Dieci chili in due mesi

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog “Dieci chili in due mesi” di Roberta Giudetti, pubblicata sul n. 37 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate dalle lettrici questa settimana 

 

Li ho persi per stuzzicare un collega. ripetendo l’eterno copione: aver cura del mio fisico solo per piacere a un uomo, mai a me stessa. Senza badare al dolore che davo a mio marito

Storia vera di Silvia A. raccolta da Roberta Giudetti

 

Non so voi, ma io odio l’estate. Non è che la detesto davvero, solo che non la amo come la maggior parte delle persone. L’estate porta il caldo e il caldo costringe a scoprirsi. A mostrarsi. E io non ho mai amato il mio corpo. Ho sempre desiderato essere magra e invece, fra alti e bassi, sono sempre stata una simpatica cicciottella.

Le mie amiche a 14 anni sognavano già il grande amore o almeno di uscire con Tiziano della terza B, il più carino della scuola; io no. Andavo a letto sognando di risvegliarmi magrissima. Mi concentravo con attenzione sui dettagli di come sarebbe cambiata la mia vita se solo fossi stata esile e minuta e, quando mi svegliavo, scostavo piano piano prima la coperta e poi il lenzuolo nella speranza folle che il sogno si fosse avverato e fossi dimagrita in una notte. Sognavo di svegliarmi nei panni di un’altra, come se davvero essere più magra potesse anche mutare la mia personalità. In parte avrebbe potuto essere così: sarei stata una ragazza e poi una donna più sicura se non avessi avuto bisogno di tante conferme sul mio aspetto, soprattutto da parte dei ragazzi.

Tutti i problemi del mondo, per me, si sarebbero risolti dimagrendo, e non c’era nessuno in grado di farmi ragionare. Ero talmente stupida da desiderare di ammalarmi per non mangiare, ma questo, grazie al cielo, non è mai accaduto.  A 16 anni non avevo ancora capito un granché della vita, ma ben presto avevo compreso che qualsiasi cosa di brutto o di bello mi fosse capitata, avrei dato la colpa al mio aspetto fisico e ai miei chili di troppo. Sarebbe stata la mia scusa per tutto.

Non ero obesa, ero solo una bambina paffutella. Ricordo come fosse ieri un’estate al mare di molti anni fa, io e mia cugina Miriam. Avremo avuto 9 anni, non di più. Avevo una zazzeretta da maschietto che mia madre considerava tanto pratica. Miriam era perfetta: aveva lunghe trecce color miele ed era magrissima. Lei aveva una serie di costumini vezzosi con volants, io un costume blu di mia sorella maggiore, un due pezzi che mi stava malissimo. Quando mi sedevo, le mie tre panciottine erano impossibili da nascondere.

Ricordo che, appena mi accovacciavo sulla sabbia, mia cugina Miriam correva ad afferrarmi e, ridendo forte, me le pizzicava con foga. «Guardate… Guardate! Silvia ha tre pance… Venite a vedere».

Non erano proprio tre pance, era una panciottina che, sedendomi, faceva le pieghe, così mi diceva mia mamma. Io, rossa in viso, le lacrime che mi salivano agli occhi, restavo lì, immobile, a farmi deridere da tutti mentre si divertivano a pizzicare le mie tre pance. I bambini sanno essere davvero cattivi a volte. Credo sia per questo che ancora oggi odio l’estate e i bikini.

Ero una bimba golosa, è vero, e i miei genitori adoravano vedermi mangiare e non mi davano un freno. Mi piaceva fare merenda con le crostate che mia mamma preparava con le sue mani, oppure con del buon pane, burro e marmellata. Ma non ero una vera mangiona, ero robusta di costituzione, lo era anche mia sorella maggiore.

Con l’adolescenza le tre pance sono sparite, fra rinunce e tanto nuoto. Ero diventata una bella e florida ragazzona.

