Salendo quella scala

Cuore
Ascolta la storia

Riproponiamo sul blog la storia più votata del n. 2 sulla pagina Facebook

 

Una decisione all’apparenza banale può portare conseguenze inaspettate. A me è successo e ho guardato il mondo e me stessa con occhi nuovi trovando la forza per riprendere in mano la mia vita

STORIA VERA DI GRAZIA D. RACCOLTA DA FRANCESCA STUCCHI

 

A te cosa importa se salgo la scala per guardare giù?» avevo osato chiedere al mio compagno un pomeriggio frizzante di ottobre.
«Ma cosa dici? Non abbiamo tempo da perdere, ho un sacco di lavoro, lo sai» mi rispose secco, voltandosi per tornare indietro.

Così Thomas, che trovava sempre una valida scusa per dirmi di no, aveva di nuovo inibito il mio slancio, conficcandomi una lama nel cuore. Era successo milioni di volte e ancora mi stupivo?

Esitai un attimo, poi presi il biglietto e attraversai il cancello del palazzo, incalzata dal suo disprezzo e dal sentirlo indispettito per il mio comportamento. Il bigliettaio richiuse il cancello alle mie spalle. Intrapresi senza voltarmi la salita lungo la scala a chiocciola. Gradino dopo gradino, rapida e sempre più leggera, guadagnavo la cima. Mi toccai il collo accorgendomi di aver perso il mio foulard preferito, quello con la mappa del mondo che, quando lo indossavo, mi faceva sognare: doveva essermi scivolato durante la salita, ma a quel punto non sarei certo tornata indietro. Dalle finestre ad arco intravedevo i tetti color mattone addossati uno all’altro. Col cuore in gola e le gambe tremanti come una bambina delle fiabe inseguita da un lupo cattivo, raggiunsi la sommità della torre. Sapevo che Thomas non mi avrebbe seguita. Appoggiai il piede sull’ultimo gradino e feci il passo decisivo verso la mia libertà. Venezia intriga anche il più ambizioso dei viaggiatori, riempie i cuori degli innamorati di romantiche promesse, impressiona gli amanti dell’arte e ospita spiriti inquieti a caccia di misteri.Venezia è per tutti, ma non appartiene a nessuno, un po’ come me. Quella sera però, per qualche istante è stata mia dall’alto della Scala Contarini del Bovolo. La vista mozzafiato mi conquistò definitivamente l’anima: guardai ammaliata le case e i palazzi medievali, il campanile di San Marco orgoglioso e indifferente a tanto brulicare di gente, il cielo aranciato per il tramonto autunnale, i voli impavidi dei gabbiani dalle ali lucenti; per un attimo riuscii a godere l’incanto senza pensare ad altro.

Erano anni che abitavo a Venezia, ma non mi era mai passato per la mente di salire su quella torre: chissà come mi era venuta voglia di salirci quel giorno.

Fu come vedere la città e me stessa per la prima volta, allegra, quasi scanzonata come non avevo mai osato immaginare. Arrossii avendo l’impressione che un gondoliere, guardando verso l’alto, mi accennasse un saluto con la mano.

Ma chi era quella donna affacciata alla torre? Sfiorata dalla luce consolante del sole autunnale, incantata, ma vibrante come la corda di un’arpa, mi ritrovai sconosciuta e splendente e mi sentii rinata. Sono sicura che Thomas se ne andò maledicendomi, ma non si portò via nulla di me, questo contava. Mi restò soltanto il dubbio del foulard.

Stavamo insieme da quasi vent’anni, ma non si era mai parlato di matrimonio a suggellare la nostra unione e per me era già un evidente segno dell’inconsistenza del nostro rapporto. Poi la bottiglia si era rovesciata e, goccia dopo goccia, il vino buono dimenticato era diventato aceto. Ci restava quello da bere e tutto si poteva dire, tranne che fosse amore.

