La grammatica degli addii

Cuore
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Le storie d’amore più belle passano per gli aeroporti, per le stazioni o lungo le banchine delle fermate degli autobus. Perché è quando
ci si saluta, per molto o poco tempo, che si scopre la profondità dei sentimenti. E così è stato per me e Anastasia, nonostante la guerra

STORIA VERA DI ALFONSO C. RACCOLTA DA ROBERTO MOLITERNI

Anastasia me l’avevano indicata alcuni colleghi come traduttrice dall’ucraino all’italiano. La prima volta ci eravamo videochiamati, lei mi aveva raccontato di quando i russi avevano invaso il Paese. Quella mattina stava tornando dalla Polonia e all’aeroporto avevano annunciato che gli aerei per l’Ucraina erano stati cancellati. La Russia aveva attaccato il loro Paese. Le linee telefoniche erano andate in sovraccarico e con la sua famiglia era riuscita a scambiarsi pochi messaggi: sua madre e sua sorella si stavano organizzando per lasciare casa loro, mentre suo padre sarebbe rimasto lì. Sua madre insisteva perché lei andasse a Praga, si sarebbero ritrovate tutte al sicuro in Repubblica Ceca. Ma lei la pensava diversamente: se fosse scappata l’avrebbe data vinta ai russi. Allora si era informata per i bus, che, invece, ancora partivano. Ne aveva trovato uno e ci era salita sopra, assieme a poche altre persone. Subito dopo aver attraversato il confine, aveva incontrato chilometri di macchine che stavano lasciando il Paese. Forse tra quelle ce n’era anche una con sua madre e sua sorella e lì, per la prima volta, aveva percepito l’assurdità della guerra: in poche ore la sua famiglia era stata smembrata. Era giunta a Kiev che i carri armati russi erano in città e i mezzi pubblici avevano smesso di funzionare, né c’erano più taxi. Scesa dal bus, Anastasia si era tirata dietro il trolley e si era avviata a piedi verso casa. Strade di solito piene di gente erano deserte. In lontananza si sentiva l’eco della battaglia e una colonna di fumo si sollevava dietro i palazzi, proprio nella direzione del suo quartiere. Mano a mano che proseguiva, la paura cresceva. Stavano combattendo a quattro o cinque isolati da lì. Arrivata a casa, aveva fatto le scale caricandosi la valigia fino al settimo piano, l’ascensore non funzionava perché l’energia elettrica era saltata, e aveva chiuso la porta a doppia mandata. Aveva paura dei soldati. La portafinestra del soggiorno affacciava su un lungo viale. I carri armati russi erano in fondo alla via, ma la milizia ucraina, mimetizzata dietro barricate improvvisate, stava ancora resistendo. Era incredibile. Aveva lasciato la sua città, la sua famiglia, i suoi amici in una situazione di normalità, e aveva ritrovato un Paese in guerra. Nonostante i rapporti con la Russia fossero tesi da tempo, nessuno si aspettava l’invasione.Anastasia aveva tirato bruscamente le tende della portafinestra, per non vedere oltre. Era andata a chiudersi in camera, aspettando che passasse la notte. Ma non era riuscita a dormire. Si sentiva cannoneggiare. Alcuni ninnoli appoggiati su una mensola tintinnavano. Poi, finalmente, al mattino, era tornato il silenzio. Anastasia aveva aperto le tende: i russi erano stati ricacciati verso la periferia. Almeno per il momento.

Credo sia stato quando ho sentito questa storia che Anastasia ha iniziato a piacermi. L’ascoltavo, annuivo, prendevo appunti e dentro di me ripetevo che avevo di fronte una persona coraggiosa. Io, al suo posto, sarei scappato a Praga. E glielo avevo detto: «Per me ha qualcosa di eroico quello che hai fatto».

Lei aveva sorriso, poi aveva risposto: «So che per il vostro documentario avete bisogno di eroi, ma nessuno può sapere chi è finché non si trova in queste situazioni». Non ero stato più in grado di dire altro, l’avevo guardata nello schermo del computer in silenzio, e mi ero perso

nei suoi grandi occhi azzurri e improvvisamente timidi. “Peccato, o forse fortuna, che quegli occhi azzurri non li vedrò dal vivo” ho pensato “perché sarebbe stato facile innamorarsene”.