Forse un po’ troppo florida: a 16 anni portavo già una quarta di reggiseno, un vero incubo. Innanzitutto perché non potevo indossare nulla di quello che mi sarebbe piaciuto indossare e poi perché c’era sempre qualche cinquantenne che mi fissava proprio lì.

Appena arrivava l’estate e toglievo gli strati, qualche signore sull’autobus si fermava a guardarle e sorrideva. E io mi sentivo avvampare, arrabbiata e confusa.

Avrei voluto portare una seconda come la mia amica Paola che sfoggiava splendide salopette jeans con magliette attillate che adoravo; ecco, quello era esattamente il modo in cui avrei voluto vestirmi a 16 anni, ma non potevo farlo.

Non esisteva una salopette in grado di camuffare il mio seno prosperoso. Non potevo indossare dolcevita o maglioni troppo accollati perché risaltavano ancora di più, solo camicie morbide, maglioni con scollo a V molto larghi, meglio se scuri. Così, almeno, mi sentivo a mio agio.

Ho impiegato molti anni a fare pace col mio corpo, ma non ci sono mai riuscita davvero e ho continuato a usare il mio aspetto come un alibi.

 

Solo dopo aver seguito molte diete ed essere andata da esperti di alimentazione, ho raggiunto risultati abbastanza soddisfacenti. Non soffrivo di nessuna disfunzione, ma il mio metabolismo non era esattamente una scheggia. Dovevo solo imparare a mangiare, evitare le overdosi compensatorie, ma soprattutto dovevo educarmi a non usare il cibo come un riempitivo. Tutti i miei vuoti, di qualsiasi natura essi fossero, li sedavo con una pizza, una tavoletta di cioccolata o un tiramisu. Durante gli anni del liceo non ho avuto nessun fidanzato, a differenza delle mie compagne, anche se ormai ero notevolmente dimagrita. Ho iniziato ad avere meno appetito quando mi sono innamorata di Davide. Era il più bel ragazzo che avessi mai visto. Alto, spalle larghe, lunghi capelli castani: come avrebbe potuto uno così bello innamorarsi di una cicciottella come me? Grazie alla cotta per Davide ho perso otto chili e una taglia di reggiseno in due mesi.

Ancora ne porto i segni, piccole smagliature ferme lì a rammentarmi tutte le mie paure. Davide è stata una vera botta di autostima per me, tre anni spensierati di giovane amore. Finalmente iniziavo ad avere l’aspetto che avevo sempre desiderato e questo mi aveva resa più sicura di me. Il mio umore e il mio atteggiamento verso il mondo dipendevano sempre da che taglia di jeans stavo indossando in quel periodo. Sopra la quarantasei, diventavo schiva, mi sentivo ingombrante, ma trasparente, ritenevo improbabile che un uomo potesse solo posare per un attimo il suo sguardo su di me. Magari mi avrebbe presa in considerazione per una chiacchierata reputandomi una brillante compagnia, ma di certo non mi avrebbe mai desiderata. Sotto la quarantaquattro, diventavo più spavalda e seduttiva. Potevo mostrare il mio corpo senza vergognarmi. Restare nuda accanto a un uomo senza temere critiche. Amare. E fare l’amore. Potevo concedermelo solo se, guardandomi nuda allo specchio, non mi imbarazzavo di me stessa, delle mie forme.

Nel frattempo mi ero laureata e avevo iniziato a lavorare. Io e Davide ci eravamo lasciati, ma senza tragedie, restando persino amici. I miei colleghi scherzavano spesso con me e avevo un buon rapporto anche con le colleghe.

Ero diventata la donna che avevo sempre desiderato essere: bella, magra, disinvolta, soddisfatta. Poi mi sono innamorata. Questa volta davvero. E Alberto era un uomo fantastico, interessato più alla sostanza che all’involucro, l’uomo che avevo sempre cercato. Anche il sesso con lui era favoloso. A volte, dopo l’amore, mi scattava delle foto. Niente di volgare o osé. Dio come mi vedevo bella attraverso i suoi occhi.

«Ferma così… Non muoverti. Sei bellissima».

