Il pupazzo di neve

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Per la Giornata della Memoria vi proponiamo il toccante racconto di Maurizio Riboldi uscito su Confidenze n. 5 2017

Ci sono ricordi indelebili, come marchi incisi a fuoco sulla pelle. Vanno trasmessi e condivisi perché chi viene dopo di noi conosca ciò che è successo e si adoperi perché in futuro non debba accadere più 

storia vera di Ester L. raccolta da Maurizio Riboldi 

 

È una domenica mattina di fine dicembre; una bimba di nome Ester si sveglia, corre alla finestra attratta da una luce abbagliante, scosta le tende e un sorriso le illumina il volto, batte le manine, urla: «La neve! La neve!».

Poi corre a svegliare la sorellina e il fratellino: «Venite a vedere!». Poi mamma e papà: «Andiamo a giocare nella neve! Andiamo». Ecco i bimbi che si rincorrono nel bianco, poi Ester:

«Costruiamo un pupazzo». Tre macchioline colorate indaffaratissime ad ammucchiare la neve, a darle una forma; alla fine, solo l’ultimo tocco di due bottoni per gli occhi e una carota per il naso, urlano felici: «Papà, mamma, venite a vedere!» I genitori accorrono, accarezzano i tre figli: «È bellissimo, siete stati proprio bravi».

In studio. Mentre le sto ascoltando il cuore, mi cade lo sguardo sul suo braccio sinistro, scoperto; solo un’occhiata distratta finché qualcosa, sulla pelle, attira la mia attenzione. Sembra una macchia ma poi guardo meglio, è un tatuaggio bluastro, una figura indistinta che non riesco a mettere a fuoco. Potrebbe trattarsi di un numero, possibile? Quasi mi viene da sorridere, pensando: che idea bizzarra, farsi tatuare un numero proprio lì. Che significa? Deve averlo fatto chissà quanti anni fa, perché il tempo l’ha scolorito: mi ricorda quando scrivevamo con la penna e l’inchiostro e, se cadeva sul foglio una goccia d’acqua, le lettere sbiadivano e si confondevano, rimanendo comunque leggibili.

Guardo altrove ma, di colpo, mi sento gelare per un dubbio improvviso che mi ha sfiorato; torno a fissare il tatuaggio mentre un brivido freddo mi percorre la schiena, e resto come paralizzato. Sposto lo sguardo e incrocio i suoi occhi; mi sta sorridendo e annuisce: «Sì, dottore, io sono stata deportata ad Auschwitz».

Ricordo perfettamente la prima volta che l’ho vista entrare in studio: una bella signora molto anziana – avevo letto la data di nascita – ma non dimostrava assolutamente la sua età: la figura elegante e lo sguardo nello stesso tempo triste e risoluto, gli occhi così brillanti, così vivi. Sembrava non aver alcun timore della visita, però, parlando, non sfuggivano la sua ansia nel raccontarmi dettagliatamente i sintomi e l’incalzarmi con domande sul loro possibile significato; il suo fissarmi ostinato quasi volesse studiare le mie espressioni e leggerci un’eventuale mia preoccupazione. Si leggeva chiaramente, nel suo comportamento, uno straordinario attaccamento alla vita, la voglia di avere ancora giorni da spendere, cose da fare e poter continuare a dedicarsi alle sue passioni. «Perché sa, dottore, io vado ancora a ballare, e sono meglio di tante altre ben più giovani di me». L’aveva detto con sguardo fiero e in tono deciso. Durante l’anamnesi, però, lei non aveva fatto alcun cenno alla sua storia. Si era spogliata e stesa sul lettino e io avevo notato il tatuaggio sul braccio. Finita la visita, eccoci uno di fronte all’altra per il colloquio conclusivo. «Va tutto bene, signora, solo piccole cose che, ogni tanto, andranno controllate».

«Grazie, dottore, mi dà proprio una bella notizia».