Per settimane e mesi queste nostre conversazioni sono andate avanti. Anastasia era diventata la traduttrice del documentario che stavo seguendo come ricercatore e ci informava di ciò che accadeva, mano a mano che proseguiva la guerra: le interruzioni dell’energia elettrica, il
freddo di cui tutti avevano paura, i prodotti che sparivano dai supermercati o venivano sostituiti da marche russe, la tivù senza
pubblicità perché la felicità artificiale degli spot suonava ormai fuori luogo. Dopo le pre-interviste ai protagonisti del documentario, che facevamo a distanza in attesa che la troupe andasse a riprenderli dal vivo, io e lei ci fermavamo a discorrere a lungo delle crudeltà di cui apprendevamo, commesse dai russi nelle città o nei villaggi occupati. Ma certe volte, la guerra spariva dai nostri discorsi e sembravamo solo due ragazzi, io 29 anni, lei 24, che parlavano di musica.

In questi casi, salutarci diventava difficile: cercavamo una scusa per trattenerci, allungare la conversazione con qualche scherzo o gioco di parole, ma poi veniva davvero il momento dell’arrivederci e io restavo impalato a perdermi nei suoi occhi senza essere capace di dirle «ciao» o «pryvít», che è come lei mi aveva insegnato a salutare in ucraino. Ogni mattina le scrivevo “buongiorno” e volevo sapere come andasse, anche se non dovevamo sentirci per lavoro.

Ero in un momento della vita in cui tutto mi aspettavo tranne che provare interesse per una nuova persona; una persona poi che si trovava a più di 2.000 chilometri di distanza, nel bel mezzo di una guerra. Avevo appena concluso la storia più importante della mia vita, finita bruscamente con la scoperta di un tradimento. Mi ero ripromesso che, da allora, mi sarei dedicato solo al lavoro. Eppure era stato il lavoro a fregarmi: da lì, dove mi sentivo più sicuro e meno permeabile, era arrivato un attacco ai sentimenti. Ma, fino all’ultimo, avevo vissuto questo interesse per Anastasia come una fantasia irrealizzabile: lei stava lì, io qui e non c’era modo di raggiungerci, anche se una parte di me lo desiderava. Essendo un semplice ricercatore, la troupe non aveva intenzione di portarmi in Ucraina e per i turisti era impossibile entrare nel Paese. Sarebbe finita lì, divisi dalla Storia. Così, quando si sono concluse le pre-interviste e la troupe è stata pronta a partire, è arrivato il momento degli addii. Certamente ci saremmo detti che era stato un piacere lavorare assieme e che speravamo di trovare altre occasioni per farlo di nuovo, insomma tutte quelle frasi che si dicono in questi casi, ma che poi non trovano riscontro nella realtà. Invece, durante la nostra ultima videochiamata, lei ha detto, sorprendendomi: «Sai, ci sono rimasta male quando ho capito che non saresti venuto. Mi avrebbe fatto piacere incontrarti». Lo ha detto tenendo gli occhi bassi, guardandosi le punte dei piedi, era in casa, seduta a gambe incrociate su una panca. Era la prima volta che si esponeva in modo così aperto nei miei confronti. Ma forse, mi sono detto, la sua era solo una forma di carineria, non avevo mai conosciuto una persona tanto gentile quanto lo era lei.

«Subito dopo Natale sarò a Praga a trovare mia madre e mia sorella» aveva aggiunto poi, tutto d’un fiato, come se temesse di ripensarci.

Sono rimasto impietrito. Era un invito? Perché me lo aveva detto? Toccava a me a quel punto dire qualcosa. Ero pronto a mettermi di nuovo in gioco con i sentimenti? Mi ero nascosto dietro l’idea che sarebbe stato impossibile incontrarsi e ora che ne avevo la possibilità avevo paura. Ma dovevo buttarmi, per troppo tempo ero stato fermo. Ho risposto: «Non sono mai stato a Praga».