Era lui che mi faceva sentire così. Che tirava fuori questa parte di me. Ma io e Alberto eravamo anche altro. Eravamo libri, cinema e arte. Eravamo amore. Fiducia. Stima. Per questo ci siamo sposati. Una cerimonia e una festa da favola. Ho mangiato tutto al nostro matrimonio, altro che sposina inappetente: dall’antipasto alla fantastica torta con la crema Chantilly.

Dopo un anno di matrimonio ero ingrassata cinque chili. Non facevo più caso alla bilancia, ero serena e poi sapevo che Alberto non badava a certi dettagli. Avevo abbassato la guardia. Me ne accorgevo solo per i pantaloni del tailleur che stringevano in vita sempre più, ma non mi importava. Poi sono rimasta incinta di Alessia. Ero così felice e stavo talmente bene che sono aumentata venti chili. Chili che non ho più perso.

Poi è nata Chiara e infine Lucia. Ero una mamma ormai, non mi importava se il mio corpo era tornato quello delle tre pance. Il nido era pieno, caldo, palpitante. Non avevo più un corpo per il piacere o il desiderio, ero una madre. Ero un rifugio.

Con Alberto ero felice. Di sesso ne facevamo sempre meno, ma chi ne aveva il tempo? Ero tornata a essere la cicciottella di una volta. Tanto simpatica ma poco desiderabile. Con i maglioni larghi con lo scollo a V sopra il seno grosso e, dopo tre figlie, ormai anche cadente. Niente abitini, nessuna gonnellina o maglietta sfiziosa, ma solo jeans, camicie larghe, nere e scarpe basse.

Associavo da sempre al mio corpo eccessivo un abbigliamento mortificante.

Alberto non lo cercavo, a volte ci pensavo, ma aspettavo che fosse lui a prendere l’iniziativa. Ero gelosa delle sue colleghe, ma in cuor mio mi sono sempre fidata di lui.

 

 

Quando le ragazze sono cresciute, però, ho iniziato a pormi delle domande. Perché mio marito non mi diceva mai nulla? Perché non pretendeva una maggiore partecipazione? Magra, grassa, allegra, depressa, a lui andava tutto bene. A un tratto, non mi sembrava più possibile. Alberto non poteva essere così perfetto. Non poteva essere davvero ancora innamorato di me come quando ero magra e bella: non a caso, forse, non mi aveva più scattato nemmeno una foto. Ed ecco di nuovo avanzare quei vuoti. L’antica insicurezza che mi portava a sabotare la mia vita. Dopo tanti anni, ero di nuovo al punto di partenza. Come se dalle mie rotondità dovesse dipendere la felicità mia e quella di chi mi stava accanto. Alla fine di tutti quei viaggi mentali mi sono sentita trascurata da Alberto. Era uno strano circolo vizioso quello che percorrevano i miei pensieri: Alberto non attribuiva importanza al mio aspetto fisico, eppure non mi cercava; era chiaro che non gli piacevo più però fingeva il contrario. Nel frattempo io ero sempre più depressa e grassa. Questa la giustificazione che mi ha portato a guardarmi attorno. Mai avrei creduto di andare fino in fondo però.

C’era un nuovo collega in ufficio, Federico, e mi piaceva. Piaceva a tutte: era un uomo affascinante, con quell’aria da marpione che urta i nervi, ma alla fine incanta. Quando c’era lui, sorridevo e cinguettavo come un fringuello.

