Dal balcone di Minù

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia più appezzata sulla pagina Facebook questa settimana. Dal n. 29

 

Mia mamma non ha mai lasciato il cortile della grande casa di famiglia dov’è cresciuta. La rivedo oltre quella ringhiera impegnata a mandare saluti, ed è così che vorrei ricordarla. Anche se quelle mura si sono trasformate in un bacio di Giuda

STORIA VERA DI GIULIA I. RACCOLTA DA MARCO ANGILLETTI

 

Esistono piccoli luoghi talmente impregnati di storie e respiri da apparire immensi nelle emozioni. Anche il quartiere della mia infanzia è così: una schiera di case basse nel ventre della città, dove si conserva intatta la bellezza dei borghi di provincia. Porte a doppio battente lasciate sempre spalancate, come se qualunque viandante fosse autorizzato a richiedere asilo. Il palazzotto della mia famiglia è uno scorcio di presepe in pietra antica, povero all’apparenza, ma ricco di tradizione. Si accede da un cancello che nessuno chiude mai, fino ad arrivare a una corte interna piena di vasi fioriti da cui si diramano i gradini di altre abitazioni. Quando ero bambina, ci si radunava con familiari e vicini nello slargo comune, seduti su sedie di paglia e ceppi di legno. I sacrifici di una famiglia diventavano il sudore di tanti, le croci sul pane sfamavano più bocche, le tavolate a festa non risparmiavano nessuno. È un luogo capace di raccontare pagine di storia: i graffi della fame, il riposo delle mani di agricoltori, i suoni dei telai antichi e addirittura gli sfregi della guerra. Fu proprio una bomba del secondo conflitto mondiale, caduta a due passi da lì, a segnare per sempre la vita di Anna, mia madre. Ancora neonata, mio nonno riuscì a metterla in salvo tenendola stretta al petto, ma le esplosioni le lasciarono una cicatrice insanabile: la perdita dell’udito.
Quell’handicap macchiò la purezza di una casa distinta, punto di riferimento per tutto il rione, per la buona posizione economica e per un intenso legame con la fede. Nel palazzotto, infatti, viveva anche una parente ritenuta miracolata e divenuta una guida spirituale con proseliti da ogni dove. Quella casa è sempre stata un santuario: c’era chi bussava per lavoro, chi per chiedere aiuto o ospitalità, chi per pregare.

Nel quartiere ci misero poco, ahimè, ad affibbiare a mia mamma un appellativo da scarto di fabbrica, la sordomuta. La prima a vergognarsi di lei era proprio sua madre. Il padre, al contrario, fu la sua salvezza: si occupò di farla studiare e di renderla una ragazza perbene. Le permise finanche di sposarsi. Il matrimonio non si rivelò felice come aveva sognato, ma da quell’unione nascemmo io e mio fratello, le sue più dolci ragioni di vita. Per mia madre era come avere un Cristo tascabile: suo padre prendeva parola e i farisei non la lapidavano, almeno davanti a lui.
Da sposata, da donna incinta, da anziana, mia mamma non ha mai lasciato il cortile della grande casa di famiglia; era il suo angolo di mondo e non sarebbero stati di certo i giudizi della gente a farla andare via. Mi viene in mente quel celebre film del regista Özpetek, Mine vaganti. Ecco, lei è la mia mina vagante. Ha portato il disordine, ha scombinato tutto, ha cambiato i piani. Una sordomuta di altri tempi che si è sporcata le mani, ha lavorato, ha fatto figli e addirittura si è separata.
«Dovrebbe baciare per terra per aver trovato un uomo che se l’è presa, minorata com’è». Così ripetevano in tanti.
Lei, però, non ha mai perso la forza, malgrado i pianti nascosti e i dolori più intimi. Lo aveva capito sin da giovane, grazie al padre: se nasci con un fardello, neppure la terra straniera ti renderà libera e leggera, se non sei tu per prima ad accettare la tua croce. Lei ha scelto la strada dell’autoinclusione nella società. E la ammiro. In un certo senso mi sono ispirata a questi insegnamenti quando ho scelto di fare del sostegno scolastico la mia professione.

