Consuelo

Cuore
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Quando ho conosciuto Dario ero una ballerina di flamenco che girava l’Europa in tournée. Lui era sposato con figli. Tutti mi dicevano di lasciarlo perdere, che non faceva per me e io ci credevo. Finché ho provato ad ascoltare davvero il mio cuore

STORIA VERA DI CONSUELO G. RACCOLTA DA LAURA ZOCCOLI

 

Qui, nell’angolo di paradiso dove vivo, spesso a febbraio è già primavera. Spalanco le persiane ed è proprio così. La luce è chiarissima. Non c’è vento e il rumore delle onde, che sale fino alla casa quando c’è burrasca, oggi non arriva. Il mare è fermo, diviso in due da un nastro d’argento punteggiato da bagliori che si accendono e si spengono. Scendo la scaletta che dal patio porta alle terrazze coltivate. La collina è tutta così, muretti a secco e terrazzamenti. Passo sotto alla mimosa, per tutto l’anno alberello modesto, in questi giorni, una nuvola d’oro. Arrampicata sul muro di pietra una bouganville antica, spinosa e dal viola profondo, fa da sfondo al verde lustro di due cycas. Mi chino a strappare le erbacce fra i cespugli di margherite, annaffio i gerani, controllo i boccioli rossi degli ibischi, per vedere se spicca ancora il nero dei parassiti. Tutto è in fiore, anche le ginestre bianche che profumano l’aria. Oltre il viottolo, c’è una terrazza fitta di ulivi. Più in alto, un enorme scoglio affiora dalla terra, come una balena dall’acqua: nella notte dei tempi era un fondale marino, ora è disseminato di fichi d’India e aloe con pennacchi arancioni. Respiro a fondo. Mi siedo sulla seggiola pitturata d’azzurro che ho piazzato proprio qui, nel punto che mi piace di più. Il sole mi scalda. Mi sembra che entri in me per respingere gli assalti della vecchiaia. E penso al passato.

Mi chiamo Consuelo, sono nata 82 anni fa in Spagna. La mia era una famiglia modesta e serena, avevo due sorelle e due fratelli. A 16 anni lavoravo in fabbrica, ma il mio grande sogno era quello di diventare una ballerina di flamenco, lo avevo sempre voluto, fin da quando ero piccola. D’estate, mia madre mi mandò in vacanza per un paio di settimane da sua sorella, a Siviglia. Là, una scuola di ballo c’era, la cercai e parlai con la prima ragazza che uscì dal portone. Quello stesso pomeriggio, chiesi a mia zia se mi avrebbe preso a vivere con sé, io in cambio, l’avrei aiutata con il suo lavoro di sarta. Lei disse di sì e lo stesso fecero i miei genitori, che mi volevano molto bene. Diego, il fratello più grande, mi prestò un po’ di soldi per pagare le lezioni. Camminavo sulle nuvole. Dopo sei mesi di scuola, già mi sentivo una grande ballerina. Con un ragazzo che suonava la chitarra, iniziai a fare degli spettacolini. Erano i primi applausi e i primi spiccioli, e io ero contenta. Con mio fratello, Antonio, creammo un duo e cominciammo a esibirci. Io avevo 17 anni, Antonio solo uno più di me, e nostra sorella Blanca, che ne aveva 23, venne a Siviglia per aiutarci e accompagnarci. Affittammo un minuscolo appartamento. Una sera, il proprietario di un night, disse che Blanca era una bella ragazza e che era un peccato che ci venisse appresso senza guadagnare un soldo. «Mettiamole un bel vestito e facciamole provare il palco. Non sa fare niente?». Blanca sapeva cantare e gli occhi le brillavano. E così entrò nello spettacolo. Purtroppo pochi mesi dopo mio padre si ammalò gravemente. Tornammo a casa e lui morì in poche settimane. Furono giorni tremendi. Carmen, che di tutti noi era la più piccola, mi chiese di insegnarle a ballare. Le dissi di sì e alla fine, ripartimmo in quattro. Girammo l’Andalusia, poi la Spagna intera e dopo la Francia.

