Le lancette dell’addio

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia più apprezzata del n. 16 di Confidenze, dedicato ai nuovi autori del progetto “Scrivi con noi”

 

Sono tanti gli eventi di quel giorno che mi fanno pensare che papà abbia voluto proteggermi, a scapito di se stesso. Da allora vivo tenendo a mente che ogni minuto scandito è una carezza che la vita ci concede e che il tempo non va sprecato

STORIA VERA DI MARIA ROSARIA P. RACCOLTA DA MARCO ANGILLETTI

 

Nella mia visione del mondo, l’armonia interiore è sempre stata un diadema sul capo dell’anima. In quel periodo, ogni morso che davo alla vita era un minuzzolo di gioia, capace di procurarmi floridezza. O meglio, felicità. Preferisco chiamarla con il nome più autentico. Ne era inebriata la mia casa, costruita con sacrifici, insieme all’uomo che mi aveva portata all’altare, un anno prima. Ne era debordante il mio seno di madre a cui si attaccava il mio primo figlio; nove mesi appena. La consapevolezza di tanto slancio emozionale metteva i giusti tocchi di mascara alle pupille fulgide di una me, migliorata e realizzata. Ero una donna felice, per davvero. Più di tutti i sogni confusi che collezionavo da adolescente, nelle passeggiate tra gli chalet di Mergellina, con le amiche di scuola. Mi sentivo così all’apice della felicità, oltre ogni giuntura della mia corazza, da non avvertire affatto la paura di un’interruzione improvvisa.
Quella mattina mi alzai presto. Nella penombra della cucina, ancora prima di tuffarmi con le narici nel caffè macinato, scostai la tenda della finestra. Le scariche elettriche del temporale rischiaravano il paesaggio a mo’ di scatti fotografici. Il tempo non era migliorato per nulla, dalla sera precedente, e non si confaceva né a quel 26 aprile, né alle cartoline della mia città. Napoli senza sole ha la stessa impersonalità di un ritratto su cui ancora mancano i tratteggi delle labbra e degli occhi. Mi preparai alla svelta, un bacio a mio marito e una carezza piumata al piccolo che dormiva come un angelo nella culla. Poi presi l’ombrello e uscii di casa. Lavoravo come segretaria in un’azienda di import-export nella zona di Casalnuovo. Sono sempre stata una donna indipendente, se potessi, lo farei scrivere sulla carta di identità: due braccia e due gambe operose, un metro e 65 con smisurato senso di dovere civico, iride castano scuro, una bocca e una testa laboriose mai disposte a spegnersi. Nonostante i pochi passi che mi separavano dall’auto, le onde more dei miei capelli persero ogni abbozzo di forma. Il vento e la pioggia scompigliavano ogni cosa. Girai la chiave e partii. Nei cinque minuti scarsi di traffico in uscita dalla città, ripensai al sogno strambo che avevo fatto: mi ero ritrovata tra le mura di casa e la temperatura era calda, caldissima, come quando da piccola avvicinavo il volto al forno a legna acceso, pronto a saziare di pane la mia famiglia. Un uomo sconosciuto mi era venuto incontro a passo veloce, e mi aveva abbracciato molto forte. Ricordavo alla perfezione il suo montone color tortora e, alla me sognante, quel giaccone era parso un ossimoro sdraiato tra la freschezza di un abbraccio e il caldo esagerato. «Sarà la voglia di estate che mi tormenta» mi raccontai ad alta voce, in una spensieratezza che il destra-sinistra incessante dei tergicristalli tentava di cancellare. Non accesi neppure la radio quella mattina; ero abituata a respingere ogni distrazione quando l’orchestra metereologica si dilettava a imporre la sua musica. L’aria era priva di vitalità, percepivo il peso dei suoi aliti intorno a me, in una forma anomala, ingombrante e soda. Il manto stradale dissestato era un deserto di fango, ogni indizio di luce, proveniente dagli anabbaglianti, si evolveva in uno scarabocchio sbiadito dagli scrosci di acqua. Il tachimetro sfiorava appena i 50 all’ora, quando iniziai a sentire un rumore che si amplificava tra i sedili, associato a una vibrazione dello sterzo. A un certo punto un movimento ondulatorio prese il controllo dell’auto e mi trascinò verso destra, quasi ci fosse una forza esterna. Realizzai di avere una gomma bucata. Su una strada difficile, sotto un inquieto temporale, nessun passeggero con me. La giornata non era iniziata affatto bene e a quel tempo i telefonini non esistevano. Accostai con le quattro frecce accese, consapevole di dovere fare i conti con la rabbia e l’agitazione. Scesi un attimo per verificare: la ruota era proprio a terra. Nei film più sdolcinati, gli acquazzoni finiscono presto, sboccia un sole risolutivo, talvolta pure un arcobaleno e ti ritrovi asciutta in uno schiocco di dita. Nella vita reale, ogni tempesta ha i suoi tempi, ti intimorisce molto di più, ti strattona.

