Da uomo a uomo

Cuore
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Mio padre stava per risposarsi. Lui, che non aveva mai smesso di passare da una donna all’altra, mi invitava a conoscere la sua futura moglie come se fossi un amico. Ci andai, ignaro che avrei messo in moto uno tsunami irrefrenabile

Storia vera di Guido G. raccolta da Greta Bienati

 

«Mi sposo!». Sullo schermo del mio portatile, il volto di Claudio appariva raggiante. «Il grande giorno è il 15 ottobre, nella nostra villotta in Monferrato» aggiunse.«Sono davvero felice per te» sorrisi.

Preciso subito che Claudio è mio padre. Ma non ha mai voluto che lo chiamassi papà. Ha sempre detto che preferiva avere con me un rapporto diverso, da uomo a uomo, fin da quando avevo due anni. «Non sono così tanto più vecchio di te» ha sempre ripetuto.

In effetti, tra noi ci sono meno di 20 anni di differenza. La sua storia con mia madre era stata poco più di un amore estivo tra il bel ragazzo italiano e la turista inglese appena maggiorenne, sedotta dal calore del Mediterraneo. Quando lei gli aveva detto di essere incinta, lui l’aveva raggiunta a Londra e avevano vissuto insieme per un anno, che mia madre definiva il gradino più basso dell’inferno. Se non era riuscito a essere un buon marito, Claudio era stato però un padre molto presente, nonostante la distanza geografica. Fin da piccolissimo, ogni estate, trascorrevo le vacanze con lui nella sua grande casa del Monferrato, affacciata sulle vigne. Per me, che vivevo in una metropoli, quel mondo di campi, uva acerba e assoluta libertà era il paradiso. Potevo uscire la mattina presto e restare fuori tutto il giorno a cercare le cicale e rubare i fichi, mentre i contadini mi insegnavano il dialetto piemontese e mi abituavano al loro vino robusto. Insieme a Claudio, facevamo lunghi giri con la sua splendida moto rossa fiammante, giocavamo a calcio oppure costruivamo piste per le biglie, tra il nespolo e gli oleandri.

Quando avevo 11 anni, a scuola mi assegnarono il più classico dei temi: “Descrivi il tuo migliore amico”. Non ebbi un istante di esitazione: “Il mio migliore amico si chiama Claudio” cominciai. Ogni estate, nella villotta del Monferrato, arrivava per qualche giorno la fidanzata del momento. Erano tutte bionde, alte, bellissime. Facevano di tutto per mostrarsi gentili con me, con il risultato che io fuggivo a nascondermi tra le vigne fino a quando non se n’erano andate. Con le donne, d’altra parte, sono sempre stato l’esatto contrario di Claudio: timido, impacciato, sempre in cerca di quella giusta da sposare, per costruire una famiglia che durasse per tutta la vita. Credevo di averla trovata in Lydia, che avevo conosciuto sul lavoro. Era bella, dolce, di ottima famiglia londinese. Naturalmente, il primo a cui parlai di lei fu Claudio.

«Sì, ma c’è tanta passione tra di voi?» mi chiese, diretto ed esplicito come al solito.

«Sì… sì certo» arrossii come uno scolaretto.

«Perché senza passione, la vita non è vita» mi strizzò l’occhio. Nella sua vita piena di passione, la notizia del suo imminente matrimonio era perciò una vera sorpresa.

«Melania è diversa da tutte le altre» mi disse nella videochiamata. «Non posso vivere senza di lei». Sorrisi a quell’espressione così enfatica. Ma Claudio era sincero. Il suo sorriso, infatti, non aveva quella piega asimmetrica che mia madre mi aveva insegnato a riconoscere come il segno inequivocabile delle sue bugie. Anche di quelle che raccontava a se stesso. D’altra parte, a me Claudio non mentiva mai.

«Naturalmente devi portare anche Lydia» aggiunse. «Passeremo una splendida settimana tutti insieme, come una vera famiglia. Contento?». Il tono aveva una sfumatura canzonatoria, ma io ero davvero felice di quella inattesa vacanza: una settimana nel mio adorato Monferrato, insieme alle due persone che amavo di più. Era anche l’occasione per mostrare a Lydia i luoghi della mia infanzia, di cui le avevo tanto parlato.