A Praga c’è la neve quando atterro. Anastasia, dal vivo, è molto più bella che in foto. Il suo volto è incorniciato da un cappuccio di pelliccia. Mi aspetta fuori dall’aeroporto e l’azzurro intenso dei suoi occhi spicca sul bianco accecante delle strade innevate. La sua pelle sembra di porcellana e piccoli nei impreziosiscono le sue espressioni. È più bassa di me e questo rende il primo abbraccio immediato, come se i nostri corpi fossero stati progettati per incastrarsi all’altezza giusta. Sento le sue guance fredde, mentre io ancora godo dei benefici del riscaldamento dell’aereo.

Ci stacchiamo, imbarazzati. Forse nessuno dei due ha seriamente pensato alla consistenza di questo incontro fino a ora. Adesso che è diventato vero non sappiamo come comportarci. Ho prenotato l’albergo per una settimana, mentre lei dorme da suo zio Oleksii, che ospita anche sua madre e sua sorella: avrebbe potuto essere un tempo lunghissimo oppure brevissimo.

I primi giorni a Praga sono strani e leggeri.Anastasia mi accompagna a scoprire la città. La conosce bene perché, anche prima della guerra, veniva spesso a trovare suo zio. Io mi stupisco di tutto. La neve e il freddo, che trasforma le nostre parole in sbuffi di vapore, e le luci di festa, residuo del Natale, contribuiscono a creare un’atmosfera da sogno. Ma mi stupisco soprattutto di lei, del suono della sua voce, del modo in cui si muove o per esempio mi allunga la forchetta per farmi assaggiare un piatto tipico e del modo in cui i nostri discorsi si incastrano con naturalezza, com’era successo con i corpi. Se qualcuno ci potesse vedere dal di fuori penserebbe che siamo una coppia di turisti. Forse è così che lei vuole sentirsi, dopo un lungo periodo di privazioni a causa della guerra. Essere turista significa tornare a una parentesi di normalità. Infatti parliamo di rado della guerra, a differenza di quanto facevamo nelle nostre conversazioni online. Tutto sembra andare nella direzione giusta.
Ma poi, la sera, ceniamo in taverne di cucina tipica, andiamo a bere assenzio nei pub e lei mi accompagna in albergo o io da suo zio e ci salutiamo ogni volta senza che succeda niente. Quando resto solo, la notte o se lei rimane a pranzo dai parenti, e io giro alla scoperta della città, rivendendo i posti che mi ha mostrato come il Vicolo d’Oro o il Ponte Carlo, ripenso ai suoi sorrisi rapidi che sono incursioni nel mio cuore, al modo che ha di girarsi all’improvviso verso di me dopo essere andata un po’ più avanti mentre passeggiamo, e mi sento sperso e straniero.

Forse non è scattata la scintilla, mi dico. O forse devo essere io a fare il primo passo? Quella settimana sta diventando lunghissima.
Arrivo all’ultimo giorno ormai rassegnato al fatto che mi sono girato un film che esiste solo nella mia testa. Sto addirittura mettendo in discussione che mi abbia parlato di Praga per invitarmi, forse ho frainteso e lei ha accettato di accompagnarmi per gentilezza. All’aeroporto, per tornare in Italia, decido di andarci da solo, anche se Anastasia si è offerta di accompagnarmi. Non voglio sentirmi un peso. Invece, appena uscito dall’albergo, dopo aver prenotato il taxi, la trovo con la macchina di suo zio. Mi aspetta appoggiata sul cofano a braccia conserte.
«Ho appena mandato via il taxi. Sono io il tuo taxi. Non puoi tradirmi così» dice decisa e sorridente. In fondo sono felice. Salgo in macchina. Ha smesso di nevicare da un giorno e Praga, pur bellissima, ha perso un po’ del suo fascino. La neve sciolta si ammucchia ai lati della strada.
Percorriamo il primo tratto in silenzio, di nuovo imbarazzati come quando sono arrivato. L’unica banalità di cui riusciamo a parlare è la notizia di una troupe televisiva che l’ha chiamata a tradurre le interviste. Rimarrà a Praga con la famiglia una settimana ancora e poi tornerà in Ucraina per lavorare con loro. Dopo, torna il silenzio. Lei guida e io fisso la strada.