Eppure qualcuno o qualcosa viene sempre a salvarti. Fu così anche per me. Dallo specchietto retrovisore vidi una luce e la sagoma di un uomo, abbassai d’istinto la chiusura di sicurezza della portiera e me lo ritrovai con la faccia accostata al finestrino, a picchiettare sul vetro. Malgrado la pioggia, i suoi lineamenti mostrarono sembianze rassicuranti, i suoi occhi mi sembrarono salvifici, provai sollievo.

«Ha bisogno di aiuto, signora?» strillò con educazione. Prima mi aiutai con i gesti, poi calai il finestrino.
«La gomma davanti! Credo di avere bucato».
«Stia tranquilla, me ne occupo io. Apra il bagagliaio». Il sorriso di quella frase me lo ricordo ancora. Un uomo, disposto a prendersi cura di me e a inzupparsi di pioggia. Scesi dalla macchina per alleggerire il peso del cric e anche quello della mia anima che, dopo il timore iniziale nei confronti dello sconosciuto, aveva deciso di dividere con lui perlomeno le insidie del maltempo. Ci lamentiamo tanto dell’indifferenza che attanaglia il quotidiano e, quando le circostanze della vita ci svelano l’esatto contrario, proviamo un arrendevole senso di colpa per essere stati noi i primi, in altre situazioni, a non aver speso abbastanza per l’umanità. Fu velocissimo, mi chiedevo se facesse quello per mestiere. «Fatto, signora. Stia tranquilla, tutto si risolve». Lo salutai e ringraziai senza troppi vezzi, forse avrei dovuto farlo meglio, chiedergli il nome e l’indirizzo, recapitargli un regalo. Aggiustai lo specchietto retrovisore prima di partire e solo allora realizzai: dietro la mia auto non c’era nessun’altra macchina. L’uomo era svanito. Guardai nello specchietto di sinistra, nulla. Girai il collo verso il cruscotto posteriore e ancora nulla. Non vedevo né le luci di un’auto in sosta, né un camion, né una moto. In quel preciso istante, un brivido attraversò tutto il mio corpo, la pelle d’oca disegnò la mia cute come un camaleonte che freme per nascondersi dall’ignoto. Chi era quell’uomo? Da dove era arrivato? E dove diavolo era finito? Il soprannaturale e le cose inspiegabili mi hanno sempre affascinata, sin da bambina. In quel contesto, però, la ruota era stata cambiata davvero. Non me la sentivo di etichettare l’episodio come un dono sovrumano. O forse, non volevo.