L’immagine più bella di mia madre è quella di lei poggiata con i gomiti sulle antiche ringhiere del suo balcone. Dal lato opposto al cortile, la casa si affaccia su una strada trafficata con varie attività commerciali: una tabaccheria, una caffetteria, un panificio, un negozio di casalinghi. Se ne sta lì affacciata, mentre la vita le scorre sotto i piedi, e ammira orgogliosa la chiesetta del Santissimo Rosario di fronte a lei, costruita per volontà dei suoi antenati. Chiunque passa la saluta e lei ricambia piena di brio, oltre a scambiare qualche battuta, perché a modo suo riesce a farsi capire. È buona di cuore, anche se sembra che con tutti quei sorrisetti voglia beffarsi della gente.

Il balcone è l’emblema della sua fierezza, un pulpito da cui continua a rimarcare la sua presenza: “La sordomuta è qui e resiste, alla faccia vostra!”.

I miei amici le hanno dato un soprannome, la signora Minù, come l’arzilla vecchina dai poteri magici, protagonista di un cartone animato giapponese; grazie a un cucchiaino con un campanellino che tiene appeso al collo, ogni volta che si presenta un problema, lei diventa minuscola per magia e affronta le difficoltà, aiutando chi ha bisogno. Hanno ragione i miei amici, si somigliano davvero. Mamma è piccola di statura e caparbia come Minù. Pure il cucchiaino magico le si addice, considerati tutti i caffè che prepara ogni giorno.

Casa sua è un porto di mare, pullulante di amiche e conoscenti che le fanno visita a tutte le ore. Nonostante l’età, mia madre è una donna indipendente e, pur abitando a poca distanza, sono rare le volte in cui si stabilisce da me. Si gode i nipoti per qualche giorno e poi, in modo puntuale, chiede di essere riaccompagnata. Le amiche e le vicine la reclamano, si tengono compagnia a vicenda. Ogni tanto mi arrabbio perché sembra che dia più importanza a loro che alla nostra famiglia, poi capisco che è soltanto il desiderio di non sentirsi sradicata da quei luoghi che ha dovuto conquistare con gli artigli. D’altronde sono felice per l’amore che quelle signore le riescono a donare.

Da qualche anno, il mio caro amico Patrizio si è stabilito nell’appartamento accanto a quello di mia madre. Si prende spesso cura della signora Minù come un angelo custode e io mi sento ancora più tranquilla. Lo prendiamo sempre in giro per i modi teneri che sfoggia con le anziane della zona: un giovane galletto in mezzo alle galline vecchie!

Da un po’ di settimane percepisco un velo di inquietudine sul volto di mia madre. Il diabete continua a provocarle scompensi e vederla smarrita non fa altro che accrescere le mie paure. La cosa che mi impensierisce di più è che continua a chiedere soldi: temo che la memoria la stia abbandonando.

È una donna tanto autonoma e in parte anche gelosa delle sue cose. È l’unica intestataria del conto corrente dove conserva i suoi risparmi di una vita. Io e mio fratello ci limitiamo alle operazioni di prelievo allo sportello automatico, visto che lei è poco tecnologica. Ritiriamo una certa somma al mese che poi la signora Minù nasconde in una nicchia nel muro, dietro un grande quadro, e la gestisce per le piccole spese di tutti i giorni.

A parte gli acciacchi dell’età, per il resto è lucidissima. Possibile che gli episodi di dimenticanza riguardino solo la gestione del denaro? Decido di tenerla d’occhio, finché una sera mi disorienta più del solito.
«Mi servono 400 euro».
«Te li ho lasciati la scorsa settimana. Come fai a non averne più?».
«Ne ho bisogno.Vai a prelevare, dài».
In sua presenza, sollevo il quadro dalla parete e nella nicchia trovo soltanto 20 euro.
«E gli altri soldi? Cosa ne hai fatto?».
Mi guarda con aria di sopportazione e forzata condiscendenza. Per naturale disposizione non tollera gli interrogatori, pure se a farli è qualcuno della famiglia.
Uno, due, tre. Con le dita scandisce perentoria ogni spesa affrontata. «Ricarica del cellulare, bolletta della luce, fruttivendolo, un po’ di spesa…».