«Forse ci sei rimasto un po’ male, per come sono andate le cose» dice all’improvviso.
Io rispondo prontamente, per non farmi scoprire: «Ma no? Che dici? Sono stato benissimo».
«Anch’io sono stata bene. È solo che, a un certo punto, ho capito che era stato ingiusto farti venire fin qui».
«Sono io che ho frainteso. Forse nemmeno volevi che…».
«Lo volevo eccome. Ti dirò di più: lo sognavo, dopo esserci parlati così a lungo online» risponde lei.
A quella parola, “sognavo”, sento come una vampata di calore e le guance mi si arrossano. Non sono in grado di dire niente e lei continua: «Ma questa per me non è la normalità. Noi non possiamo essere la coppia felice di turisti che siamo stati in questi giorni. Io vivo in un Paese in guerra, che tu non puoi nemmeno raggiungere se non con qualche escamotage e nessuno sa per quanto andrà avanti questa situazione. Quale futuro abbiamo?». Ancora non sono in grado di dire niente. Ascolto, in balia di un’altalena di emozioni. Ogni parola era una carezza o un pugno.
«Certo, avrei potuto cogliere l’attimo. Tu stavi in quel bellissimo albergo e credimi tutte le sere che ti ho accompagnato ho pensato: “Adesso lo bacio e saliamo su a fare l’amore da pazzi”. Ma tu per me non sei una persona qualsiasi, sei speciale. Anche se a distanza, mi hai accompagnato in questi mesi di guerra come nessun altro ha fatto. Se fossi salita, avrei rischiato di innamorarmi sul serio. È giusto che tu resti nella tua vita e ti innamori di una bellissima italiana dagli occhi scuri che parla la tua lingua meglio di me».
«Tu lo parli benissimo l’italiano, invece». Questo almeno sono stato in grado di dirlo. Siamo ormai arrivati all’aeroporto. Parcheggia e scendiamo entrambi, ci tiene ad accompagnarmi fino al gate. Come nelle videochiamate, è arrivato il momento di dirsi «pryvít», ciao.
«Allora… pryvìt».
«Pryvìt» risponde lei, adesso emozionata. Mi ruba un bacio, poi subito si volta, coprendosi la faccia con le mani e corre verso l’uscita dall’aeroporto. Ho l’impressione che stia piangendo. È la grammatica degli addii.

La casa dello zio Oleksii si trova nella prima periferia di Praga, in un condominio del periodo sovietico. Mi ci sono fatto accompagnare in taxi. Scendo, cerco il nome dello zio sul campanello e citofono. Mi risponde la madre di Anastasia, o forse la zia. Ripeto più volte: «Anastasia, Anastasia» poi «Scusate, non parlo ceco o ucraino». Sento che la stanno chiamando, aggiungendo qualcosa che suona come “italiano”. La madre o la zia chiude il citofono: non hanno capito o Anastasia si è negata. Per lei è finita lì, all’aeroporto.

Mentre io mi sto chiedendo cosa fare, se citofonare ancora o andarmene o provare a chiamarla per telefono, Anastasia si materializza e rimane immobile, davanti al portone, qualche gradino sopra di me. È sorpresa, forse choccata, si copre la bocca con le mani e gli occhi sono spalancati e lucidi. Non so bene come cominciare, come giustificare il fatto che, nonostante quello che mi ha detto, non sono partito e ora sono lì a chiederle non so nemmeno io cosa. Ma voglio provarci, non mi importa niente della guerra che ci separa, un modo alla fine lo troveremo.Tutto questo non sono in grado di sintetizzarlo in poche parole trovandomela lì davanti, bellissima come sempre.

Dico perciò solo «Pryvìt», ma questa volta ha tutto un altro senso, è l’inizio di una conversazione o forse di un’altra vita.
«Pryvìt» risponde lei, e mi corre incontro scendendo i gradini e mi bacia. ●

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