Il viaggio, però, si rivelò subito diverso da quel che avevo previsto. «Non riesco a partire con te» mi disse dispiaciuta Lydia. «Una riunione che non ho potuto rimandare. Arriverò la sera dopo».

Partii da solo, e da solo arrivai nella villotta della mia infanzia. Sotto il sole stanco di ottobre, le curve morbide delle colline sfumavano nel vapore azzurro dell’orizzonte. Ritrovai tutto come lo avevo lasciato, compreso il pallone mezzo consumato e la moto rossa fiammante. Ero seduto sotto il nespolo a godermi quella quiete, quando suonò il telefono: era Claudio.

«Un maledetto cliente a cui non posso dire di no» digrignò. «È arrivato stamattina, mi si piazza qua per tre giorni e io devo portarlo in giro come fossi un autista».

«Ma come farai con i preparativi del matrimonio?» chiesi.

«Guido, devi aiutarmi» rispose. «Melania arriva da Torino oggi pomeriggio con il treno delle cinque. Vai a prenderla, e dalle una mano tu. Io cercherò di liberarmi».

«Ma come la riconosco?».

«Alta, bionda, bellissima» rispose Claudio.

“Ovviamente“ pensai.

Alla stazione di Asti, però, la prima cosa che notai nella sconosciuta che scendeva dal treno non fu il colore dei capelli, così simile al biondo che scaldava i vigneti già vendemmiati. Quello che mi colpì fu il suo incedere, elegante ed energico al tempo stesso, metà da regina e metà da montanara.

«Melania, giusto?» mi avvicinai tendendole la mano. «Sono Guido, il figlio di Claudio».

Non mi accorsi subito che quello sarebbe stato l’incontro più importante della mia vita. Certo, quando Melania puntò gli occhi nei miei, mentre mi stringeva la mano, un’ondata di calore mi salì alle guance. Ma ero abituato ad arrossire davanti alle fidanzate di Claudio, anche se, adesso, erano mie coetanee. Capii che quel giorno avrebbe cambiato la mia vita per sempre, mentre ero seduto a un tavolo affacciato sulle vigne, davanti a un calice di vino rosso.

Melania aveva voluto fermarsi a bere qualcosa, per godersi il tramonto che colorava di rosso il cielo e le colline.

«Claudio non avrà mica intenzione di scappare davanti all’altare» rise. E quella risata incatenò i miei occhi. La guardai incantato, mentre divorava i friciulin, dicendo che non aveva mai mangiato niente di più buono in vita sua.

Lei parlava di Claudio, e io sorseggiavo lentamente quel vino color del sangue, che portava la sua risata in ogni mia fibra. Quando, nel blu del crepuscolo, si accese il filo delle lampadine, ero ormai perdutamente innamorato di lei.

«Allora stasera saremo soli alla villa?» chiese Melania.

A quell’idea, il cuore mi accelerò nel petto.

«Si, ma domani arriverà Lydia, la mia fidanzata» mi affrettai a precisare, aggrappandomi all’idea che l’indomani, senza il vino e con l’arrivo di Lydia, tutto sarebbe tornato alla normalità. Per tutta la notte, mi rigirai nel letto. L’odore di mosto saliva dalle vigne a impregnare le lenzuola e ad annebbiarmi la mente. Mi alzai prestissimo e spalancai la finestra. Ai piedi delle colline, la foschia azzurrina svaniva a vista d’occhio al sorgere del sole. Poche ore, e Lydia avrebbe dissipato allo stesso modo quella specie di malia che mi aveva catturato la sera prima. La chiamai subito, per sentire la sua voce.

«Stavo per chiamarti io» mi rispose ancora assonnata. «Mi dispiace, ma devo rimandare la partenza».

«Come sarebbe?» balbettai.

«Devo sostituire una collega malata» rispose. «Ma arriverò in tempo per il matrimonio». Lydia scambiò il mio smarrimento per semplice delusione. «Potremmo restare lì per qualche giorno dopo il matrimonio» propose. Nella stanza accanto, distinsi il rumore dei passi di Melania. «D’accordo» riuscii a mormorare. Scesi al piano di sotto. Scarmigliata e senza trucco, Melania preparava il caffè. Era ancora più bella del giorno prima.

