La limonata di sambuco

Cuore
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Questa bevanda fresca è uno dei motivi per cui amo l’estate e mi viene bene. La ricetta è semplice, mentre è più difficile capire se conto qualcosa per Gabriella, anche perché non l’ho mai incontrata di persona

STORIA VERA DI ANDREA T. RACCOLTA DA VINCENZA CASCIO

 

Fosse per me, sarebbe sempre estate, è la mia stagione preferita: grigliate serali sulla terrazza di casa, buon vino, gli amici di sempre, colazioni che durano più del necessario mentre respiro il mio mare da una posizione privilegiata. E la limonata ai fiori di sambuco che preparo sempre. Richiede un procedimento facile, poca spesa e massima resa: la mia limonata è il fiore all’occhiello alla fine di ogni pasto. Prepararla è semplicissimo: si sciacquano ben bene i fiori di sambuco e i limoni, poi questi ultimi si affettano e si uniscono ai fiori, precedentemente messi in una ciotola. Si aggiunge lo zucchero, vado a occhio, e acqua bollente per diluire. Poi si copre bene la ciotola con la carta velina e si lascia in frigorifero dai tre ai cinque giorni prima di filtrarla. Ogni settimana, la verso anche negli stampini del ghiaccio, cosi è sempre a portata di mano per qualche cocktail di frutta, o semplicemente
per dare un sapore diverso a un bicchiere d’acqua.

«Almeno una cosa buona la sai fare» mi apostrofava sarcasticamente Anna, la mia ex moglie, quando mi vedeva trafficare in cucina. In realtà, credo di saperne fare più di una, ma lei nei nostri otto anni di matrimonio è sempre stata molto critica nei miei confronti, a volte persino svilente.

Per fortuna c’è nostra figlia Cecilia: i suoi 15 fragorosi anni mettono allegria e scompiglio nella mia vita di padre innamorato. Esiste anche una terza lei, ma ancora non so cosa stia diventando per me, e neppure se ha intuito il mio interesse. Gabriella è una collega

della sede centrale della ditta, a Milano. Non ci siamo mai visti di persona, ma ci parliamo al telefono da tre anni ormai.
Il tempo ci ha aiutati a entrare in sintonia e anche in confidenza: le nostre telefonate quotidiane iniziano con argomenti di lavoro, ma, una volta risolti quelli, indugiamo qualche tempo per raccontarci qualcosa sulle nostre vite. Ha una voce bellissima, profonda, ma dal timbro dolce. Lentamente e con sincerità, ci siamo raccontati a vicenda il puzzle delle nostre esistenze.

Lei è riservata, ma simpaticissima, instancabile lavoratrice, madre innamorata di un figlio adolescente e, come me, separata. Io ho una natura più giocosa e allegra, sono espansivo e stacanovista pure io, ma con riserva: penso che si dovrebbe lavorare per vivere, non il contrario, e allora i paletti vanno messi. Io li metto, lei non ha ancora imparato.

Una sera di qualche tempo fa trovo la sua richiesta di amicizia su Facebook: la cosa mi stranisce perché mai abbiamo azzardato a cercarci su canali privati. Il nostro rapporto, se cosi si può definire, è nato e cresciuto attraverso le linee telefoniche delle rispettive scrivanie. Accetto, lei è online e mi scrive subito un messaggio privato. “Ciao, Andrea! Ti svelo la formula segreta della salvezza mentale: mai accettare

l’amicizia dei colleghi”. Segue un emoji sorridente. Le rispondo ironicamente: “Peggio di così non potrebbe andare, ma ormai ci siamo e sono disposto a sorbirti anche in questo luogo di svago”.

Mi manda tre faccine che ridono a crepapelle e in quel momento, per la prima volta, provo a immaginare che sorriso abbia. Ho visto il suo volto in una fotografia dei cataloghi aziendali di presentazione: accenna un sorriso ma il piglio è decisamente e giustamente professionale.

“Andrea, ti anticipo che sei invitato all’evento che stiamo organizzando qui a Milano per i nuovi packaging, considerato il fatto che hai contribuito con interessanti progetti. Ti andrebbe di venire?” mi scrive. “In piena calura e proprio a Milano? Fossi pazzo!” digito subito.

“Dai, sarà una buona occasione per conoscere di persona i tuoi colleghi polentoni, come ci chiami sempre tu. E anche di vederci. Siamo amici da tempo, in fondo”. “Se la metti così sul sentimentale, quasi quasi mi convinci” scrivo con due emoji sorridenti. “Perfetto, ti aspettiamo tra tre settimane. Ti manderò il biglietto per il volo e la prenotazione di due notti in albergo. Ma tu non dire nulla finché il tuo kapò te lo comunicherà di persona, penso lo farà già domani”.

