Sanremo è sempre Sanremo. E anche di più

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Mi sto preparando a vedere Sanremo. Perché il palco dell'Ariston offre pettegolezzi senza pietà. E buona musica da scoprire con tutta calma

Se ne parla ogni volta con lo stesso anticipo che si riserva ai Mondiali di calcio, con la gente divisa tra chi non vede l’ora di accendere la televisione e chi non manifesta alcun interesse per l’evento. Ma, al di là di come ognuno vivrà la settantatreesima edizione, non ci sono dubbi sul fatto che stiamo tutti Aspettando Sanremo (come recita il titolo di un articolo su Confidenze in edicola adesso).

Io, personalmente, faccio parte della schiera del pubblico affezionato e sono pronta a non perdermi una serata. Atteggiamento al quale sono rimasta abbastanza fedele negli anni perché, lo si voglia o no, “Sanremo è sempre Sanremo”: un importantissimo momento di musica, ovviamente. Che, però, offre molto di più.

Potrei dilungarmi sul fatto che si tratta di uno spaccato dell’Italia che cambia e di una testimonianza dell’evoluzione sociale del nostro Paese, come piace sottolineare agli intellettualoidi. Per farla più spiccia, invece, io amo il Festival della Canzone perché mi permette di partecipare a un party pazzesco pullulante di invitati. Vestiti nei modi più disparati. E con in canna dichiarazioni di ogni genere da sparare davanti al microfono.

Tutto questo mi dà la splendida opportunità di spettegolare e giudicare per settimane intere come la comare più avvelenata, senza il pericolo offendere nessuno. Infatti, i commenti sugli individui che non conosco personalmente mi liberano dall’obbligo di censura, visto che è difficile che le mie critiche arrivino alle orecchie dei vip. E se anche dovesse succedere, gli interessati rimarrebbero indifferenti.

Cosa gliene può fregare alla Ferragni o alla Oxa se la signora Di Giorgio non ha apprezzato i loro outfit? E ad Amadeus se non ha gradito una sua battuta? Lo zero al quoto.

Ma c’è un altro motivo per cui mi sorbetto Sanremo dal martedì al sabato: quello che accade sul palco diventa argomento di chiacchiera nei mesi successivi. E non averne idea significa fare scena muta alle cene, dove io già non brillo per colpa delle serie televisive. Perché non seguendole, quando viene fuori il tema cado in un cupo silenzio trasudante ignoranza totale. Figuraccia che con il Festival non mi tocca.

Ma c’è dell’altro. Le canzoni. Spesso si scrive che, anno dopo anno, all’Ariston stanno perdendo il ruolo di protagoniste della kermesse. Un filino di vero c’è: ormai della manifestazione fa molto più clamore l’ospite bomba del brano vincente. Eppure, per il pubblico le melodie rimangono un must.

E a chi sostiene che spesso sono brutte, chiedo quante volte le ha ascoltate, visto che anche la più bella è difficile che piaccia subito. Mentre sentirla serata dopo serata abitua l’orecchio e dà la possibilità di emettere un giudizio serio.

A questo proposito, mi vengono in mente i brani dei lati B ai tempi dei 45 giri in vinile. Che entravano nelle nostre case soltanto perché pubblicati sullo stesso disco del singolo del momento. Tant’è che nessuno di noi li considerava. Ma se per qualche strano motivo ci capitava di ascoltarli, all’inizio ci sembravano orrendi. Dopo un po’ mica male. E alla fine ci sono state addirittura volte in cui li abbiamo preferiti al lato A.

Cambi di rotta di questo genere a me sono capitati anche con alcune canzoni di Sanremo. Per esempio, con Zitti e buoni dei Maneskin e Soldi di Mahmood. Di primo acchito baccano l’una. E mortalmente noiosa l’altra. Mentre adesso, quando salgo in macchina e accendo la radio spero che le passino. Perché le reputo un’ottima colonna sonora per i miei viaggi verso la montagna.

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