In Italia arrivammo nel 1966. Io avevo 26 anni. Il night di Milano che per due settimane aveva scritturato la “Compagnia di flamenco e danze andaluse Herrera” era elegante e si chiamava Il cavallino blu. «Mi fai questo piacere, Consuelo? Se usciamo in quattro non è compromettente. Lui mi viene a prendere domani e andiamo a pranzo in un bel ristorante, magari il suo amico ti piace. È uno che mi manda un sacco di rose, non posso dire no. Ci vieni?». Elena mi parlava in francese con tono supplichevole. Aveva quattro anni meno di me, era alta, bionda e bellissima. Veniva dalla Grecia, aveva studiato danza classica e quando ballava, io pensavo che avrebbe meritato ben altri palcoscenici. Lavorava anche lei al night e dormivamo nella stessa pensione. «Certo che vengo!» risposi ridendo. «Ti aspetto in camera, sarò pronta per le 10.30».

L’indomani all’ora stabilita, sentii bussare. Elena aveva le lacrime agli occhi. «Mia mamma non mi lascia venire. Dice che non posso uscire con uomini che non conosce. Non è che potresti scendere e dire che sono malata? Non dovrebbe essere difficile riconoscerli. Dario, quello che mi ha invitata, non è tanto alto, veste bene, ha la testa un po’ grossa».
Mi venne da ridere. Guardai Elena, lei mi ricambiò lo sguardo e sorrise anche lei.
«Non preoccuparti, gli dico che stai male. Ma poi?

Vado lo stesso? Lui aspettava te». Le detti un buffetto sulla guancia e scesi le scale, pensando in fretta a come comportarmi. In strada, la luce mi accecò per un istante, sbattei le palpebre e davanti a me si parò un uomo che doveva aver passato i 30 anni. Con dei begli occhi nocciola e un sorriso candido. ”Sì, la testa è un po’ grossa” pensai divertita. Mi tese la mano. «Buon giorno, sono Dario. Lei è la signorina Consuelo, vero? L’ho vista ballare. È stata straordinaria, e conoscerla è un piacere. E la signorina Elena? Non è ancora pronta?». Spiegai che non stava bene spiando il volto del giovanotto, per cogliere i segni della delusione. «Mi dispiace molto, spero si tratti di un malessere passeggero» ribatté lui educatamente, senza cambiare espressione. «Posso presentarle il mio amico Giorgio?». I due uomini mi guardavano. Sorrisi.

«Allora vogliamo avviarci?» disse Dario. «Conosce il ristorante Le fontane? È a due passi». Non lo conoscevo, era un posto di lusso e mangiammo benissimo. Dario mi fece molte domande sul mio lavoro e sulla Spagna, ma si parlò anche dell’Italia. Dopo pranzo, si offrì di riaccompagnarmi.

Da quel giorno, venne al night quasi tutte le sere e in camerino mi arrivavano fiori, cioccolatini, canditi. Il proprietario del locale ci propose altre due settimane di spettacolo, accettammo. Dario mi invitò di nuovo al ristorante. Andai a cuor leggero, le sue attenzioni mi lusingavano, ma per lui non provavo niente di speciale. Presto avremmo lasciato Milano per Genova, e la cosa sarebbe finita lì.
Quel giorno però lui mi raccontò cose che non mi aveva ancora rivelato. Mi disse di essere sposato e di avere una figlia. Il matrimonio era stato combinato dalle famiglie, entrambe facoltose. Lui all’epoca aveva 19 anni, lei 21. «Una donna che stimo, ma non ci siamo mai amati, viviamo separati da sei anni. Io naturalmente provvedo a lei e alla bambina».