Le sue previsioni sono giuste e Mario, il nostro capo, me lo chiede quasi come una supplica la mattina dopo: «Andrea, ti va di andarci tu? Io soffro troppo il caldo, ho bisogno di fare almeno un tuffo al mare ogni giorno, per tutta l’estate. Come faccio a Milano?». Il termine che lei ha usato per definire il nostro superiore, kapò, mi pare decisamente appropriato. Ma sono incuriosito e ammetto di avere voglia di vedere Gabriella di persona, così gli dico di non preoccuparsi: lo stoico sacrificio sarà tutto mio.

Eccomi qui, seduto sulla poltroncina dell’aereo: vigliaccamente, non le ho detto che ho il terrore di volare e che avrei preferito salire in auto e sorbirmi sei ore di autostrada. Ma ormai è fatta e attendo soltanto che la valeriana acquistata al supermercato faccia effetto.

Poco più di un’ora dopo l’aereo atterra e io maledico i 12 euro spesi inutilmente per il calmante, ma ringrazio sentitamente il Signore: credo di aver sfiorato l’infarto almeno una quindicina di volte. Mi ha scritto che in aeroporto l’avrei riconosciuta perché avrebbe indossato un vestito tutto giallo e infatti è la prima macchia colorata che vedo fuori dal gate. È bellissima. Ha una lunga coda di cavallo e i lineamenti del viso sono marcati, ma gentili.

Ci avviciniamo e scambiamo una stretta di mano. «Sono felice di vederti, finalmente! Posso abbracciarti?» mi dice.
“Devi” penso. Ci dirigiamo verso la sede dell’evento e lì è un tripudio di saluti e parole mentre io desidero solo poter bere un calice di prosecco con lei. Lo facciamo qualche ora dopo durante un aperitivo lontano da tutti prima della cena aziendale. Durante quell’oretta trascorsa insieme mi stupisce con quanta naturalezza ricreiamo la sintonia delle nostre telefonate quotidiane. Anzi, è meglio, molto meglio. Sono emozionato come un ragazzino.

Il giorno dopo siamo assorbiti dal lavoro e ci vediamo poco, ma abbiamo un piano per la serata: eludere la solita cena tra colleghi per poter stare insieme in santa pace. Lei usa la scusa di un mal di testa, io del troppo caldo. Usciamo furtivamente dall’albergo ridendo come due pazzi e dirigendoci in taxi verso i Navigli, una zona sufficientemente lontana da quella dove si ritrovano i colleghi.

«Parola chiave della serata?» mi dice mentre addenta una fetta di pizza superfarcita.
«Leggerezza» rispondo aggiungendo: «Con te tutto sembra più leggero, più colorato, meno difficile». Nulla di originale, ma è quello che sento. Stare con lei mi regala una sensazione di profondo benessere, di armonia.

È una persona autentica, cristallina, sincera.
La serata è bellissima. Mentre facciamo una passeggiata lungo il Naviglio, la vedo rabbuiarsi.
«E cosi domani ritorni a Napoli» dice guardando davanti a sé.
«Purtroppo sì» rispondo.
«Come purtroppo? Non volevi nemmeno venire!» scherza.
«Ribadisco il purtroppo, Gabri».
«Perché?» mi chiede, fermandosi davanti a me in attesa di una risposta.
«Per te». Mi sorprendono le sue braccia intorno al mio collo, le sue labbra sulle mie. È un bacio lungo, travolgente, sensuale e il suo corpo aderisce perfettamente al mio. Torniamo in albergo e poi di corsa in camera sua. Da anni non sentivo una passione così intensa per una donna. Forse perché sapevo sarebbe arrivata lei e mi avrebbe rubato la testa, il cuore e l’anima.
L’alba ci trova l’uno dentro l’altra e io non so cosa ne sarà di noi. «Gabri, io non sono un romanticone, anzi. A volte sono troppo diretto, poco avvezzo alle smancerie. Ma se vuoi conoscere qualche mio pregio, potrei offrirti una limonata fatta con le mie mani». «Una limonata?» risponde stupita.
«Sì. Una limonata ai fiori di sambuco. Una delle cose che so fare meglio perché ci metto tempo e passione. Le stesse cose che vorrei ci mettessimo io e te. L’alchimia è un cocktail perfetto. Posso ospitarti a casa mia il prossimo weekend?».
Sorride e le brillano gli occhi. «Accetto, ma solo perché la limonata ai fiori di sambuco m’incuriosisce. Se mi piace, ne voglio bere almeno cento bicchieri». Mi perdo nei suoi occhi di velluto. «Tutti i bicchieri che vuoi, Gabri».

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