Resto di stucco. La spesa più consistente gliela porto sempre io. Sono poche le cose che le sue braccia gracili riescono a trasportare dai negozi del quartiere.
«Hai speso tanti soldi in una settimana, mamma» le faccio notare.

Si scaglia contro di me come una furia: il fatto che non si esprima con la voce non le impedisce certo di parlare. Mi accusa di trattarla come una rimbambita, di non fidarmi di lei e di voler gestire i suoi averi. Ne viene fuori il solito alterco, uno di quelli che negli anni ho imparato a giustificare. Ci resto male, certo, perché più mettiamo amore nelle intenzioni, meno viene compreso a volte. Giro i tacchi e torno a casa mia.

Quella stessa sera, il mio amico Patrizio sente un gran vociare provenire da casa di mia madre. Si avvicina alla parete per ascoltare meglio e riconosce le voci delle altre vicine. I toni sono accesi, ma non si preoccupa più di tanto, ormai ci ha fatto l’abitudine. Con una persona sorda si tende quasi sempre a urlare.

Sarà il sesto senso o la reazione spropositata di mia madre, ma decido di prelevare 400 euro e di metterli nella nicchia. Appena la informo, mamma lascia trasparire un respiro di sollievo.
Passano pochi giorni e la storia si ripete: i soldi sono spariti.
Non so cosa pensare, se alla demenza o al fatto che qualcuno ne stia approfittando quando lei va a fare compere. Ne parlo con Patrizio, gli confido i miei timori e gli chiedo di prestare attenzione a ogni dettaglio. Mi racconta del vociferare di qualche sera prima e vengo a sapere che le visite a casa di mia madre da parte delle amiche sono diventate sempre più frequenti, soprattutto a tarda sera.
Nel giro di una settimana, tra appostamenti e racconti origliati, uno strano quadro inizia a delinearsi.

«Il generale ha detto che servono soldi» riferisce una di loro.
Mia madre esprime tutta la sua difficoltà a farsi portare da me altro denaro. Fa capire di essere quasi disperata. «In qualche modo dobbiamo aiutarlo. Troviamo altri 400 euro».

La rabbia mi scatena impeti di follia. Il timore che stiano ingannando un’anziana e che le possano estorcere denaro mi fa vomitare. Credo siano tutte vittime, lei e le sue amiche, di chissà quale malfattore. Affronto mia madre, con meno calma del previsto, nel tentativo di farle sputare fuori il rospo. Lei per tutta risposta ribadisce che non ha dato soldi a nessuno, abbozza repliche senza capo né coda e si pone aggressiva, scontrosa, fingendo di non capire, come se io stessi ostacolando amicizie e sentimenti che non sono degna di comprendere.

In tutto il trambusto delle ore successive, la sua salute va a peggiorare in maniera così repentina da costringermi a trovare una badante in fretta e furia, visto che declina per l’ennesima volta l’invito a trasferirsi da me. Povera ragazza! Mamma la tratta a pesci in faccia e poi se la prende con me.

«Sei un’ingrata. Mi tieni in gabbia come i carcerati».
Ho la sensazione che qualcuno le abbia fatto il lavaggio del cervello. Mi sento in colpa, però, per essere la causa del suo peggioramento: ho sollevato un polverone su una situazione non del tutto chiara.

Dopo varie insistenze, alla fine, mia madre depone l’ascia e confessa l’amara verità. Alcune vicine, quelle che noi reputiamo amiche, le hanno raccontato una storia inverosimile. Un generale si sarebbe messo in contatto con loro perché un nostro parente è in pericolo di vita e ha bisogno di importanti interventi chirurgici.