Non avevo sospettato che avesse una famiglia. Rientrai di cattivo umore. Ma che mi importava? Partimmo per la Liguria, che mi piacque subito. Faceva più caldo e c’era il mare. Saremmo rimasti due settimane a lavorare in un locale vicino al porto. Il sabato mettemmo in scena una nuova coreografia: ricordo ancora mio fratello Antonio tutto vestito di bianco, con la camicia col colletto di pizzo e una fascia nera alla vita. Io avevo le trecce, un bustino rosso, una gonna a fiorellini che la sottogonna teneva aperta come una corolla. La gente batteva le mani, urlava con entusiasmo. Con un po’ di stupore, riconobbi la voce di Dario. Dopo lo spettacolo, dietro le quinte, arrivò un suo biglietto col quale invitava noi e tutti gli artisti a cena in un ristorante. Era molto tardi e probabilmente i camerieri stavano facendo gli straordinari per noi. Mangiammo fave, salame e pesci fritti vicino al mare. Io bevvi del vino e sulla terrazza, per la prima volta, Dario mi baciò. Mi lasciai andare solo per pochi istanti, perché subito mi vennero in mente sua moglie e sua figlia e la sbornia svanì. Mi chiese di rivedermi l’indomani a pranzo, dopo sarebbe rientrato a Milano. Dissi che avevo già un impegno. Domandò dove saremmo andati dopo Genova e io gli parlai candidamente di Bologna. Venne a vedermi anche là. Era la nostra ultima tappa in Italia, poi saremmo andati in vacanza a Carcassonne, in Francia, dove ci avrebbero raggiunti mia madre e mio fratello Diego. Da lì, saremmo partiti per la Germania. Ma a Dario non lo dissi. Salutandomi, mi raccomandò di scrivergli, io assicurai che lo avrei fatto, ma non lo pensavo affatto. Invece, a Carcassonne, mi accorsi con sorpresa che mi mancava sul serio. Pensavo a lui, ne parlavo con le mie sorelle.

E così, davvero presi la penna e scrissi. Blanca, che si era innamorata di un cuoco romano, cominciò a dire che forse la tournée in Germania, non era stata una buona idea. Era un Paese freddo e non sapevamo una parola di tedesco. Voleva tornare in Italia. Io appoggiai la sua proposta e ripartimmo per Milano. Appena riuscì a vedermi da sola, Dario mi dichiarò il suo amore: non voleva più che ballassi, dovevo andare a vivere con lui. Ma disse anche che non aveva una sola figlia. Mi aveva mentito. Perché oltre alla ragazzina, c’erano due gemelli più piccoli. Io ormai ero innamorata, mi fidavo di lui e la nuova confessione non cambiò i miei sentimenti. Mia madre era venuta a Milano con noi, emozionata le raccontai tutto.

Lei mi gelò. Vivere con un uomo sposato era inaccettabile, il divorzio allora non esisteva. Non solo, io e Antonio, eravamo il fulcro degli spettacoli, i veri ballerini, e io mi occupavo anche delle coreografie. Se me ne fossi andata la compagnia si sarebbe sciolta. Seguì una penosa riunione di famiglia, durante la quale i miei fratelli restarono in silenzio. Vedendo che non mi convincevo, mia madre andò a chiamare il proprietario del night. Era un uomo alto, grosso, gioviale e con un paio di baffoni che mettevano allegria. Nel mondo un po’ opaco dei locali notturni, spiccava per la rettitudine. Quando mia madre gli spiegò la situazione, lui si lanciò in un monologo. Spiegò che Dario frequentava il suo night da tempo e che non ero la prima ragazza che invitava a vivere con lui.

«Le convince a lasciare il lavoro, le prende con sé, ma si stanca presto e tutto finisce» disse. Poi guardandomi negli occhi: «Consuelo, tu sei brava, buona, intelligente, bella. Non rovinarti la vita per quel tipo. È un perditempo, non ha intenzioni serie. E poi che cosa farebbero i tuoi fratelli senza di te?».
Mi sentii morire. Piansi per ore. L’indomani, dissi alla mia famiglia che capivo tutto quanto. Che sapevo che Dario non era l’uomo giusto, ma che non avrei mai trovato la forza di respingerlo. Se lo avessi rivisto, sarei andata con lui. Allora, gli scrissi una lettera di commiato. Un amico di Antonio mi ospitò a casa sua, sparii dal Cavallino blu. Poco dopo accettammo un lavoro in Libia. Trovammo un locale misero, dove il pubblico era spesso equivoco. Dormivamo in due camere squallide. Ci trovavamo male e lo stesso era per gli altri europei, che lavoravano con noi. Cantanti, illusionisti, ballerini che arrivavano soprattutto dall’Italia e dalla Germania. Diventammo amici, poi inseparabili. Un ragazzo tedesco si dichiarò, ma non gli detti corda.

