La gatta rossa

Cuore
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Il racconto del 1946 “La Gatta Rossa”, ripubblicato sul n. 11 di Confidenze, è la storia più apprezzata dalle lettrici questa settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

Di Rosanna Senda

 

«Due caffè» ordinò al cameriere accorso premurosamente alla chiamata del giovane e ricco banchiere, abituale cliente del locale. Massimo si rivolse alla moglie offrendole una sigaretta.

«Dunque, Elena, come si chiama questa tua amica di Vicenza?».

«Amalasunta, Amalasunta Rambaldi».

Massimo, che stava porgendole l’accendisigari acceso, restò col braccio a mezz’aria.

«Amalasunta?! Che razza di nome ostrogoto».

«Longobardo» corresse Elena sorridendo. «Però lei si fa chiamare Ametta: è di un’ottima famiglia vicentina, eravamo amiche da ragazze ed è anche venuta qualche volta da noi in villa sul lago. Non la vedevo da più di sei anni, da prima ancora di sposarmi».

«E lei è sposata?».

«È vedova da due anni di un marito molto più vecchio di lei».

«Ma dove l’hai ripescata?».

«L’ho incontrata questa mattina in Via Manzoni: ci siamo molto commosse nel riabbracciarci dopo tanti anni».

Seguendo con lo sguardo le volute del fumo che si sprigionava dalla sua sigaretta, Massimo osservò: «Però non capisco come tu l’abbia invitata a venire da noi stasera, quando eravamo perfettamente d’accordo, tu e io, di trascorrere questi ultimi giorni di ottobre, in completa solitudine, a goderci in santa pace la campagna prima di tornare in città».

Elena guardò il marito un po’ contrita.

 

«Che cosa vuoi, l’ho vista così desolata che l’ho invitata a Merate per questo fine settimana, prima che torni a chiudersi nel suo guscio provinciale».

Una luce maliziosa brillò negli occhi bruni di Massimo.

«Questa tua amica com’è?».

Elena esitò. «Ecco, bella proprio non è; di bello non ha che una gran massa di capelli fulvi. Sai, è un po’ scialba, incolore, pallida pallida e magra magra».

«Ah, capisco» mormorò Massimo con aria sorniona, rimescolando la sua tazza di caffè.

«Che cosa vuoi dire?» scattò Elena, aggressiva. «Niente, solo che domani, domenica, non potrò starmene in pantofole davanti al camino, con un buon libro e la mia brava pipa, e mi toccherà invece fare gli onori di casa alla tua Amalasunta! Che noia».

Si alzarono da tavola e Massimo accarezzò con lo sguardo la florida bellezza della moglie.

«Vuol dire che mi consolerò della bruttezza della tua amica guardando te». Elena gli rispose con una smorfietta affettuosa, poi, mentre uscivano, gli raccontò ridendo: «Sai come la Gegia, la nostra vecchia domestica, chiamava Ametta? La “gatta rossa”, perché è sempre così silenziosa e te la trovi davanti senza averla sentita arrivare. Non la poteva soffrire, la Gegia».

«Dev’essere un bel capolavoro la tua amica provinciale» sospirò Massimo, e concluse: «Allora, quando avrai finito le tue commissioni, vieni a prendermi in banca, così andremo insieme, con la macchina, a prelevare la tua Amalasunta».

Quando, nel tardo pomeriggio, andarono in macchina a prendere Ametta, Massimo, vedendola avvicinarsi, si lasciò sfuggire un «Mamma mia, com’è slavata: è proprio “prima della cura”».

Tutta chiusa in un attillato cappotto nero che la faceva apparire ancor più magra, la testa avvolta in un turbante anch’esso nero dal quale sfuggivano alcune ciocche di capelli rosso rame, Ametta aveva un viso smunto, insignificante, la bocca sottile appena ravvivata da un tocco di rossetto, gli occhi perennemente socchiusi: la sua voce sonava bassa e opaca, i suoi gesti apparivano un po’ tardi, stanchi. Accolse con un sorriso smorto la presentazione del marito dell’amica, e durante il tragitto rispose soltanto con qualche monosillabo a Elena, che, allarmata dall’aria seccata di Massimo, cercava di animare la conversazione. Nemmeno la vista della bella villa e delle aiuole ancora fiorite del grande giardino, strappò ad Ametta un gesto e una parola più vivace.

Il pranzo sembrò eterno a Elena che doveva destreggiarsi fra la noia malamente dissimulata di Massimo e la taciturna compostezza di Ametta, e quando si alzarono da tavola per andare a prendere il caffè nella stanza di soggiorno, ella trattenne indietro il marito. «Ti prego, cerca di essere un po’ più gentile» gli disse sottovoce, nervosamente.