«È un mio zio, come faccio a non aiutarlo?» ribadisce lei furiosa.
«Quale zio? Sono morti tutti».
«Un fratello illegittimo di mio padre. Ha solo me come parente, non posso ignorarlo». Le cosiddette “amiche” hanno sfoderato l’arma più sicura di tutte, l’unica corda debole, quella che avrebbe annullato ogni tipo di sospetto o perplessità: il legame con l’amato padre, colui che l’ha salvata dalla gogna, la figura più onorevole e venerata della sua vita.

«Ti rendi conto che, se fosse vero, quest’uomo dovrebbe essere ultracentenario?».
La sua collera però è più forte di qualunque ragionamento logico, non riflette più. Il problema sono io che sto ostacolando un’opera di carità.

Oltre alle somme di denaro sottratte in casa, abbiamo scoperto che sul conto corrente manca buona parte dei risparmi di mia madre. Che meschinità! Si sono presi la briga di accompagnarla negli uffici postali per fare il suo dovere e salvare un uomo immaginario.

Quando affronto le vicine di casa e i loro figli, convinta che le signore non abbiano fatto tutto da sole, scateno un vero e proprio caos. Le vene mi escono dal collo, respiro a fatica. Prendo le redini della mia mina vagante. Litigi, urla, finti malori, in seguito denunce e avvocati. Loro ovviamente negano ogni cosa e noi non sappiamo neppure quanto possano aiutarci le prove racimolate.

Sono trascorse poche settimane. Osservo mia madre, accovacciata su una sedia con lo sguardo fisso contro i vetri. La tristezza le disegna addosso un piglio di percettibile stanchezza, come se fosse invecchiata di colpo. L’ho costretta a svelare l’arcano, la sto proteggendo, ma continuo a sentirmi in colpa perché le ho fatto il vuoto intorno. La sua casa non è più un porto di mare e sembra che lei abbia deciso di lasciarsi andare: mangia sempre meno, non parla, ha occhi smarriti. Ha passato gli anni della gioventù a disegnare il suo posto nel mondo e, in vecchiaia, hanno osato estinguere il suo sorriso e oltraggiare i ricordi di famiglia. La mia anima è disintegrata.

Mamma è svenuta. La portiamo in ospedale, siamo costretti a ricoverarla e dagli accertamenti viene fuori che un brutto male la sta consumando.
Il tempo per metabolizzare non ci concede rinvii. In pochi giorni, mamma vola via, verso un cortile sicuramente più onesto. L’ultimo respiro lo ha donato alla sua adorata casa, attorniata dall’amore di chi le vuole bene davvero.

Al di là di come andrà a finire con la giustizia, io ora mi sento un fantasma vagante tra sabbie mobili di rabbia e paludi di amarezza. Quel cortile, quella casa, quelle mura antiche che per decenni hanno raccolto storie di benevolenza e gentilezza, si sono trasformate nel bacio di Giuda più straziante che potessi immaginare. Ora che mamma non c’è più, faccio fatica a tornare là. Non sono ancora capace di sfidare il dolore. L’unica cosa che

riesco a fare è passare sotto casa sua. Quando i lampioni illuminano la sera, parcheggio la mia auto sotto il grande albero e inizio a fissare il balcone. Mentre fumo una sigaretta, la ricordo oltre quelle ringhiere, impegnata ad agitare le braccia per mandare saluti. È quella la signora Minù che vorrei tutti ricordassero, una donnina che si è fatta stendardo di libertà e ha piantato più speranze che gerani. Basta una tempesta soltanto a rovinare la semina di un’intera esistenza.

Ma l’amore di una figlia non conosce stagioni e, fino a quando avrò voce, continuerò a raccontare di lei. Perché la signora Minù possa farsi piccola piccola ancora una volta, per entrare nelle tasche di tutti, bussare alle coscienze e ricordare a chiunque quanto sia importante proteggere i nostri affetti. Perché quando non ci saranno più, i balconi resteranno muti, i campanili sordi, ma le bombe continueranno a esplodere tra le malinconie del cuore. ●

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