Andare a vivere da soli è una libidine

Cuore
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Tutti lo sognano sin da piccoli. Gli italiani, in realtà, spesso lo rimandano. Ma quando poi i ragazzi vanno (finalmente) a vivere da soli, scoprono che è una pacchia

Sono andata a vivere da sola a 21 anni, grazie alla generosità dei miei genitori che mi hanno dato una mano economicamente. E i miei figli l’hanno fatto addirittura prima, cioè appena finito il liceo, anche loro aiutati dallo zampino (sul portafoglio) di mamma e papà.

Certo, avere un minimo le spalle coperte rende tutto più facile. Ma è vero che lasciare la famiglia è comunque un grande passo, perché comporta compiti mai eseguiti: gestire una casa, fare spesa e bucato, pagare conti e bollette (anche se i genitori collaborano, non è che si presentino in banca al posto tuo).

Non è un caso, quindi, che nella pigra Italia sia normale abbandonare il nido sempre più tardi. Un po’ più desueto, invece, è scoprire che c’è gente che non lo fa mai. Per esempio Marta F., che nell’articolo A 45 anni vivo ancora con i miei genitori ( su Confidenze in edicola adesso) racconta di dormire nella cameretta di quando era alle elementari, di andare in giro per commissioni con la mamma e di passare i weekend in montagna con il papà.

Quando ho letto la testimonianza sono rabbrividita sia per lei sia per i suoi poveri genitori. Ma l’articolo ha riportato la memoria ai miei panni di figlia, prima. E di mamma più avanti.

Partiamo da me. Quando giovanissima ho messo piede in una casetta tutta mia, non mi è sembrato vero: potevo disporne come meglio mi aggradava, senza dover rendere conto a nessuno. Perciò l’ho arredata con quattro mobili in croce racimolati qua e là. Ho tralasciato l’acquisto di (ai miei occhi superflue) plafoniere. E con le lampadine che dal soffitto mi accecavano ogni volta che le accendevo, ho passato tra gli anni più belli e divertenti della mia vita.

All’inizio abitando nel caos totale, circondata da amici che (non avendo ancora spiccato il volo) reputavano il mio appartamentino un po’ anche il loro. E seguendo un’alimentazione allucinante fatta di Nutella, sacchetti di patatine ed enormi pastasciutte quando eravamo in troppi.

Qualche tempo dopo, invece, ho cominciato piano piano (anche se solo ogni tanto) a ripiegare gli abiti. Ho (quasi) smesso di scaraventare le scarpe in giro quando rientravo. E ho inserito nei menù qualche insalata o fetta di bresaola scondita, tanto per dare un attimo di tregua al fegato.

Eppure, nonostante mi fossi data delle regole, ho vissuto comunque una magica sensazione di libertà che ogni giovane dovrebbe godersi.

Evidentemente ho trasmesso il messaggio ai figli che, come dicevo, se ne sono andati presto. Con mia immensa gioia, perché sono convinta (ora come allora) che i ragazzi debbano prendere la loro strada appena possono. Quindi, ho assolutamente agevolato la fuoriuscita dei miei.

Certo, le prime settimane mi sembrava strano e un po’ triste non averli per casa. I loro armadi vuoti dentro i quali si sentiva l’eco mi facevano impressione. Pensare agli strufolini cresciuti e a me invecchiata mi metteva un vago panico. Ma a prevalere erano la felicità di saperli felici (solo Marta F. e i suoi genitori godono nel continuare a stare tutti insieme appassionatamente) e l’idea che non mi sarebbero mancati troppo. Sono una mamma degenere? No. Il fatto è che io abito al numero civico 12, un figlio al 14 e l’altro al 16. Ovviamente della stessa via!!!

Confidenze