Egli le rispose con un piccolo grugnito e si avviò nella bella e vasta stanza, dove due o tre grandi lampade, posate su bassi tavolini, diffondevano una luce calda e un bel fuoco ardeva crepitando in un ampio camino dalla specchiera dorata.

 

Massimo si avvicinò ad Ametta, curva su un vaso colmo di tuberose. «Le piacciono i fiori, signora?» le domandò con tono quasi carezzevole, chinando verso di lei la sua aitante figura, lanciando un’occhiata alla moglie come a dire:«Va bene così?».

Ametta levò gli occhi su di lui: le sue palpebre si sollevarono lentamente e rivelarono due larghe e profonde pupille color topazio, dalle quali si sprigionò uno sguardo intenso, penetrante. Lo fissò a lungo in silenzio.

«Adoro il profumo delle tuberose» rispose con la sua voce bassa improvvisamente piena di vibrazioni, mentre le sue nari palpitavano lievemente.

“Strano, non mi ero mai accorta che Ametta avesse degli occhi simili” pensò Elena, che esclamò gaiamente: «Andiamo a prendere il caffè davanti al camino: le serate sono fresche, ormai!».

Ma Ametta non volle sedersi sulla poltrona che Massimo le aveva accostata. «Scusate, a me piace sedere per terra, davanti al fuoco».

Elena le porse allora un cuscino ed ella vi si lasciò cadere con una mossa felina, mentre la fiamma del camino dava riflessi violenti alla gran massa dei capelli rossi. Sembrò che il calore la ravvivasse tutta: a poco a poco apparve percorsa da un fremito leggero, i suoi gesti presero una grazia vivace, la sua voce grave sonò piena di calde tonalità.

Elena osservava stupefatta il mutamento dell’amica. Questa discorreva ora animatamente con Massimo, accoccolata sul cuscino quasi ai piedi di lui, che, seduto su una poltrona, per parlarle doveva chinarsi col busto: le rivide quello sguardo profondo e intenso negli occhi spalancati in faccia al marito, notò il leggero, continuo palpitare delle nari, il volto divenuto mobile ed espressivo, la morbidezza inaspettata che l’atteggiamento rivelava nel corpo sottile sotto l’abito aderente. E si accorse anche che dal viso di Massimo era sparita ogni traccia di noia e di canzonatura.

«Che te ne pare della mia amica?»  gli chiese più tardi, quando furono soli nella loro camera.

Egli indugiò un attimo a rispondere. «È meno peggio di quello che sembrava a prima vista» disse. Elena rimase soprappensiero.

La mattina dopo, ritornando dalla chiesa dove avevano ascoltato la Messa, Elena guardava Ametta  di sottecchi. Chiusa nel suo cappotto nero, la testa ravvolta nel turbante, l’amica le riapparve la solita scialba, insignificante creatura dai gesti stanchi che aveva sempre conosciuta.

“Chissà che cosa ho visto ieri sera” pensò. Pioveva a dirotto e arrivarono alla villa tutte bagnate.

«Dobbiamo correre a cambiarci» esclamò Elena. «Massimo sarà qui fra poco».

Si cambiò in fretta e si contemplò soddisfatta nello specchio: l’abito di maglia color ciliegia metteva in evidenza le linee armoniose e fiorenti del suo corpo slanciato, dando risalto alla carnagione rosea e ai capelli biondi. Discese le scale ed entrò nella sala da pranzo, dove Massimo era già in attesa per la colazione. «Ti piace il mio vestito nuovo?» gli chiese mettendoglisi davanti. Egli la guardò ammirato: «Ti sta proprio bene, sembri un fiore». Le posò le mani sulle spalle ed Elena alzò il viso porgendogli le labbra. Ma egli rialzò il volto di scatto, guardando dietro le spalle di lei.

 

Ferma sulla porta c’era Ametta che li fissava con gli occhi spalancati, la bocca stirata in un ambiguo sorriso. Si era cambiata e indossava un abito grigio perla attillatissimo, sul quale i capelli fulvi sembravano più accesi. La “gatta rossa” pensò Elena, assalita da un’indefinibile sensazione di disagio.

Questa sensazione divenne addirittura malessere durante la colazione e poi nel pomeriggio nel vedere l’amica che, come la sera prima, parlando con Massimo si trasformava.

