Con te, lontano da qui

Cuore
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Dal n. 49 una delle storie vere apprezzate dalle nostre lettrici sulla pagina Facebook

 

Era sempre la solita storia: lui mi picchiava, qualche vicino pietoso chiamava la Polizia, ma io non lo denunciavo mai. Poi un giorno un Carabiniere ha colto un fiore per me e mi ha ridato la speranza

STORIA VERA DI FLORIANA P. RACCOLTA DA BARBARA DI CASTRI

 

Vivo in un piccolo paese abbarbicato fra le montagne abruzzesi, è uno dei tanti centri urbani della valle Peligna: una piazza, una chiesa, il cimitero, la proloco e due bar.

E poi una manciata di case vecchie, screpolate che si susseguono fra i vicoli, le scale e le stradine, ogni tanto si sente una voce lontana o il rumore di passi. Dopo il terremoto in paese è subentrata una strana calma, fatta di attesa e di rassegnazione.

Per me essere abruzzese è uno stato d’animo: forte, aspro, assomiglia alle nostre vette spoglie o ai nostri boschi scuri di un verde cupo, uno stato d’animo che non conosce falsità come l’acqua trasparente e ghiacciata che sgorga fra le pietre delle nostre valli. Forse questa è l’unica eredità che mi hanno lasciato i miei genitori.

Da noi le finestre delle case sembrano fessure da cui entra poca luce e la vita quotidiana fra le stanze passa in ombra, a volte mi sono sentita sola come le montagne che mi circondano, sono arrivata a pensare che nessuno mi avrebbe mai voluto bene, la mia era una certezza fatta di sangue e di respiro.

Mi sono sposata molto giovane perché avevo perso i miei genitori a 12 anni e sentivo crescere dentro di me la voglia del calore di una famiglia, sognavo un focolare e tanti bambini.
Invece con il matrimonio è cominciato l’inferno: dopo un mese dalle nozze, mio marito aveva iniziato a picchiarmi, all’inizio erano lividi sulle braccia e sulla schiena a cui seguivano pianti disperati e mille scuse.

Le mie ferite sul corpo si riempivano spesso delle sue lacrime, delle sue preghiera e dei suoi buoni propositi. «Floriana, ti giuro che non lo farò mai più!». Io rimanevo in silenzio, muta dietro le tapparelle, sotto il sole incandescente di agosto come sotto la neve di Natale, gli occhi cerchiati dal dolore e dalla sofferenza, sentivo una desolazione immensa alla quale non sapevo dare risposta. La vita si accetta e non si sceglie, mi dicevo e abbozzavo una quotidianità fatta di piatti da lavare, bucato da stendere, pentole da scrostare e bicchieri vuoti da raccogliere dalle mensole della cucina che odoravano di alcol.

Mio marito aveva iniziato a bere molto giovane e con il passare degli anni il suo vizio era peggiorato, iniziava già la mattina.
Le sue urla si sentivano fino in piazza quando alzava le mani su di me e ogni volta che uscivo per andare a fare la spesa mi invadeva un senso di vergogna, schivavo lo sguardo dei pochi abitanti che mi sbirciavano con un senso di imbarazzo e di pena.

Con gli anni avevo imparato a convivere con il silenzio, come quando la notte, nessuno si accorge che in cielo, manca una stella, specialmente un piccolo astro che non ha ancora un nome: la dignità. Le nostre discussioni erano diventate sempre più frequenti e spesso qualche vicino pietoso era arrivato a chiamare l’ambulanza e la polizia. Allora mio marito usciva piangendo e iniziava una vera sceneggiata con gli agenti: «Scusatemi non so cosa mi è preso, lavoro come un cane, 12 ore al giorno e lo faccio solo per lei, per noi!». I volontari dell’ambulanza valutavano lo stato del mio corpo, se avevo ferite o lividi importanti: «Vuole sporgere denuncia?». E io: «No, non è il caso».
Era solo paura e speranza che tutto si potesse rimettere a posto. E poi, dopo le suppliche di mio marito, ambulanza e volanti della polizia se ne andavano via da quell’inferno.
Era sempre la stessa storia, un copione conosciuto e recitato più volte.
Entravo in casa, mi rifugiavo nel bagno per medicarmi le ferite e poi sotto le lenzuola sparivo nel buio e dal mondo, con mio marito che imprecava e che piangeva, mentre fuori il paese dormiva.