Ma come potevo piacere a un uomo con tutti i chili in più che mi portavo sui fianchi? Nella mia vita avevo affrontato tutte le diete possibili, dalle più serie alle più improvvisate, ma niente come una cotta era in grado di chiudermi lo stomaco. A quasi 50 anni ero davvero ridicola, eppure lo sentivo che non mi sarei fermata se solo mi avesse dato corda. In due mesi ho perso la testa e dieci chili. La situazione dapprima era innocua, ci si stuzzicava a vicenda. Poi è precipitata. Mi sono sentita sempre più corteggiata e coinvolta. Tutto il repertorio tipico dell’immaginario di una cinquantenne in crisi. E, come in uno scontato copione, noncurante di quello che stavo mettendo a rischio, ho tradito Alberto. Per quasi un anno. L’ho ingannato in tutti i modi possibili e ho inventato ogni scusa pur di stare con Federico. Il mio guardaroba era di nuovo colorato e dannatamente femminile, avevo eliminato i mutandoni stile Bridget Jones sostituendoli con dei tanga così sexy che nemmeno a 20 anni li avevo mai sfoggiati. Proprio non mi capacitavo di come Alberto non si fosse accorto di nulla. Indossavo di nuovo una taglia che mi faceva sentire bella e sicura. Ma stavo buttando all’aria non solo un matrimonio, ma la relazione più importante della mia vita e anche la mia famiglia. Mi sentivo un’immatura bamboccia in cerca di gratificazioni.

Per mesi sono andata avanti senza che i sensi di colpa mi sfiorassero. Imperturbabile. Dopo qualche tempo, ho iniziato a soffrire di forti mal di gola: mi svegliavo e stavo bene, ma, ora di sera, la gola bruciava. Sentivo come un blocco alla laringe per cui non riuscivo a parlare. Ma l’otorino non aveva trovato nulla, nemmeno con un esame approfondito. Era la verità che si faceva strada. Poi una mattina, dopo l’ennesimo messaggio di Federico in cui mi pregava di inviargli qualche foto per farlo sognare, dopo che mia figlia Lucia mi aveva quasi sorpresa in bagno intenta a fotografarmi per l’appunto, mi sono sentita finalmente uno schifo. “Ma cosa stai facendo? Una vita ad accampare scuse“ mi sono detta. Di fronte allo specchio, mentre fissavo la mia immagine, non riuscivo più a compiacermi del mio aspetto. «Sei una stronza egoista» ho sussurrato a denti stretti. «Non ti piaci? Impegnati. Fallo per te stessa non per piacere a un uomo. C’è bisogno di farti un amante per ritrovare la tua femminilità?».

 

 

La mia analista sostiene che, ogni volta che mi sono sentita in pericolo per motivi diversi, ho cercato di occupare più spazio attraverso il mio corpo, acquistando peso. Ogni volta che mi sono sentita poco importante o inadeguata, ho accusato il mio aspetto e il mio peso di essere la causa di tutto. Un circolo vizioso da interrompere. Questa cosa la devo ancora capire bene, ma sta di fatto che ho lasciato Federico e il suo farmi sentire bella e desiderabile come fossi una ventenne.

Ho chiesto di cambiare ufficio ed è finita. Ma finché non ho affrontato Alberto e gli ho raccontato tutto non sono riuscita ad andare avanti. Ho aspettato che fossimo soli, che le ragazze fossero fuori e gli ho raccontato tutto.

«Credevi che non me ne fossi accorto? Ma eri su un treno da cui non sarei mai riuscito a farti scendere. Ho aspettato che fossi tu a desiderare di farlo».

La sua razionalità, inizialmente, mi ha tramortita. Poi ho compreso che ognuno si difende come può e come sa. Non so se riuscirà davvero a perdonarmi, a superare, ma apparentemente tutto è tornato alla normalità. Ho riacquistato ben sette dei dieci chili persi. Sono di nuovo al sicuro. Al riparo dalle tentazioni.

Alberto ha un cuore grande, non mi merito un uomo così. La nostra psicoterapeuta sostiene che le relazioni extraconiugali sono quasi sempre uno sfogo, sono come scosse di terremoto che provocano assestamenti, ma non crolli. Sostiene che sono destabilizzanti, ma funzionali alla coppia sposata e che la causa di un tradimento non si può mai attribuire a uno solo dei due per cui, diligentemente, stiamo lavorando su di noi. Sulle reciproche responsabilità. Ma io, temo, continuerò a sentirmi una grassa stronza per il resto dei miei giorni.

 

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