Il mio albero

Cuore
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Ogni volta che passo davanti a quella casa non più mia, un nodo mi stringe la gola. Allora mi fermo, e cerco con lo sguardo il punto in cui sorgeva l’albero

Storia vera di Sandra M. raccolta da Simona Busto

Il grosso abete occupava una grande porzione del giardino, i suoi rami più bassi toccavano il terreno con le punte creando una sorta di capanna naturale capace di proteggere chiunque da sguardi esterni. Chiunque, o forse solo una bambina dalla fantasia troppo spiccata che amava rifugiarvisi ogni giorno, per sentirsi protetta insieme ai propri sogni. L’unico capace di trovarmi a colpo sicuro perfino lì era Birillo, il mio meticcio dal pelo perennemente arruffato, che amava prendersi cura di me anche quando ero immersa nei miei mondi immaginari. Ogni giorno, a qualsiasi ora, scappavo in giardino e mi rifugiavo sotto il mio albero, a volte anche solo per leggere un libro in santa pace. Più spesso però la mia casa frondosa prendeva i contorni dei miei sogni a occhi aperti, tramutandosi ora in una capanna posta al centro di un’isola deserta, ora in un castello abitato da un bellissimo re. Sgattaiolare sotto gli aghi appuntiti equivaleva a entrare in una nuova dimensione, in cui tutto era possibile e in cui sono nate splendide avventure. A interrompere le mie fantasticherie era quasi sempre mamma con la sua voce squillante e un po’ inquieta.
«Sandra!». Il mio nome risuonava vivido dieci, venti volte, finché, rassegnata, non scivolavo fuori dal mio rifugio e mi avviavo verso casa, con Birillo alle costole in riverente contemplazione.
Oggi quando passo davanti a quella casa non più mia, un nodo mi stringe la gola. Allora mi fermo, e cerco con lo sguardo il punto in cui sorgeva l’albero. Non è rimasto più nulla a ricordarne la muta presenza rassicurante di un tempo, ma io so che c’era, e questo mi basta per far uscire i ricordi da un cassetto della memoria, per tramutarli in un fiume in piena.
«Mamma, perché piangi?». Me l’ha chiesto una sola volta, il mio meraviglioso bambino, mentre io restavo immobile a contemplare le ombre del passato, ma quell’unica domanda è bastata a farmi comprendere che era tempo di lasciar andare i ricordi per tenere saldi i miei tesori presenti. Eppure non riesco a camminare davanti a quella casa senza fermarmi. Lì la mia nostalgia diventa incontenibile, e mi brucia l’anima. Quante storie ho inventato in quei giorni in cui la fantasia galoppava come un cavallo impazzito. A volte mi riprometto di scriverle, per trarne delle fiabe da dedicare ai bambini. Non l’ho mai fatto. Chissà, forse un domani darò incarico a qualcun altro di mettere quei sogni sulla carta, per farli volare via, lontano da me e vicino ai cuori dei bimbi. Mi sembra di vederli ancora: le principesse e i draghi che mi volteggiavano intorno sotto i rami dell’abete, e gli uccellini feriti che le mie mani potevano magicamente curare. Ho attraversato nella mia vita tanti di quegli specchi che l’Alice di Carroll non saprebbe neppure contarli.
E dall’altra parte ho conosciuto bellissimi principi alati. Qualcuno aveva ali piumate, altri invece ne sfoggiavano di variopinte simili a quelle delle farfalle. Non era sempre una gioia allontanarmi da casa, nemmeno se era per visitare città capaci di offrire tutti i divertimenti che una bambina avrebbe potuto desiderare. Un po’ odiavo le vacanze. Perché lontana dal mio albero non sapevo sognare bene. Il mio castello frondoso mi provocava momenti di profonda nostalgia ogni volta che mi separavo da lui.
Ricordo anche troppo bene il giorno in cui tutto iniziò a cambiare, perché fu quando il mio adorato Birillo ci lasciò. Avvenne all’improvviso, lui era vecchissimo, ma io, ancora ragazzina, non ero in grado di rendermene conto. Sapevo solo che avevo perso un amico e un compagno di giochi, il più dolce e affettuoso che mai avrei potuto trovare. I pomeriggi sotto l’albero parevano più tristi, e i principi meno belli, più misteriosi e cupi. A volte immaginavo grandi mostri, e correvo a nascondermi dietro il tronco dell’albero, appiattendomi sotto i rami più grossi, con il cuore in gola e il sangue che mi martellava le tempie. Era difficile abituarsi allo scorrere della vita.
Fu così che mi ritrovai troppo grande, quasi incapace di scivolare lì sotto, nel mio rifugio tanto amato, troppo grande per varcare quella barriera che separava la realtà dalla fantasia e che aveva una porticina adatta solo ai piccini. Mi guardavo allo specchio, e capivo che i miei vestiti da bambina stonavano su quel corpo ormai di donna, in cui il seno si era sviluppato precocemente e che già attirava gli sguardi maschili con una curiosità priva del sapore dell’innocenza. Tutto stava divenendo difficile, anche le azioni più semplici, che percepivo ammantate di una rabbia a cui non sapevo dare una motivazione. Solo più avanti avrei capito che quella furia senza un perché veniva da me, era parte della mia crescita, e cercava solo una valvola di sfogo.
Poi la vita mi sferrò  un colpo micidiale. Mio padre lasciò la casa in cui avevamo sempre  vissuto senza alcun preavviso. Semplicemente se ne andò, abbandonando mia madre che, diceva, non amava più. La mia rabbia adesso aveva un bersaglio, ben delineato e chiaro. Sfogavo su di lui il dolore per la mia nuova condizione di figlia di genitori separati, insieme a quella di adolescente in piena crisi di ribellione. Lui non capì, e arrivammo al punto in cui nei suoi occhi leggevo solo riprovazione. Mi sentivo un ostacolo sul percorso della sua nuova vita e mia madre non sapeva come aiutarmi per riposizionarmi al centro del mio mondo. Anche perché lei per prima avrebbe avuto bisogno di compiere la medesima operazione su se stessa. Eravamo due anime femminili spezzate e logore, incapaci di reagire da sole. Fu allora che i cavalli alati e le piccole fate svanirono. Smisi di recarmi sotto il grande albero, e accesi sempre più spesso la televisione. Avevo compiuto da poco i sedici anni quando mamma mi disse che era necessario vendere la casa: papà pagava sempre meno i miei alimenti, e i soldi non bastavano più. La guardai a occhi sbarrati, poi corsi in giardino ad abbracciare il mio albero. Gli aghi ora mi graffiavano la pelle quando tentavo di passare, ma non m’importava. Piansi a lungo e grattai il suolo nel punto in cui Birillo era stato seppellito. Versai una parte della mia anima su quella terra brulla. Feci la stessa cosa il giorno in cui dovemmo abbandonare quella che era stata la nostra casa. Mia madre infine dovette portarmi via con la forza.
Per questo passare di lì mi causa tanta nostalgia. Un giorno dovrò spiegarlo al mio bambino, quando sarà abbastanza grande. Allora gli dirò che quelle mura bianche e quell’albero ormai svanito rappresentano gli anni felici dei miei sogni, gli anni in cui mi era consentito l’accesso al castello del re.

 

Testo pubblicato su Confidenze 23/2017

Foto: 123rf

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