Ametta era diventata tutta vibrante, guardava Massimo con occhi ora languidi e incantati, ora intensi e penetranti, sembrava pendere dalle labbra di lui che chiacchierava brillante e brioso, lusingato e incitato dalle risatine gorgoglianti e dalle esclamazioni ammirative con le quali Ametta sottolineava i motti di spirito e le storielle che egli raccontava.

Elena, perplessa e disorientata, salutò con gioia la visita di un’amica, abitante nella villa accanto, che venne all’ora del tè, accompagnata dal marito e dal figliuolo, un giovanottone ventenne. I tre uomini si misero a giocare a bridge con Ametta che si rivelò un’abilissima giocatrice e che dedicava occhiate e risatine provocanti anche ai due nuovi venuti, subito premurosi verso la piccola donna dalle moine da gatta.

Elena e la signora Ada, una bella donna sui quarant’anni, con gli occhi intelligenti e acuti, chiacchieravano sedute in un angolo accanto alla vetrata. «Che tipo strano la tua ospite» commentò Ada, accorgendosi che Elena guardava spesso verso di lei.

«Io non riesco a capirla» mormorò Elena accigliandosi.

L’altra la fissò, affettuosa e comprensiva. «Vedi, cara, la tua amica appartiene a quel genere di donne che noi giudichiamo brutte e insignificanti, ma che quando vogliono piacere agli uomini sono molto ma molto più pericolose di una donna bella».

Si volsero entrambe verso Ametta. Massimo le stava accendendo una sigaretta ed ella gli reggeva la mano, che le porgeva il fiammifero acceso, in un gesto quasi di carezza, guardandolo di sotto in su con uno sguardo languido.

Ada posò la mano sul braccio di Elena, per trattenerla dal balzare in piedi. «No, cara» le disse con voce calda d’avvertimento. «Dammi retta: io ho parecchi anni più di te e molta esperienza in materia» e i suoi occhi si posarono con tenera ironia sulla figura atticciata del marito. «Liberati al più presto di quella donna, ma fallo con garbo: non deve capire che la temi. E soprattutto fa’ che non se ne renda conto tuo marito».

L’avvertimento dell’amica riecheggiò più volte quella sera nella mente di Elena, aiutandola a trattenersi e a dominarsi, specialmente quando, nella tarda serata, le si era presentata davanti agli occhi una scena che per un attimo l’aveva fatta restare senza fiato. Ametta, al solito accoccolata sul cuscino davanti al fuoco, ai piedi di Massimo, teneva fra le sue una mano di lui e la scrutava con attenzione; Massimo era curvo sulla soffice massa dei capelli rossi fin quasi a sfiorarli col viso.

«Sto leggendo le linee della mano di tuo marito» le disse Arnetta tranquillamente. «Che mano interessante, da uomo d’eccezione».

Elena respirò forte prima di rispondere. «Anche chiromante! Ma quante qualità nascoste hai?» esclamò infine. «Però non capisco Massimo, che di solito è così refrattario a queste storie».

Egli rise, tossicchiando imbarazzato. «Io non ci credo, però, mi diverto».

 

 

Elena alzò le spalle e s’avvicinò alla vetrata guardando fuori.

Il cielo buio si confondeva con le piante e gli arbusti del giardino in una massa cupa, formando uno sfondo nero alla vetrata nella quale la stanza illuminata si rifletteva come uno specchio. E come in uno specchio Elena vedeva ogni gesto degli altri alle sue spalle e li osservava, attenta e tesa. A un tratto, scorse Ametta che appoggiava la gota sulla palma aperta di Massimo con una mossa così languida e voluttuosa che Elena si sentì tremare di sdegno. Riuscì ancora a dominarsi, si voltò lentamente, e disse: «È ora di andare a dormire» cercando di sembrare  gaia e spigliata.

«Massimo domattina deve partire per Milano e si deve alzar presto. A letto signori, a letto». E mascherando la sua esasperazione sotto un’allegria esuberante, li sospinse e si acquietò solo quando vide la porta della camera degli ospiti chiudersi dietro le spalle di Ametta. Più tardi, quando erano già a letto, al buio, Massimo disse: «Sai, Elena, avevi ragione, la tua amica non dà proprio nessun fastidio. Dille che si fermi ancora qualche giorno, prima di tornare a Vicenza». Elena si morse le labbra a sangue. «Sì, certo» mormorò con voce che finse piena di sonno. E pensò: “Domani la butto fuori“.

Trascorse una notte insonne, torturandosi il cervello per trovare il modo di liquidare l’infida Ametta “con garbo”, ma senza riuscire a trovare niente che la soddisfacesse. Il mattino seguente si levò nervosissima.

«La signora Ametta è alzata?» domandò alla cameriera.