Poi un giorno è successo il miracolo: era arrivato in paese un nuovo appuntato dei Carabinieri. Era un vedovo, Gaetano.

Ricordo il suo primo sorriso, gli occhi sinceri e pieni di comprensione, quando mi vide uscire dall’ambulatorio, si sa in paese le voci corrono e le percosse di mio marito erano diventate di dominio pubblico. Gaetano aveva raccolto un fiore dall’aiuola davanti al municipio e me l’aveva dato. Mi aveva sussurrato: «Coraggio!». A mezza bocca e con tanta tenerezza negli occhi.

Ero ritornata a casa con il sorriso. La felicità vera non urla, è come il dolore. Stava crescendo in me una strana forza, la volontà di non sopportare più le violenze di mio marito.

Ogni giorno uscire era diventata un gioia, l’occasione per rivedere anche da lontano Gaetano, aspettavo solo un suo gesto di attenzione, un sorriso. Erano semplici momenti rubati alla mia squallida quotidianità ma erano diventati un balsamo indispensabile per la mia rinascita.

Gaetano era nato a Trapani ed era un uomo gentile, il suo altruismo mi commuoveva. Aveva aiutato a dipingere la sala in parrocchia dove giocavano a carte gli anziani, lo aveva fatto da solo, in silenzio nel giorno di riposo, e quando il sindaco lo aveva ringraziato aveva solo sorriso: «Dovere». E poi scherzava in piazza con tutti i bambini e all’occorrenza regalava loro il gelato.

Insomma, mi aveva conquistato con le azioni che vedevo ogni giorno, il suo sorriso sincero, la sua cordialità che non conosceva colore della pelle o religione.

Passarono i mesi e fra noi era nata una certa complicità fatta di gesti, di sorrisi e di poche parole. Gaetano oramai faceva parte del mio piccolo mondo, era come uno spazio felice in mezzo al mio matrimonio burrascoso e violento.

Ma un giorno, stavamo allestendo il presepe in parrocchia, quando Gaetano mi guardò negli occhi per dirmi che il Comando generale lo voleva in un altro paese molto lontano. Avevo la morte nel cuore, il sangue gelato in tutto il corpo, eppure sorrisi: «Bene. Sono contenta per te. Hai avuto una promozione!». Tornai a casa muta, accigliata, guardai in faccia mio marito, che era rientrato da poco, sbattendo la porta. Come al solito aveva bevuto e già urlava, si stava avvicinando con fare minaccioso, ero sorpresa di me stessa, non avevo più paura. Abbassai la voce e decisa dissi: «Se ti avvicini ancora, questa volta ti denuncio».

Retrocesse sorpreso e impaurito, andammo a dormire muti, ognuno dalla propria parte.

I giorni passavano e la mia disperazione aumentava: non potevo immaginare la mia vita senza Gaetano. E poco dopo le cose cambiarono, Gaetano mi invitò a fare una passeggiata fra i campi alle porte del paese, mi tremavano le gambe per l’emozione: «Floriana fra pochi giorni mi trasferiranno, non riesco a immaginare la mia vita senza di te. Vorresti venire con me? Te la senti? Io ti amo».

Ci fu un lungo bacio, dietro il muro del cimitero e poi risposi il mio si.
Andammo via in primavera, insieme noi due alla conquista del mondo e di una nuova vita. Scrissi una lunga lettera a mio marito che lasciai sulla federa sopra il letto. In cucina gli avevo preparato come al solito la cena, con il piatto capovolto sulla minestra per non farla freddare. La lettera era molto lunga, parlava di amore, un sentimento che quando si prova, non può mai morire, nessuno può uccidere l’amore perché non conosce la violenza.

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