Ma la scoperta del tatuaggio mi aveva profondamente turbato e, per tutto il tempo, ero stato indeciso sul da farsi: non tornare sull’argomento, non era forse un modo per dirle che l’umanità, ormai, ha rimosso il genocidio e che di quell’immane sacrificio non è rimasto più nemmeno l’insegnamento e il monito per tutti?

Ma invitarla a raccontare non sarebbe stato peggio, costringendola a rievocare l’indicibile? Mi era venuta in soccorso lei. «Dottore, avremo occasione di parlarne». E così è stato, durante le visite cui ogni tanto si sottoponeva, a un tratto iniziava come un torrente in piena, alternando lunghi silenzi a scoppi di pianto.

«È la prima volta in vita mia che riesco a parlarne sa, mi sveglio ancora di notte gridando, con negli occhi la luce accecante delle lampade di quando piombavano all’improvviso nelle baracche per le perquisizioni».

Mi ha raccontato tutto: il terribile viaggio in treno in un carro bestiame stritolata tra centinaia di altri disgraziati; l’arrivo a Birkenau e lo strazio della mamma e di lei e sua sorella mentre venivano separate dal papà e dal fratellino che non avrebbero mai più rivisto. E l’orrore che altri appartenenti al genere umano avevano servito a una bambina come pane quotidiano…Che espressione dolce, quasi sognante, negli occhi della signora, mentre ricordava sua madre. «Era una donna esile, ma in quei mesi, anche se piegata dal dolore, dalle malattie e dalla fatica dei lavori forzati, la sua unica, costante preoccupazione siamo state io e mia sorella: ci ha difese, protette, nascoste, si è privata del poco cibo che le spettava per darlo a noi due e ci ha scaldate con il calore del suo corpo nelle notti di gelo. È morta subito dopo la Liberazione, lasciandosi andare solo quand’era sicura che la sua missione fosse conclusa».

Anche oggi, finita la visita, si è fermata a raccontare. « Forse, è questo il ricordo più nitido che mi resta di quella tragedia… Una fredda mattina di dicembre mi ha svegliata una luce abbagliante, diversa da quella solita delle fiamme che uscivano dalla ciminiera dei forni, mia madre, a quell’ora, era già stata condotta fuori ai lavori. Io e mia sorella, mano nella mano, siamo uscite e non credevamo ai nostri occhi: una spessa coltre di neve era caduta e aveva tinto di bianco tutto ciò che il giorno prima era un mondo grigio e buio» il suo sguardo, prima spento, ora si accende, «che emozione, per un attimo ci è sembrato di rivedere le nostre colline sopra Trieste d’inverno. Ci siamo rincorse nella neve come ci è sempre piaciuto, poi: “Facciamo un pupazzo!”»; si ferma, riprende fiato, ma i suoi occhi brillano, «ne abbiamo fatto uno che ci sembrava bellissimo, e, sentendoci orgogliose, avremmo voluto mostrarlo ai nostri genitori». Il tono di voce si spegne, «ma loro non c’erano… allora abbiamo strattonato due SS lì di guardia: “Visto che bello? Visto che bello?”». Scuote la testa, un lampo di tristezza negli occhi. «Ricordo bene il loro sorriso sprezzante mentre, a calci, lo distruggevano.

Caro dottore, solo dopo anni noi ebrei abbiamo capito che loro, operando scientificamente per privarci della nostra dignità, umiliarci e annichilirci fino a toglierci anche il rispetto di noi stessi, ci avevano spogliato della cosa più importante: la nostra identità». Tace, si alza, sono sconvolto, le stringo la mano e le sorrido.

«Cara signora Ester, purtroppo non è possibile tornare indietro e cambiare la storia, ma noi vi vogliamo bene, noi non abbiamo dimenticato. E con tutte le nostre forze faremo in modo che i nostri figli, i nostri nipoti e tutte le future generazioni sappiano, e non dimentichino». i

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