Mi aveva trascurata e criticata, fatta sentire inutile e insensata, finché mi ero trovata imprigionata in un bosco di rovi. Sapevo che là fuori c’era tutta Venezia dinamica e cre- ativa e che un tempo anch’io lo ero stata, ma non avevo più né la forza né la voglia di farmi largo tra le spine per uscire da lì. Del resto, quando ci avevo provato me n’ero subito pentita, viste le ire e gelosie che scatenavo, e me n’ero tornata quatta quatta nel mio nascondiglio a leccarmi le ferite. Eppure là in mezzo, ripiegato su se stesso, c’era un germoglio che l’erbaccia non era riuscita a soffocare. In cuor mio promisi che me ne sarei presa cura e l’avrei salvato.

«Signora» sussurrò una voce alle mie spalle, «siamo in chiusura».
Il custode del palazzo, calcandosi il berretto di lana sulla fronte, mi riportò alla realtà. Mi voltai incredula e un po’ delusa, come una bimba invitata a scendere dal cavallino della giostra perché il giro è finito. Incrociai il suo sguardo comprensivo: che avesse intuito qualcosa? Non era possibile, mi convinsi, era solo un uomo gentile. Mi porse il foulard chiedendomi se fosse mio. Ero così contenta di averlo ritrovato!

Lo seguii giù dalla torre in silenzio, ma dentro di me avevo un nuovo mondo, avevo il mare, la città, perfino il cielo.

Lo salutai grata e mi avviai rapida attraverso le calli. Maschere spaventose mi scrutavano dalle vetrine, quasi intendessero rappresentare quella che ero stata; le risate della gente riempivano i locali per l’aperitivo serale e io vagavo senza una meta.

Thomas abitava nel sestiere di Cannaregio, ero abbastanza lontana e d’istinto andai nella direzione opposta. Piazza San Marco non era lontana e non rallentai finché non vidi il Canal Grande; intanto si era fatto buio. Avvolta nel mio cappotto verde oliva non sentivo freddo, soltanto qualche brivido di eccitazione. Frugai nella borsa, infilai due dita nel pacchetto di crackers sbriciolati, lanciai qualche briciola a un gabbiano e feci cenno al taxi-boat con la mano.

Mi raggiunse in un attimo. «Dove la porto, signora?».
Mi lusingava essere chiamata così, in fondo ero una signora, anche se non ero abituata a sentirmi tale. «All’aeroporto» dissi senza pensarci. Mi sembrava di fluttuare in un sogno, invece era tutto vero e stava capitando proprio a me.

Pareva fossero di colpo spariti i bocconi amari inghiottiti senza lacrime, le cattiverie, le bugie, le domeniche sprecate, gli insulti, gli sguardi torvi. Notai lo stupore del tassista nel vedere che non avevo bagagli, ma i veneziani non fanno molte domande, si sa.

Mi accompagnò all’aereoporto Marco Polo senza indugiare, chissà se si era accorto che stavo sorridendo dietro la maschera seria che avevo indossato.
Aspettai un volo per Firenze, la prima destinazione che mi venne in mente. Vi avevo abitato al tempo degli studi universitari, quattro anni intensi e gioiosi durante i quali avevo stretto belle amicizie rimaste intatte anche quando mi ero trasferita a Venezia. All’aeroporto di Firenze c’era già ad aspettarmi la mia migliore amica e cominciava così, forse incerta ma tanto desiderata, la mia nuova vita.

In auto chiacchierammo di cinema e di cucina, le nostre passioni, e vecchi ricordi zampillarono fuori da chissà dove con la vivacità che il tempo non era riuscito a portare via. Ripartivo da lì svuotata, ma viva.

Arrivammo a Fiesole alle prime luci dell’alba e andammo a fare colazione sulla terrazza affacciata su una Firenze quieta, ancora addormentata. Non vi era altro posto in cui avrei desiderato essere in quel momento. L’alba chiara mi regalò la pace di cui avevo bisogno. Non avevo ancora alcuna idea di cosa avrei fatto, non avevo una casa, un lavoro, avrei dovuto ricominciare da zero. Ma intanto avevo un’amica sincera e non mi ero mai sentita così bene in tutta la mia vita, ero libera finalmente. Nuvole leggerissime correvano verso sud, allungandosi fino a sparire, sarebbe stata una giornata serena.

Presi tra le mani la tazza di cappuccino bollente, lasciai andare tutto quello che non volevo più tenere e, annodando il foulard con la mappa del mondo, pensai: “Incredibile cosa può succedere a una donna che decide di salire una scala!”. ●

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Confidenze