Poi una sera Blanca corse da me: «Consuelo, in sala c’è Dario».

Il cuore mi salì in gola, mi precipitai verso il punto del night che mi indicava mia sorella. Un groviglio di emozioni mi si agitava dentro. Lui era pallido e nervoso. Non mi sorrise. Mi disse che mi aveva cercata all’indirizzo di Carcassonne e anche in Spagna, al mio paese. Alla fine si era presentato al Cavallino blu con una pistola minacciando il titolare che gli aveva detto che ero a Tripoli. D’un tratto sentii la mia voce che lo interrompeva, era calma e distaccata. Gli dissi di non cercarmi più, perché era finita; non volevo più vederlo, neanche se fossi tornata in Italia. Lui si mise a gridare, mi urlò che se mi avesse rincontrata mi avrebbe sparato, rovesciò un tavolino e uscì.

Dopo la Libia lavorammo in Libano e in Grecia, spostandoci con i nuovi amici che ci eravamo fatti a Tripoli. Una parte del gruppo ci seguì anche a Bologna, dove alla fine, tornammo. E anche quella volta fu Blanca a vedere Dario per prima. «Ancora» esclamò preoccupata. Ero con due amiche di Tripoli che d’istinto si misero davanti a me.

Lui però sembrava tranquillo. Spiegò che stava andando a Rimini per passare il fine settimana con i figli. Aveva visto il cartello del nostro spettacolo ed era venuto a salutare e a scusarsi. Se ne andò dopo aver bevuto un drink dicendomi che avrebbe dormito in un albergo vicino e che sarebbe ripartito l’indomani.

«Perché continua a cercarti? Ha girato mezza Europa». Mia mamma era furiosa. «Questa storia deve finire, niente vi lega».
Ripetevo fra me e me, le parole di mia madre. Ma perché stavo male? Perché tutto mi sembrava sbagliato? Quella notte rimasi sveglia a pensare. «Se sbaglio sarò io a pagare» mormorai alla fine più volte nel buio. L’indomani mi alzai molto presto e andai all’albergo di Dario, quasi correndo. Lo avvertirono che ero nella hall, scese con un’espressione incredula e felice. Uscimmo all’aria aperta e camminammo a lungo, parlando, senza accorgerci delle strade che percorrevamo e del tempo che passava. Era pomeriggio quando ci fermammo a mangiare qualcosa. Rientrammo in albergo che già imbruniva e salimmo in camera insieme. Da allora, non ci siamo più separati. Le gioie sono state tantissime e ci sono stati anche i dolori. Abbiamo avuto due bambini. Lui si è preso cura di me e della mia famiglia.

Lo stesso ho fatto io, per lui e per i suoi figli, che ho accolto come fossero miei, dopo la morte di sua moglie e anche prima. La vecchiaia purtroppo, spesso porta con sé la malattia, possono esserci giorni bui e duri. Quando capita, se il tempo lo permette, mi siedo su questa seggiola e rileggo la lunga lettera che Dario, dopo la nostra prima notte, scrisse a mia madre. La lettera era travolgente. “Signora, io e Consuelo ci amiamo, siamo fatti l’uno per l’altra. Sono sicuro che Dio – se, come credo, Dio è amore – vorrà benedirci, perché noi ci amiamo incondizionatamente, limpidamente, senza calcolo di sorta”. Poi chiudo gli occhi e rivedo un pomeriggio in montagna. Noi due giovani, con gli sci ai piedi, a ridere e a giocare nella neve. ●

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