«Si è svegliata da poco; le ho appena portato il caffè».

Elena cominciò la sua toeletta, sempre più inquieta e agitata.

“Basta, è inutile che mi stia a lambiccare  il cervello” decise infine, mentre finiva d’abbigliarsi. “Quando la vedo le dico il fatto suo e la mando via”. In quella venne la cameriera ad avvertirla che era chiamata al telefono, nella stanza del soggiorno. «È il signor padrone da Milano».

Elena corse giù al telefono, nella stanza di soggiorno.

«Ciao, Elena, volevo avvisarti che parto adesso per Novara e ritornerò tardi nel pomeriggio. Perciò temo che ritarderò per il pranzo».

«Va bene, ti aspetterò».

«Scusami anche con la tua amica. Per farmi perdonare il ritardo vi porterò tante belle tuberose».

«Come sei caro» sibilò Elena.

La comunicazione fu interrotta, ed Elena stava per riappendere il ricevitore quando avvertì una presenza alle spalle.Volgendosi poté scorgere con la coda dell’occhio Ametta ferma sulla soglia seminascosta dalla pesante portiera di canapa a fiori.

Allora, improvvisa, le balenò l’idea tanto cercata.

 

 

Finse di continuare a parlare con Massimo, intercalando le sue parole con delle pause o alzando la voce per essere meglio intesa dalla donna in ascolto.

«Come, Massimo? No, non l’ho ancora vista stamattina. Oh, povera Ametta, non ricominciare con le storie di ieri sera, sei cattivo. Ti dà fastidio con le sue arie svenevoli?» soffocò una risatina, come se stesse udendo qualcosa di comico. «Ma no, non è vero, i capelli di Ametta sono rossi, sì, ma non puzzano, io non me ne sono mai accorta. Te li ha messi sempre sotto il naso? Oh, povero Massimo» altra lunga pausa. «Che cosa, ha posato il suo viso sulla tua mano dietro alle mie spalle? Questo non lo credo, non posso credere Ametta così falsa e sfrontata!» la sua voce si alzò, divenne sferzante. «Se fosse vero la metterei alla porta!» trattenne le parole roventi che le uscivano dalle labbra, fece un’altra pausa, poi, con tono indignato proruppe: «Basta, Massimo, questo è troppo, povera Ametta! Va bene, me l’hai già detto ieri sera, non la vuoi fra i piedi, non insisterò per trattenerla; ma scortesie non voglio fargliene» una risatina di gola, poi, con voce tenerissima: «Ma Massimo, siamo vecchi coniugi ormai, siamo sposati da cinque anni! Certo, anch’io naturalmente preferisco essere sola con te, caro» un bacio nel microfono: «Va bene? Sì, a stasera, amor mio».

Riappese il ricevitore, attese un momento a voltarsi, poi si mosse con lentezza. Un sorriso le sfiorò le labbra: Ametta era sparita. Dopo qualche tempo, non vedendola comparire, andò a bussare alla porta della camera di lei.

«Pigrona, sai che sono le undici?» fece allegramente entrando, ma subito esclamò con aria meravigliata: «Come, stai facendo la valigia?». Pallida fino a parer grigia, Ametta stava riponendo la sua roba nella valigia aperta sul letto, con gesti che all’occhio attento di Elena sembrarono convulsi.

«Debbo essere a Vicenza questa sera: mi sono ricordata che ho un impegno importante per domattina. Conto di prendere la corriera per Milano delle 13, in modo da fare a tempo per il treno di Venezia. Sarei venuta a dirtelo appena finita la valigia».

«E io che volevo pregarti di fermarti ancora qualche giorno» disse Elena, che s’affrettò a soggiungere: «D’altra parte, se devi proprio partire».

L’aiutò a riporre le ultime cose, le chiuse ella stessa la valigia. Gentile, premurosa, accompagnò l’amica alla corriera. Mentre Ametta stava per salire, le disse: «Mi spiace che Massimo non sia a Milano e non possa venire a salutarti alla stazione».

L’altra non rispose; un lampo giallo sembrò scaturire dai suoi occhi socchiusi e le labbra le si strinsero fin quasi a scomparire.

“Proprio la gatta rossa” pensò. Finalmente la corriera partì.

Elena tirò un gran fiato di sollievo e tornò alla villa ilare e leggera.  «Questa sera» ordinò alla cameriera «quando servirai il caffè davanti al fuoco, ricordati di portare le pantofole per il signore». Poi, sul tavolino a lato della poltrona abituale di Massimo vicino al camino, preparò un barattolo nuovo di buon tabacco da pipa.

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