Sette ore al lavoro trascorsero veloci. Tornai a Napoli, a casa dei miei genitori. Gennaro era andato a lavorare e aveva accompagnato nostro figlio da mia madre. Abitavamo in due palazzi vicini e lo stare insieme era di continuo una bellissima festa; l’amore è anche baldoria e da noi era sempre di casa. Entrai e iniziai a sbaciucchiarmi il bambino. Come sempre gli mordicchiavo le cosce per farlo ridacchiare, sembrava un cioccolatino con quella carnagione scurissima. «Papà non è tornato, vero?» chiesi a mia madre.
«Lo hai visto tu? Starà facendo il Marlon Brando della situazione in Basilicata». Lei sfoggiava sempre un brioso umorismo anche nelle risposte dell’ovvio. Mio padre si era recato a Potenza per faccende lavorative. Per tutti era un mercante d’arte, per me, l’uomo migliore del mondo: giocherellone, attento alle esigenze dei suoi tre figli, goliardico nell’affrontare la vita. Anche da sposata,
in ogni abbraccio che mi dava percepivo il respiro di un leone che protegge il suo cucciolo. Quel giorno papà doveva effettuare una consegna e, insieme a lui, era andato anche mio cugino. «Ieri sera Gennaro gli aveva proposto di rimandare il viaggio, visto il tempo. Domani ha il giorno di riposo, poteva accompagnarlo lui». Mia madre mi sorrise con tenera strafottenza. «Lo scoglione di Marechiaro è meno duro della testa di tuo padre. Tu da lui hai preso!». Io risposi con una smorfia come facevo da bambina. Era quasi l’ora di cena e il temporale iniziava a dare tregua. Di colpo bussarono alla porta con insistenza e sobbalzammo tutti. Andai ad aprire. Sull’uscio trovai mia zia, la sorella di papà, con un Carabiniere al seguito. Ero una donna felice, per davvero. Qualcuno, quel giorno, poggiò un polpastrello sull’interruttore e il circuito elettrico della felicità si ricordò di avermi illuminata già abbastanza. Mio padre era morto. Mio cugino era morto. 54 e 24 anni. Il destino, la malasorte, Dio, il malocchio. A distanza di 30 anni, non so ancora come definire la mano che spense la luce. So soltanto che all’improvviso mi ritrovai nel buio, il più nero della mia esistenza. Era un nero di seppia: mi schizzò addosso più violento di una bomba, fece da inchiostro alla stesura di pagine tristi, imbrattò ogni cosa. Puzzava di marea nera e di moria di pesci, falcidia di emozioni. Quella pioggia che mi aveva colta impreparata si era rivelata più furiosa del previsto: per me, una gomma bucata, mio padre e mio cugino finiti fuori strada, morti, i loro respiri usciti di scena per sempre.

«Non ho parole. Non avrei mai voluto darvi una notizia del genere». Il Carabiniere levò il berretto e lo accompagnò giù verso la coscia.

Gli ululati di dolore si abbatterono sulla casa con la stessa forza della perforazione assordante e distruttrice di una trivella. La nostra foresta non poteva restare senza leone. La mia preoccupazione da madre, in quel momento, era quella di soffocare l’esternazione del dolore pur di salvaguardare mio figlio, così piccolo per comprendere, eppure troppo vivo di emotività per restare esente da quell’uragano. Mandai a chiamare la vicina di casa e lo affidai a lei. Lontana dagli occhi del bambino, abbassai ogni difesa e diedi fuoco alla miccia del mio supplizio. Sprofondai in un abisso di lacrime e grida disperate. Non riuscivo a calmare mia madre, il mio cuore si rifiutava di accogliere la notizia, non potevo rinunciare al mio primo grande amore. Presi la cornice con una foto del matrimonio dei miei genitori, la accarezzavo e la tenevo stretta al petto. Alzai lo sguardo verso il grande orologio da parete, appeso nel soggiorno, e crollò ogni speranza che quella notizia non fosse vera. Le lancette si erano fermate e nessuno di noi se ne era accorto. Andai di corsa in cucina, in affanno, guardai l’orologio anche lì: pure quelle lancette erano ferme. Mi fiondai nella camera da letto a controllare la sveglia sul comodino, i battiti mi squarciavano la gola come frustini di spine. Anche lì, le lancette erano immobili. Abbracciai forte mia madre, in preda al panico e alle lacrime. «Si sono fermate. Le lancette si sono fermate. È tutto vero!».

Mio fratello abbassò lo sguardo verso l’orologio da polso. Nemmeno un ticchettio: papà era morto davvero. Le urla si fecero più lancinanti, stravolte dalla furia. Mio padre era un burlone, degno sposo dell’ironia di mia madre, e quella frase ripetuta più volte mentre ridevamo e scherzavamo noi la avevamo interpretata come una burla: «Quando morirò, si fermeranno tutti gli orologi di casa».