«Ho visto che c’è una moto in garage» disse. «Tu sai guidarla?».

Annuii. Claudio mi aveva insegnato ad andare in moto quando ancora faticavo ad arrivare ai pedali.

«Fantastico!» sorrise. «Allora vuol dire che mi porterai in giro con quella». Guardò la sua lista di indirizzi e cose da fare. «Per prima cosa, dobbiamo trovare le camere per gli invitati» disse. A cavallo della moto di Claudio, percorremmo per tutto il giorno campi e vigneti, alla ricerca di alloggi e locande. Intorno a noi, il mondo era azzurro e oro, come solo nelle belle giornate di ottobre. Ci fermammo a mangiare sotto un pergolato, unici ospiti nella quiete del martedì mezzogiorno. Lei gustava con golosità i nostri vini e i nostri formaggi. Io bevevo ogni sua parola e ogni suo sguardo come un assetato.

“Pochi giorni e sarà la moglie di Claudio” mi ripetevo. Ma era inutile. Inutile e patetico era anche il mio tentativo di pensare a Lydia. Come in uno specchio stregato, i capelli castani prendevano il colore caldo e dorato delle vigne, il volto mutava, come una nuvola nel vento, ed ecco che appariva davanti ai miei occhi l’immagine di Melania.

 

 

Quella notte vegliai immobile, lo sguardo al soffitto, tendendo l’orecchio alla stanza accanto, per indovinare dal suo respiro o dal cigolio del letto se fosse sveglia come me. Nel tempo sospeso e sempre uguale degli incantesimi, trascorsero due lunghissimi giorni di delizia e di tortura, di paradiso e di inferno, avvolti dalla luce morbida dell’autunno, che sfumava il mondo in lontananza.

Il pomeriggio del terzo giorno, il mondo si ripresentò alla porta sotto forma di un corriere, con un pacco indirizzato a Melania. Lei lesse il mittente, prese il pacco e salì in camera sua. La seguii con gli occhi e rimasi a fissare le scale. Passarono cinque minuti, ne passarono dieci, i miei occhi sempre fissi alle scale, aspettando che lei ricomparisse. In gola, un’inquietudine tanto soffocante quanto immotivata. Mi riscosse lo squillo del suo telefono, dimenticato sul tavolo della cucina. Elisa, diceva lo schermo. La benedissi, chiunque fosse, perché mi dava una scusa per salire i gradini a due a due. «Melania, il telefono» bussai. La porta era appena accostata, e si aprì da sola. Davanti allo specchio, Melania provava il suo abito da sposa. Nel petto, mi esplose un dolore sordo e violento. Dimenticai il telefono, Lydia, una vita intera. Le afferrai un braccio e la costrinsi a voltarsi. «Non sposarlo, ti prego!».

Con l’audacia della disperazione, la strinsi tra le braccia e la baciai. Non era la prima volta che baciavo una donna. Ma quell’annullarsi sulle sue labbra, quel perdersi in un altro respiro, quello sì, era del tutto nuovo. Uno smarrimento e una felicità insieme, come dev’essere quella della goccia che si perde nel mare. La mia estasi durò poco più di un momento. Una mano sbatté sulla mia spalla. Spalancai gli occhi e mi voltai.

Prima che potessi capire, mi ritrovai sul pavimento, col segno di un cazzotto sullo zigomo e Claudio che mi fissava sulla porta, la bocca piegata dalla rabbia e gli occhi sbarrati dall’incredulità.

«Fuori di qui!» ruggì.

Poche ore dopo, atterravo a Londra. Chiamai un taxi, e mi feci portare subito a casa di Lydia. «Che cosa è successo?» si stupì lei quando aprì la porta. La guardai in silenzio per quasi un minuto: gli occhi, i capelli, i tratti del volto. In quei pochi giorni li avevo dimenticati, e adesso mi suscitavano l’indifferenza che suscita un’estranea.

«Niente» mentii. «È meglio che non ci vediamo più».

Lydia mi guardò come fossi impazzito. «Che cos’hai?» pianse. «Non ti riconosco».

