con una bottiglia già stappata di prosecco. «Siamo stati fortunati» disse accarezzandomi una guancia bollente con il vetro fresco di frigo. Rabbrividii. Non avevamo bicchieri. Si versò un po’ di vino in una mano e si pre- murò di farmene scivolare qualche goccia sulla lingua. «Stai bruciando» sorrise malizioso. «Adesso faremo un gioco» mi annunciò. Insieme alla bottiglia, aveva recuperato la stola del mio vestito e la sua cintura. Strabuzzai gli occhi.
«Non contare su di me, non è il genere di cose che mi piace fare» mi affrettai a sottolineare. Io e Lucio avevamo una vita sessuale soddisfacente, ma non gli avevo mai consentito di esercitare alcun tipo di controllo durante

la nostra intimità. «Rinuncia al tuo potere di attrarmi e io rinuncerò alla mia volontà di seguirti» recitò con tono calmo. Riconobbi Shakespeare.
Ero confusa. «Non ti conosco, Andrea».

«Sì che mi conosci, Ilaria. Mi hai appena conosciuto, c’eravamo entrambi, poco fa, allo specchio». Attese un mio cenno di assenso, quindi usò la stoffa per bendarmi e la cintura per legarmi i polsi dietro la testa.

«La cinta fa un po’ male» lamentai.

«Tra poco smetterai di sentire fastidio, te lo prometto». Cercò le mie labbra, bevvi direttamente da lui. Il gusto del vino mi sembrò più vigoroso. Bramavo soltanto che mi baciasse, che mi facesse sua. Avevo dimenticato chi fossi e dove mi trovassi. Lui, invece, non aveva fretta. Allertai i sensi, sapevo che mi stava osservando. «Devi dirmi dove vuoi che ti dia refrigerio, Ilaria. Qual è la parte del tuo corpo che senti particolarmente accaldata…».

Non capivo, avevo caldo ovunque, ardevo come brace accesa. Si allungò a percorrermi le caviglie con il fondo della bottiglia, bagnandomi appena i piedi con il prosecco. Trasalii. La sua bocca scese a lambirne ogni goccia, mentre i denti disegnarono un’immaginaria mappa tracciandola con piccoli morsi. Provai un inebriante senso di vertigine. Avevo compreso. Mi feci audace. Andrea succhiò vino dal mio collo, dall’incavo delle mie braccia piegate, dai miei se- ni che gli si offrirono, dalla mia pancia che lo accolse come la più propensa delle coppe. A ogni suo passaggio, la pelle si increspava di piacere e si tendeva fino allo spasmo, fin quasi a soffrire una volta rimasta orfana di quel tocco così incisivo. Mi stava portando all’estremo. Ora, la superficie liscia del vetro sfregava lì dove avevo agognato si spingesse. Trattenni il fiato. Desideravo solo che proseguisse, senza fine. Al contrario, si interruppe bruscamente.

Mi si stese accanto. «Calma, avrai quello che desideri» fremette sulle mie labbra. Mi voleva, almeno quanto io volevo lui. Si decise a liberarmi i polsi, ne baciò languidamente i segni lasciati dalla cintura. «Questi passeranno presto». Lo strinsi con tutta la forza che avevo, volevo imprimermi i suoi lineamenti sotto le dita, volevo assaporarlo a mia volta. Mi lasciò fare. Ogni parte di lui sapeva di mare. Poi mi attirò a sé e mi scoprì gli occhi. I nostri sguardi si ritrovarono in un lampo.

«Mi vuoi?» mormorò con voce roca. «Dimmelo». «Ti voglio» risposi con tutta me stessa.

Facemmo l’amore più volte, in tutte le forme che l’istinto richiese, come in una danza senza tempo, consentendo alla carne e allo spirito di fondersi in un’unica dimensione. Non avevo mai sperimentato un simile abbandono e un identico stravolgimento dei sensi. L’alba ci colse stretti in un abbraccio. Immaginai che fossimo una vera coppia e che quella fosse la nostra casa. «Che cos’è l’amore?» chiesi tentando di non apparire patetica. Non rispose. Mi strinse più forte. «Vieni con me, ti farò conoscere luoghi che non hai mai immaginato, ti mostrerò cos’è la passione» sussurrò percorrendo piano il mio profilo. Mi ricordai che eravamo clandestini, che fuori chiunque ci avrebbe condannati. «Non posso» dissi. «Lo sai che non posso». Sprofondai in un sonno pesante dettato dalla stanchezza e dallo sconvolgimento interiore. Quando mi svegliai, Andrea non c’era più. Si era preoccupato di rivestirmi, lo ricordavo come fosse stato un sogno. Per terra, accanto alla mia borsa e alle scarpe c’era un foglietto piegato. D’un tratto, tutto mi apparve sbagliato e io la donna peggiore sulla faccia della terra. Lessi con il cuore in tumulto. Andrea aveva scritto: “L’amore è quell’i- stante in cui ti guardi allo specchio insieme alla persona che hai accanto e riesci a riconoscerti. L’amore è quell’attimo che vale una vita e che per la vita porterai con te nel mondo”. Quello stesso giorno seppi che aveva anticipato la partenza. Forse lo aveva fatto per evitarmi l’imbarazzo di rivederci sotto i riflettori puntati della sua famiglia. Forse era vera- mente uno di quegli uomini frivoli che conquistano una donna solo per portarla a letto e dopo si dileguano. Forse, semplicemente, non aveva voluto costringermi a guardare in faccia la realtà. Non so se Lucio o qualcun altro abbia mai sospettato della mia assenza durante quella lunga notte. So che ho combattuto per seppellire quell’amore rubato che ha iniziato a scavarmi dentro, rendendomi del tutto diversa da quella che ero. Poi, mi sono arresa.

Ho lasciato Lucio.
Non ho rimpianti, né recriminazioni. Io e Andrea non ci siamo più visti. Ogni tanto ricevo delle cartoline da qual- che angolo di mondo. Chi me le manda non si firma, ma io so che è lui: l’amore che mi ha offerto la possibilità di guardarmi allo specchio e di riconoscermi.

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