Una sentenza. Non era uno scherzo, piuttosto un’indiscrezione cruda e devastante scaturita quasi sicuramente dalla sua abitudine di farsi leggere la mano e i fondi di caffè. Il paranormale è una tenaglia con un braccio di autenticità e un altro di immaginazione. Quando riesce a estrarre il chiodo della bilancia nei passi della tua vita, ti accorgi se pesa di più il piatto del “ci credo” o quello del “non ci credo”. Ora ci credo anche io.

Mio fratello, appena maggiorenne, fu l’unico a recarsi a Potenza per il riconoscimento e per riportare entrambi nella loro amata Napoli. Noi altri preferimmo conservare, come ultimo ricordo, i volti di papà e di mio cugino sereni, non sfigurati dal sangue. Il soggiorno dei miei, il pianerottolo, il palazzo, il cortile, i parcheggi, il quartiere, ogni luogo, si era affollato di gente impegnata a riempirsi la bocca del nome dei nostri cari e dei racconti sulle dinamiche dell’incidente. Non eravamo stati neppure i primi a saperlo: il telegiornale della Basilicata ne aveva dato notizia ancora prima che bussassero alla porta e che la nostra vita cambiasse. L’albero della mia famiglia finì per essere scorticato dalle megere della morte. Graffiarono via ogni strato di corteccia, spezzarono i rami, azzannarono le radici per farci vacillare. Solo oggi mi rendo conto di quanto ci siamo autodifesi l’uno nell’abbraccio dell’altro; se siamo ancora qui, integri a metà, è perché abbiamo trovato una fonte di conforto proprio in quelle radici.

Arrivò il giorno dell’addio. Non avevo mai visto così tanta gente per un funerale. Le due giovani vite spezzate toccarono il cuore di mezza Napoli.
Io mi sentivo debole, sconquassata, per certi versi però miracolata. Non me lo leverà mai nessuno dalla testa che la morte ha preso mio padre, e non ha fatto sbandare me quel giorno.

Qualcuno che mi proteggeva ha persino mandato un angelo travestito da uomo, a cambiare la ruota della macchina, e a infondermi tranquillità.
Il pomeriggio del funerale era un anticipo di estate, faceva caldissimo. Alla fine della funzione religiosa, il mio sguardo fu rapito da un uomo che avanzava spedito verso di me. Non riuscivo a credere ai miei occhi: era lo sconosciuto che mi era apparso in sogno, aveva addosso quel montone, identico. Mi abbracciò forte. Avvertii la stessa sensazione di caldo, di protezione, di stranezza che avevo provato nel sogno. Gli chiesi chi fosse. Era un vecchio amico di mio padre venuto dal Nord per rendergli omaggio; aveva appreso la triste notizia e si era messo sul primo treno. Dalle sue parti non era ancora primavera e il montone che indossava ne era la prova. Scoppiai nell’ennesimo pianto. Tutto tornava, tutto si collegava, tra l’onirico e il reale.

E ancora oggi continua a essere così. Non sono l’unica che ha dovuto dire addio a una persona cara, a causa di un incidente. Credo di essere la sola, però, che da allora, coltiva una vera ossessione per gli orologi. Temo che le lancette possano fermarsi e che io debba essere costretta a tenere testa, di nuovo, alla fine di qualcosa. È una smania che si ripercuote, puntale, su ogni orologio che mi appartiene. Li fisso di continuo. Se nel silenzio li sento ticchettare male, mi precipito a cambiare immediatamente le batterie.

Da allora, però, vivo tenendo bene a mente, che ogni minuto scandito dalle lancette è una carezza che la vita ci concede. Dopo la morte di papà, ho promesso a me stessa che il tempo non si sarebbe mai più fermato a casa mia. Perché quando un giorno le lancette si bloccheranno pure per me, almeno non vivrò alcun rimpianto, e potrò lasciare serenamente questo mondo, con il migliore degli addii. ●

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