Non mi riconoscevo più nemmeno io. Il lavoro, gli amici, la vita di tutti i giorni mi risultarono subito intollerabili. Erano solo perdite di tempo che mi impedivano di restare da solo con un ricordo che aveva preso la forma di una vera e propria malattia. Cercare di opporsi era inutile: più mi sforzavo di dimenticare Melania e più la sentivo dentro di me, come se fremesse nelle mie vene e nei miei nervi. Un vero e proprio dolore fisico, che conosceva una e una sola medicina. Inaspettatamente, l’unica che sembrò intuire qualcosa fu mia madre. Mi osservò senza una parola per settimane. Poi mi accarezzò la spalla, mentre guardavo fuori dalla finestra. «L’Italia è come una malattia» mi sorrise. «Non te ne liberi mai. Per tutta la vita». La guardai stupito. Era chiaro che non parlava del paesaggio. Si versò una tazza di caffè lungo, si sedette e lo sorseggiò con calma.

«Non mi avevi detto che il matrimonio di tuo padre era saltato» disse.

«Saltato?» mi voltai.

Con aria di nulla, mia madre si nascose nella tazza di caffè. «Così mi hanno detto amici comuni».

Afferrai il cappotto e quel filo di speranza. Meno di tre ore dopo sorvolavo le Alpi. «Possibile?» mi chiedevo. E, nel ricordo, mi illudevo di veder balenare nel suo sguardo il mio stesso desiderio e la mia stessa pena. Il traffico di Torino non mi era mai sembrato così lento. Lasciai al tassista una mancia sconsiderata, pur di non aspettare il resto. Salii i quattro piani senza aspettare l’ascensore. Davanti alla porta, però, mi fermai con la mano a mezz’aria, per trattenere ancora per un istante quel tempo in cui tutto era possibile. «Devo sapere» mi decisi.

Bussai come si bussa alla porta del destino. Lei aprì.

Senza una parola, si buttò tra le mie braccia, come se mi avesse aspettato lì, in piedi nell’anticamera, da settimane. Riuscii a dirle solo poche, pochissime parole: «Non posso vivere senza di te. Vuoi sposarmi?».

Melania non mi lasciò nemmeno finire la domanda: «Sì!».

Avrei potuto chiamarla felicità, se non fosse che non si può essere felici, sapendo di aver ferito qualcuno a cui vogliamo bene. Di Claudio non avevo più avuto notizie. Mai, in vita nostra, eravamo rimasti così tanto tempo senza nemmeno sentirci al telefono. Mi venne in aiuto il caso, o forse il fatto che Torino resta una città di provincia, in cui è inevitabile incontrarsi, prima o poi. Era un pomeriggio di fine agosto e andavo in agenzia a prenotare il viaggio di nozze, quando vidi una fisionomia nota, seduta al tavolino di un caffè in piazza Castello. Non lo riconobbi subito: invece della solita T-shirt, indossava una camicia e portava degli occhiali da vista al posto delle lenti a contatto. Mi sedetti di fronte a lui e, senza nemmeno aspettare che mi salutasse, andai dritto al punto: «Io e Melania ci sposiamo» dissi. Claudio aspirò la sua sigaretta, senza dire una parola. Mi sorpresi a pensare che lo vedevo invecchiato. O, forse, era solo adulto per la prima volta. Sempre in silenzio, spense con cura il mozzicone nel posacenere. Poi si alzò e fece per andarsene, senza nemmeno salutarmi. “Non mi perdonerà mai“ pensai.

Due passi, e Claudio si fermò. «Avete già deciso dove sposarvi?» chiese senza voltarsi. Preso alla sprovvista, balbettai un no. In realtà io e Melania non avevamo nemmeno avuto bisogno di dircelo: il nostro sogno era sposarci là dove ci eravamo conosciuti. Ma era chiaro che sarebbe stato più facile sposarsi sulla luna.

«La villotta è perfetta per un matrimonio» disse Claudio. Si voltò e aggiunse: «Ma non posso prometterti che ci sarò». L’accenno di sorriso prese una piega asimmetrica, rivelando una bugia, raccontata prima di tutto a se stesso. Mi alzai e sorrisi anch’io.

«Grazie, papà» lo abbracciai.

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